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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

7 Marzo 2009

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera.  È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]

Giulia non esce la sera

Giulia non esce la sera
Giuseppe Piccioni, 2009
Valerio Mastandrea, Valeria Golino, Sonia Bergamasco, Domiziana Cardinali, Jacopo Domenicucci, Jacopo Bicocchi, Sara Tosti, Chiara Nicola, Fabio Camilli, Sasa Vulisevic, Paolo Sassanelli, Lidia Vitale, Antonia Liskova, Piera Degli Esposti.

La difficoltà, superiore rispetto alla media, di riconoscere nel film, dopo averlo visto, le sinossi per la stampa, depone tutta a favore del lavoro di Piccioni, regista sensibile (Fuori dal mondo, Luce dei miei occhi, La vita che vorrei) al valore morale dei contenuti e alle problematiche estetiche che agli stessi contenuti danno forma. Non facile da raccontare, per il forte rischio di banalizzazione referenziale, Giulia non esce la sera accumula temi e tende a cancellarne gli “svolgimenti”, in una ricerca progressiva di dettagli preconizzatori e insieme decostruttori di senso. Da questo lato, la “scrittura” del film si identifica con il carattere del protagonista, Guido (Mastandrea), scrittore proiettato dalla macchina editoriale verso la finale di un premio importante; scrittore che non sa come sia potuto diventare scrittore, marito e padre straniato, uomo/ragazzo in cerca di identità. Guido (si chiamava così anche il Guido/Mastroianni, regista in crisi nel felliniano 8 e 1/2 del 1963), mentre si prepara con scetticismo alla serata del premio, assistito/oppresso dalla sua editrice – Degli Esposti in forma smagliante -, continua a scrivere altre storie, frammenti di immaginazione disorientata, che si confrontano con il suo quotidiano sempre più complicato e disarticolato. Guido non è un romanziere, non gli riesce di esserlo – e questa è una delle chiavi di lettura del film, un contest letteratura-cinema aggiornato al presente non-dialettico quale oggi ci tocca vivere; dicono di lui che sia uno scrittore (salvo abbandonnarlo al suo destino quando si “dimentica” dell’appuntamento per un’importante intervista), ma a lui riesce difficile tradurre in parole le sorprese della propria vita. Una di queste sorprese è l’istruttrice di nuoto della figlia Costanza (Cardinali). Quando la ragazza, stanca della piscina, lascia il posto al padre, Giulia (Golino) e Guido entrano in uno strano rapporto, difficile e facile, fatale, irrinunciabile, disvelatore, fuor di ragione. Improvvisamente Giulia rivela a Guido la propria condizione di detenuta con permesso di lavoro. È una confessione che paradossalmente pone l’uomo di fronte alla sua solitudine, al dramma irrisolvibile della sua insoddisfatta esistenza. Guido non sa cosa scrivere e non sa cosa fare, non vuole più la moglie, non ha il coraggio di lasciarsi andare con Giulia. L’esito sarà drammatico, senza che però si scivoli nel romantico. Giulia capisce, ha una figlia che non vuole più vederla, non avrà l’uomo che avrebbe potuto salvarla. L’amarezza coraggiosa della sospensione lascia il film a mezz’aria, come nell’attesa capovolta di un futuro che non può venire. La fine della donna è fredda, l’uomo è dinanzi al seguito inutile della sua scrittura. Piccioni si avvale di un direttore della fotografia, Luca Bigazzi, bravo nel non lasciarsi coinvolgere emotivamente, mantenendo invece la giusta distanza dagli “oggetti” del film, come fotografasse il solo mondo possibile col solo occhio possibile, esterno, contemporaneo. Apprezzabile la prova dei due protagonisti, una Golino contenuta e “cosciente”, un Mastandrea che sa limitare al minimo le sue più risapute ironie per attingere con prudenza a rappresentazioni responsabili.
 

La Pantera Rosa 2

The Pink Panther 2
Harald Zwart, 2009
Steve Martin, Jean Reno, Alfred Molina, Emily Mortimer, Aishwarya Rai Bachchan, Endy Garcia, Lily Tomlin, John Cleese, Yuk Matsuzaki, Geoffrey Palmer.

