CINEMA: I film visti da Franco Pecori14 Febbraio 2009 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera.  È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.] ExEx Ma quanto amore! Pulito, aggraziato, delicato, fluido. Si può scegliere liberamente  tra le storie di sei coppie, tutte divertenti, nessuna ridanciana, nessun Natale preconfezionato, nessuna crociera. Tutta gente per bene. Gente che vive nel mondo di oggi, con un sacco di problemi, tra cause di divorzio e false vocazioni religiose, tra inutili gelosie e psicoterapie; gente di mezza età e gente giovane, con i problemi di famiglia, di rapporti figli-genitori, di ansie da lontananza, di vedovanze da risolvere, di autenticità da recuperare. Tutta gente che conosciamo bene, parla come noi, ha le nostre stesse reazioni. Nostre o dei nostri amici. Qualche dolore, qualche lacrimuccia perfino, ma nessun problema veramente serio, che non si possa risolvere con i nostri  buoni sentimenti. In fondo,  ne abbiamo tutti e prima o poi avremo occasione di dimostrarlo a noi stessi. Una di queste occasioni, tra le più comuni, è quando in amore diventiamo “ex”, è un crocevia molto frequentato – per saperlo non c’è bisogno di stare incollati davanti ai talk show. Brizzi lo sa bene e fa di tutto per renderci la vita semplice, montaggio svelto ma non aggressivo, stacchi rapidi come in pubblicità ma con insistenze allusive più morbide, senza deragliare in metafora commerciale.  Il regista fa tesoro del suo  successo (Notte prima degli esami)  e perfeziona un  racconto – sembrano tanti ma è uno solo – trasparente, cosciente delle nostre propensioni e attitudini di spettatori un po’ stanchi di tanta  tipicità grossolana. La sceneggiatura è levigata, non ha sussulti, lascia con discrezione i  sentieri che minacciano di divenire aspri, apre a generose  benevolenze “umane”, il “perdono” è dietro l’angolo purché ciascuno sappia, al dunque, ritrovare il lato migliore di  sé. Un prodotto non facile da costruire. Il risultato c’è, degno del progetto, grazie anche alla bravura degli attori tutti, utilizzati secondo le loro caratteristiche consolidate. Il cast risulta davvero ben articolato. Questo piccolo grande amoreQuesto piccolo grande amore «Solo un piccolo grande amore, niente più di questo »? L’alone della canzone di Claudio Baglioni (1972, definita poi, in un’edizione del programma Tv Fantastico, “La canzone italiana del secolo”) non è svanito e il motivo regge bene al  ritorno dei decenni. L’evocazione di sentimenti  amorosi era delicata, velata da un  lieve senso di nostalgia giovanile e tale resta. Parliamo del musicista e della sua musica perché questo primo film di Riccardo Donna, regista finora televisivo, è dichiaratamente costruito sulla traccia dei pezzi dell’album di Baglioni, le cui canzoni raccontavano una vera e propria storia completa. La sceneggiatura era già nel 33 giri, Ivan Cotroneo e lo stesso Baglioni  l’hanno adattata al cinema come si fa con i libri che diventano film. Sbagliato sarebbe riandare più indietro,  all’epoca dei “musicarelli” degli anni ’50-’60, quando Elvis  Presley era Il delinquente del rock’n’roll  (Richard Thorpe, 1957) e la sceneggiatura per Domenico  Modugno, Giovanna Ralli e Vittorio De Sica  (Nel blu dipinto di blu, Piero Tellini, 1959)  la scrivevano Ettore Scola e Cesare Zavattini, quando Gianni  Morandi cantava a Laura Efrikian Non son degno di te e Caterina Caselli urlava Nessuno mi può giudicare (Ettore Fizzarotti, 1965 e ’66): si rischierebbe di andare fuori tema perché in quei “filmetti” di allora si respirava un’aria di ottimismo da boom (economico) da cui oggi siamo ben lontani e perché, in QPGA,  il metodo di trattare la materia musicale si distacca dal pretestuoso opportunismo di storielline misurate sul fuggevole impatto di una  canzone di successo.  Il Piccolo grande amore di Donna è un prodotto ben più consapevole. Il regista rivisita i primi anni ’70 non ignorando certo l’eccentricità del modello culturale che Baglioni rappresentò in un’epoca di “impegno”  esclusivo. Dal film traspare, al di là della carica emotiva della storia d’amore di Andrea e Giulia (bravi e ben scelti i due giovani attori, Bosi e Petruolo), una quasi esplicita rivincita sentimentale su un predominio ideologico  mal digerito. Proprio le sequenze iniziali, della manifestazione dei giovani per la pace con l’intervento della polizia, sembrano le  meno riuscite, esterne allo spirto del film, che invece prende il tono più giusto quando asseconda le fantasticherie dei due ragazzi, seguendoli, anche con  spiritose invenzioni coreografiche,   nella loro storia d’amore. I brani musicali indicano la via del racconto e riportano al presente quella storia. In sostanza, QPGA va preso come un fumetto musicale, che illustra la poesia di Baglioni. Venerdì 13Friday the 13th Perché quel gigantesco energumeno di Jason Voorhees (Mears) ce l’ha tanto con chiunque si  inoltri nel territorio da lui controllato, il bosco di Crystal Lake con i suoi cottage dismessi? Perché vuole demolire uno dopo l’altro quel gruppo di  giovani in gita? Sono da ammazzare perché sono sciocchini?  Lungi da noi simili aberrazioni ideologiche, né d’altra parte  intendiamo psicoanalizzare lo spettatore indagando sulle sue identificazioni, o sulle ragioni per cui prediliga  questo sottogenere di  horror. Provi comunque, intanto, a confrontarne le strutture con quelle di altri generi, il western, la commedia, il musical, il thriller, scegliendo esempi classici. Si accorgerà almeno di una differenza di fondo, che film come Ombre rosse, Accadde una notte, Seguendo la flotta, Il sospetto è impossibile scambiarli con la “realtà ”: gli autori (il cinema d’autore nei generi!) utilizzano in maniera rigorosa i rispettivi codici narrativi ed espressivi, non rinunciando  per questo  a lasciare le loro  impronte (perfino ideologiche) sul terreno della tradizione. Il film di Nispel (già rifacitore, nel 2003,  del Tobe Hooper di Non aprite quella porta, 1974)  riprende il filo della leggenda di Jason, nato una sessantina di anni fa  in un venerdì 13 giugno e protagonista di una decina di titoli, dal  Venerdì 13 di Sean Cunningham (1980) in poi,  con un prologo introduttivo di cui  in verità  si poteva fare a meno. Infatti siamo semplicemente chiamati a seguire una catena ripetitiva di “assalti con macete”, organizzati secondo una sequenzialità così prevedibile da sembrare anche provocatoria. Per il senso del film, il regista mostra così  di affidarsi anima e corpo ai precedenti. Ciò deporrebbe a favore di una facile lettura nel solco convenzionale. Senonché la “protezione” del codice svanisce man mano che traspare l’intento di Nispel, di praticare una sorta di realismo spinto,  in cui  le esagerazioni horror sfondano il limite della verosimiglianza interna alla narrazione per debordare nella stessa “realtà ” del vissuto comune. E allora non si tratta  tanto di un aggiornamento della struttura “Jason” quanto piuttosto della cancellazione della leggenda: Jason esce dalla scena, diviene “osceno” e invade le nostre coscienze percettive, proponendosi come minaccia “presente”, non artistica. O, in altri termini, infantile: di un’infanzia mostruosa,  povera di fantasia. Letto 2268 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||