CINEMA: I film visti da Franco Pecori14 Marzo 2009 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera.  È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.] La matassaLa matassa «Tagliare i fili e buttare via la matassa ». Il consiglio è di Don Gino (Caruso), il prete che, in scena, racconta la storia e fa la morale. I fili sono quelli delle ragioni di ciascuno:  «si ingarbugliano e formano una matassa ». Può risultare complicato, ma converrà semplificare se si vuol vivere in pace.  Farsa con morale. Il cabarettisti  Ficarra & Picone, al terzo film (Nati stanchi, l’esordio del 2001) e alla  seconda regia con Avellino (Il 7 e l’8, 2007), provano ad articolare un po’ di più  il racconto, ma in sostanza sono i gesti decisamente giocati sul tipico a caratterizzare l’umorismo del duo. Si sfiora a tratti la comicità senza che esploda la risata.  Vuol prevalere  l’intento critico, della società e della mentalità siciliana in particolare (siamo a Catania), specie quando entra in gioco la mafia. Si sorride senza un attimo di tregua in una girandola di caratterizzazioni, in cui il pubblico può facilmente riconoscersi.  Paolo (Picone) e Gaetano (Ficarra)  sono due cugini che “ereditano” i contrasti dei rispettivi padri, aggrovigliando la matassa di equivoci e incomprensioni fino a renderla apparentemente inestricabile. Ma finirà bene, grazie ai buoni uffici di Don Gino e al buon carattere dei due protagonisti, i quali, l’uno timido e ingenuo e l’altro traffichino e furbastro,  sono in fondo due bravi ragazzi. Il trucco dell’agenzia matrimoniale (matrimoni finti per “sistemare” giovani straniere) è descritto in modo tanto grottesto da  risultare “perdonabile” e i mafiosi che pretendono il pizzo sulla gestione dell’albergo, ereditato da Paolo dopo la “lite” familiare durata decenni,  sono così macchiettistici da meritare “indulgenza”. Nessun vero cattivo, solo tipi buffi come se ne incontrano tutti i giorni. Gran TorinoGran Torino Eastwood conferma: non è un paese per vecchi. Ultimo di una serie aperta nel 1992 (Gli spietati) e continuata  con film progressivamente equilibrati nell’insistita e sofferta ambiguità (non è una parolaccia) del giudizio morale – da  Debito di sangue (2002) a  Mystic River (2003), da Million dollar baby (2004) alla doppia riflessione sulle opposte faccie della  battaglia contro i giapponesi (Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, 2006), fino al più  recente Changeling – questo ultramaturo Gran Torino suona come un drammatico, dolorosissimo testamento. Il regista/attore sembra giunto al culmine dell’indentificazione con la propria maschera. Ruvido in volto, ormai “vecchio”, pesca con lucidità nella propria coscienza il dubbio della memoria, riflette sul passato (la guerra in  Corea)  che gli pesa come un macigno e vede nel presente l’orrore di un degrado che gli rende  insopportabile la solitudine.  A Walt Kowalski, rimasto vedovo (il film si apre col funerale della moglie), restano la Ford “Gran Torino” del 1972, che tiene lucidata e pronta in garage, la “ragazza” Desy (così chiama il suo cane inseparabile) e la scorta inesauribile di birre. D’attorno, una folla di “musi gialli” (sono quelli cacciati dalla Corea dopo la dipartita degli americani), dai quali gli sembra di dover difendere il praticello della sua villetta, e bande di giovinastri che conoscono soltanto il linguaggio della tracotanza e della violenza. Nessuna amicizia, completa incomprensione con figli e nipoti. «Lei sa più della morte che della vita », gli dice spietato e inesperto il giovane  prete. E della morte Kowalski sente su di sé sempre più  la presenza  quando il caso gli offre un rapporto umano,  proprio con la  gente Mong che abita accanto a lui. L’arroganza dei teppisti colpisce i vicini e la diffidenza si trasforma in solidarietà . Walt, il veterano solitaro, non sopporta che qualcuno spadroneggi impunemente. Indebolito dagli anni e dalla salute ormai malferma, il vecchio sente che la sua epoca è andata. Ma non fino al punto di non dover testimoniare con un ultimo gesto (finale  a sorpresa)  l’orgoglio di una morale finalmente  rispettosa del diverso e contraria alla vendetta del “giustiziere” (ricordate Callaghan?). Nessuna grande scena.  Dalle pieghe profonde  della coscienza di un artista “vissuto”, un grande film “minore”. Letto 4359 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by travel — 24 Luglio 2013 @ 03:03
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