«La Sacra Sindone! Portare subito in tintoria, lavaggio a secco! ». Non è uno scandalo se ad esprimersi così è  l’inarrestabile ispettore Clouseau. E non è solo questione di personaggio, è che “dissacrazioni” di questo genere sembrano ormai affievolite nell’impatto, abituati come siamo a ben altre  “esagerazioni”, di tutti i tipi. Le arguzie involontarie di Clouseau, le sue sistematiche  decontestualizzazioni rischiano di sembrare “acqua fresca” ad un pubblico incarognito nello spettacolo volgare della cronaca. E d’altra parte, se il Papa appeso ad un pennone sotto la finestra di Piazza San Pietro non turba più di tanto, questa replica della Pantera aggiornata ai tempi nostri fa rimpiangere la sublime leggerezza del Clouseau/Sellers (Blake Edwards, 1963). Sequel del revival 2006 (la Pantera Rosa  di  Shawn Levy), questa continuazione di Zwart ha l’aria di essere inutile, coglierne il senso diventa un problema. Non che Martin non sia bravo, si vede anzi che deve aver lavorato molto al perfezionamento del personaggio. Il fatto è che di “imbecillità” poliziesche è possibile coglierne di più realistiche (e più divertenti), sicché l’iperbole e il paradosso di Clouseau finiscono per essere quasi  esempi di saggezza. Ci vorrebbe Chaplin, ma i baffetti di Steve Martin non bastano.
 

Watchmen

Watchmen
Zack Snyder, 2009
Malin Akerman, Billy Crudup, Matthew Goode, Jackie Earle Haley, Jeffrey Dean Morgan, Patrick Wilson, Carla Gugino, Matt Frewer, Stephen McHattie,   Laura Mennell, Rob LaBelle, Gary Houston, James Michael Connor, Mary Ann Burger, Dan Payne.

Sopravvalutabile. Capita che i fumetti per adulti cerchino l’alibi delle “idee” per nobilitare un divertimento che non vogliono far sembrare  sempliciotto. E siccome l’interpretazione del senso risulta, in superficie, complicata,  potrebbe proprio sembrare  che all’intento nobile (il divertimento) corrisponda un risultato artistico, cinematografico in questo caso, altrettanto degno. Si può stare al gioco e, tacendolo agli ingenui, recepire la “complessità” del racconto come rivolta ai più colti – almeno in fumetti, ma non sarebbe disdicevole anche in filosofia, storia e storia dell’arte. Bugia gratificante. Rinunciando a darci arie da esperti di graphic novel (il film si basa su uno di tali capolavori, di Alan Moore e Dave Gibbons, 1986-’87) e dimenticando   che il regista Snyder è il medesimo di una “lezione di storia” dal titolo 300 (2007), prendiamo Watchmen per quello che è, un film  sbalorditivo e complessato, che usa le tecniche digitali per dare corpo a supereroi aspiranti all’eternità e miseramente ancorati alle nozioni più elementari  sui destini del pensiero. Frustrati dall’esser stati messi da parte, i componenti di una ex banda di “sentinelle” votate alla giustizia-fai-da-te tentano di riprendersi il sacro  potere di aggiustare del cose dell’umanità. Storicamente, siamo sull’ordo della guerra atomica, Nixon, l’Unione Sovietica, il comunismo in Sudamerica, insomma la metà degli anni Ottanta. Culturalmente, siamo nel miraggio idealistico dei buoni e dei cattivi da mettere al loro posto, facendo spazio anche ad un amore romantico – non guasta mai. Unforgettable, come suggerisce la canzone del promettente inizio, con quella “scazzottata” che da sola ci autorizzerebbe a considerarci già  quasi soddisfatti. Senonché vogliamo capire cosa c’è sotto e, se non siamo più che attrezzati, rischiamo di entrare in confusione. Quel certo Rorschach (Jackie Earle Haley), fissato com’è che qualcuno stia complottando contro i benefattori mascherati, è sull’orlo della pazzia, ha in mente di proteggere la società a modo suo. E intanto un tizio  di colore (blu),  il Dottor Manhattan (Bill Crudup),  un po’ fluorescente, s’è messo in testa che il problema della vita non è poi così importante, tanto che se n’è andato su Marte e si sente un semidio (piega la materia alla sua volontà), salvo poi a cedere nientemeno che all’amore per una donna, ex mascherata anche lei. Non manca il cattivissimo, Adrian (Matthew  Goode), solita faccia da schiaffi, il più intelligente della banda, che viaggia ad alta quota pensando di trattare gli altri da poveri scemi. Nella confusione pop, si affacciano idee politiche ardite e contrastanti, coperte da un populismo di facciata, apparentemente disvelatore di una certa umanità delle figure in azione, la “verità” delle quali  non ci viene mai del tutto rivelata, quasi che il regista lavorasse tra loro “sotto copertura”.
 

Verso l’Eden

Verso l’Eden
Constantin Costa-Gavras, 2009
Riccardo Scamarcio, Juliane Köhler, Ulrich Tukur, Anny Duperey, Antoine Monot Jr., Konstandinos Markoulakis, Kristen Ross.

Un Costa-Gavras leggero, poco credibile. L’autore de L’Amerikano (1972) si porta dietro da sempre il problema del realismo socialista  inteso come rispecchiamento. Coltivato nel falso scopo dell’obbiettività (dell’obbietivo), il cinema tradisce insofferenza per un’estetica che lo vede subordinato al referente. E lunghe sono state le discussioni teoriche sulla consistenza dello “spercifico” e sull’importanza del cinema nel sistema dei massmedia. Difficile comunque, soprattutto per un regista-autore, prescindere dalla griglia dei generi e degli stili. Qui Costa-Gavras vuole agganciare l’impegno del tema – il mito dell’Occidente/Paradiso per il Sud povero del mondo – ad un tono che contraddica le aspettative di uno  spettatore  avvezzo a  film come Missing o come Cacciatore di teste. Il lato drammatico della vicenda di Elias (Scamarcio)  non esplode, non turba le coscienze “europee”. Il giovane arriva sì con uno dei soliti barconi di disperati (momento breve e intenso di realismo del già visto), ma poi la sua avventura si disperde in una serie semifarsesca di situazioni “casuali”, rese possibili dal contesto straniante e dalla difficoltà di comunicazione – lingue, costumi, falsi scopi.  A più riprese, il film prova a spiccare il volo verso il mondo della “fiaba”, suggerendo un senso metaforico netto e non “pesante”, quasi volesse rendere anche “divertente” il portato tipologico della storia. Intento da non disprezzare. Tuttavia si avverte nelle sequenze una sorta di disagio per l’inverosimiglianza (interna) dello sviluppo. E il lavoro affidato agli occhi di Scamarcio si dimostra troppo impegnativo. Il protagonista deve destreggiarsi nella sua corsa ad ostacoli verso Parigi, forzando le diverse situazioni (simboliche) in chiave di “muto”. E Scamarcio non è Keaton né Chaplin. Il film fa simpatia, ma resta sulla carta. Tema importante con leggerezza: non è nelle corde del regista.
 

Live! Ascolti record al primo colpo

Live!
Bill Guttentag, 2007
Eva Mendes, David Krumholtz, Eric Lively, Katie Cassidy, Jeffrey Dean Morgan, Rob Brown, Jay Hernandez, Monet Mazur, Andre Braugher, Missi Pyle, Curtis “50 Cent” Jackson, Paul Michael Glaser.

Il problema della televisione non è così semplice: sei concorrenti, 5 milioni di dollari, un solo proiettile nel tamburo di una pistola. Il format della roulette russa in diretta, inventato dalla produttrice di un network americano,  Katy Courbet (Mendes), la quale dalla vita vuole una cosa sola, il «40 di share », fa sensazione, ma non è veramente diverso da tutta l’altra Tv. È questo che il film di Guttentag (due Oscar per due documentari, You don’t have to die, 1989, e Twin Towers, 2003) non chiarisce. E venendo da un documentarista, il film si carica anche della responsabilità di una verosimiglianza ambigua, mescolando nella narrazione analogie televisive e rimandi al cinema-verità (Katy è “tallonata” da Rex/Krumholtz, che nel frattempo è impegnato in un film inchiesta proprio su una certa Tv). Si rafforza così  l’idea della giustezza della tesi  morale: il “reality” è la nostra  rovina. Purtroppo il guaio sta più in basso. Il problema della televisione è l’equivoco che trasmette, di essere semplicemente il doppio non mediato  della “realtà”. Sicché ci possiamo scandalizzare per la “morte in diretta” mentre prendiamo per documenti “diretti” le banalità usuali e gli indici di comportamento che quotidianamente  vanno a formare  il nostro “normale” immaginario. Sarebbe già qualcosa se di Live! si apprezzasse quello che ci è parso il vero  momento critico: nella selezione dei concorrenti e cioè nella costruzione delle loro figure rappresentative di un ventaglio sociologico che possa colpire la sensibilità del pubblico,  le persone  si raccontano con un linguaggio che è già il risultato di un’artificiosità. Essi sono già  prodotti della televisione prima ancora di diventare personaggi dello show. E proprio per questo vengono scelti. A fronte di tale analisi,  il contrasto  tra dirigenti del netwotk, che finiscono per convincersi di stare impegnandosi per la «libertà di pensiero », e i dimostranti che contestano il programma gridando «No all’immoralità » risulta debole, interno alla  “filosofia” televisiva. Brava comunque la protagonista ad immedesimarsi nella parte. A livello di sceneggiatura, il film presta il fianco a qualche rischio di troppo,  lasciando allo spettatore l’ipotesi, catastrofica per il successo dello show in diretta,  di scansioni diverse nel gioco della  pistola. Per esempio, muore il primo concorrente, oppure sopravvivono i primi cinque. L’ultimo che dovrà fare? Si scopre, in fondo, che per contestare una certa Tv si usano gli stessi suoi mezzi. Soltanto, al cinema. Viene in mente l’epoca “primitiva”, quando le sale cinematografiche, per evitare il vuoto in concomitanza con la trasmissione di Lascia o raddoppia, offrivano agli spettatori del giovedì sera la possibilità di seguire   il quiz sui televisori appositamente allestiti.
 

The Wrestler

The Wrestler
Darren Aronofsky, 2008
Mickey Rourke, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Mark Margolis, Todd Barry, Wass Stevens, Judah Friedlander, Ernest Miller, Dylan Keith Summers, Giovanni Roselli, Gregg Bello, Ron Killings, Elizabeth Wood, Tom Faria, Andrea Langi.
Venezia 2008: Leone d’oro. Golden Globe 2009: Mickey Rourke at.

Metafora del cinema. La magia del cinema che si rinnova pescando nell’inesauribile pozzo della propria mitologia e della tecnica capace di riprodurla. Aronofsky (L’albero della vita, 2007) conferma la sua visione un po’ fantastica, un po’ mistica, di un mondo dove è vietato morire e dove la rinascita è ciclica, dove una fine non è che il primo momento di un inizio. È un cinema che non fotografa oggetti, bensì li crea a propria immagine e li “salva” nel museo vivente, autoriproducentesi nella mostra infinita delle proprie maschere, dei tipi, dei modelli, delle prospettive che dal nulla vanno verso il nulla per tornare nelle coscienze delle generazioni, senza speranza. Ossia con l’unica speranza che la vita si può vivere cercandola nella finzione, finzione di umanità, finzione di verità soggettiva, aggrappata alle stelle, lassù. Lassù qualcuno mi ama (1956 ) e via dicendo nella strada stretta e larga dei cuori generosi, degli sguardi chiari e dolci anche umidi, dei muscoli disponibili alla sfida impossibile. Aronofsky, impudico, ha scelto Rourke, preso dalla vita che lo ha preso dal cinema che lo ha dato alla boxe che lo ha restuito allo schermo nella finzione del sangue sputato per vivere una vita finta e dolorosa, gloriosa della vittoria convenuta, della sconfita pattuita. Un salto nel vuoto nella speranza che il telo laggiù non si sfondi, nella superstizione che il cinema resista. I cancelli del Cielo, Brivido caldo, Rusty il selvaggio, Nove settimane e 1/2, Angel Heart, Sin City: Cimino, Kasdan, Coppola, Lyne, Parker, Miller: 1980-2005, una storia del cinema, del cinema che resiste all’usura della finzione. In mezzo, la parentesi “vera” della crisi personale. Pugile professionista per sopravvivere alla decadenza  – amori, droghe, pazzia che confonde  spettacolo  e privato – Rourke rientra ora  nel cinema in un sussulto omogeneo di esibizione fiabesca e sfrontata. Il regista gli dà lo stile, gli appresta  un tono  sporco e sexy, funky, dentro cui calarsi e immedesimarsi. Facile la scelta del wrestling, impronta mitologica (grecoromana) per una violenta finzione della violenza. Il ring fa male eppure vive di falsità. Wrestler Randy (Rourke) non si rassegna, cerca fin che può di alimentare la propria messa in scena intima, anche oltre la resistenza fisica, oltre l’infarto. Lo spettacolo si dona allo spettacolo senza riserve, a costo di rimetterci gli affetti, una figlia, un’amante (Marisa Tomei degna di Oscar). Lo spettacolo non si limita ad una persona, non può. Il volo è nel vuoto, ma vedrete che il cinema laggiù reggerà.
 

Due partite

Due partite
Enzo Monteleone, 2009
Margherita Buy, Paola Cortellesi, Isabella Ferrari, Marina Massironi, Carolina Crescentini, Valeria Milillo, Claudia Pandolfi, Alba Rohrwacher.

Prendono corpo, vivono. Il passaggio dal testo (la commedia di Cristina Comencini, interpretata  con successo a teatro  da Buy, Cortellesi, Ferrari e Massironi)  al film avviene nel rispetto dei linguaggi e  i personaggi non restano sulla carta. Gran parte del merito va alle attrici, tutte brave – e pensare che, di questi tempi, si fa fatica  a trovare nei film italiani anche una sola buona interpretazione femminile; ma il lavoro di Monteleone (La vera vita di Antonio H., 1994, El Alamein, 2002) non è  meno decisivo. L’unità di luogo è più difficile da sostenere nel cinema rispetto al teatro. Il valore convenzionale del palcoscenico è più forte, all’apparenza, del tramite ottico della macchina da presa. Come in ogni film basato sul testo, in cui cioè le battute sono non solo fondamentali ma occupano  tutto l’orizzonte della storia, il problema è misurare l’incidenza delle immagini-sonore/dinamiche-montate (cinema) sulla parola  di origine.  Qui il regista usa il cambio d’inquadratura in maniera implacabile, quasi ossessiva: stacchi, carrelli, taglio dei piani, giravolte, quasi una giostra in cui i caratteri diventano gesti, i volti rivelano segreti, parlano di tutta un’epoca e insieme di situazioni soggettive, dettano prospettive per una riflessione non solo generazionale ma complessiva, relativa alla memoria femminile di un mondo che sembra passato e che invece rinnova e traduce  il suo problema col passare dei decenni. Amiche fin da bambine, Gabriella (Buy), Beatrice (Ferrari), Claudia (Massironi) e Sofia (Cortellesi) si ritrovano ogni giovedì per giocare a carte, per chiacchierare, per stare un po’ insieme. Nella stanza accanto, le figlie giocano a ritagliare figure dalle riviste e a mimare i discorsi delle loro  madri borghesi. Siamo negli anni Sessanta, prima del Sessantotto, ancora  “lontano dal  paradiso”.  Le signore parlano dei mariti, degli amanti, delle insoddisfazioni, dei sogni infranti. Utilizzano formule stereotipe per una critica semicosciente  degli stereotipi di vita, sotto ai quali si nascondono “verità” più o meno inconfessate. Beatrice è incinta, a dieci giorni dal parto, i suoi primi  spasmi scandiscono la progressione di uno psicodramma che avrà la sua svolta proprio con la sirena dell’ambulanza. Magistrale il passaggio di regia che ci porta in avanti di 30 anni e, quasi senza che ce ne accorgiamo, ci fa partecipi di una “replica” emozionante, alla quale non eravamo preparati e che dà nuova profondità alle vicende del quartetto iniziale. Le bambine che giocavano nella stanza accanto sono ora loro le donne di un quartetto altro. Sara (crescentini), Giulia (Rohrwacher), Cecilia (Milillo) e Rossana (Pandolfi) sono amiche come le loro madri. Sono diverse d’aspetto, mutate, ma non tanto da non suggerire un confronto tra sentimenti, energie, dolori e fatica di vivere. L’impressione è che, mutato il linguaggio, la sostanza sia per molti versi  paragonabile e che il mondo femminile non abbia ancora trovato un’armonia esistenziale nella società. Il film, come il testo teatrale, non è privo di dialettica.  Tuttavia la sofferenza che trasmette lascia pensare in vista di un futuro le cui premesse chiamano a profonde  riconsiderazioni. La diversità delle figlie, se da una parte sembra segnare uno stacco antropo-sociologico innegabile all’evidenza, è anche l’indice di una continuità irrisolta, tutta da verificare.  Un film attuale, fuori da banali “rispecchiamenti”.


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Bart