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CINEMA: I film visti da Franco Pecori

11 Aprile 2009

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]

Sbirri

Sbirri
Roberto Burchielli, 2009
Fotografia Gigi   Martinucci
Raoul Bova, Luca Angeletti, Simonetta Solder, Alessandro Sperduti.

Lo sapevate che i giornalisti, anche quelli della Tv, hanno una vita privata? E che i poliziotti, specie quelli dell’antidroga, sono impegnati quotidianamente nelle grandi città a bloccare piccoli spacciatori cogliendoli sul fatto? E lo sapevate che di sera e di notte in alcuni luoghi di Milano le pillole di ecstasi e le dosi di cocaina circolano anche tra i minori? E che può succedere che un ragazzino, un sedicenne, magari per una volta che il padre, giornalista, si è fidato a dargli il permesso di fare un’uscita un po’ diversa, può lasciarci la vita? Se lo sapevate e se non sentite il bisogno di una “documentazione” costruita per il cinema, con la faccia di Raoul Bova che fa il giornalista, allora non siete nel target del film. Se invece avete ancora fede nel “notiziario” e credete che sia  diverso dalla  “fiction” e dal  “reality” e se, una volta al cinema, non avvertite la differenza nemmeno col cinema, allora godetevi questi Sbirri di Burchielli. Il regista milanese, passato dalla Tv al cinema con il musical Come se fosse amore (2002), si tuffa ora nella “realtà” di cui sopra, convinto che si possa semplicemente cancellare l’aspetto oppositivo tra “realtà” e “finzione”, con un lavoro di tipo documentario, sottoponendo gli attori ad un esercizio di “assuefazione”.   Si dimentica così che la realtà non può essere improvvisata e che, all’opposto, l’improvvisazione non può essere convogliata facendo finta di niente. A parte ciò, il film ha comunque un suo stile grossier, che agli assuefatti di ogni tipo e di ogni livello non dispiacerà.

Duplicity

Duplicity
Tony Gilroy, 2009
Fotografia Robert   Elswit
Clive Owen, Julia Roberts, Tom Wilkinson, Paul Giamatti, Carrie Preston, Thomas McCarthy, Wayne Duvall, Christopher Denham, Kathleen Chalfant, Eliezer Meyer, Rick Worthy, Robert Bizik.

Non è certo la prima volta che Julia Roberts, indimenticabile Pretty Woman (1990), s’impegna in parti di una certa  complessità. Lo ha fatto sotto la direzione di registi come Soderberg (Ocean’s Eleven), Clooney (Confessioni di una mente pericolosa), Nichols (Closer, La guerra di Charlie Wilson). Ora Gilroy, passando dai problemi di corruzione nel mondo degli avvocati e dei loro clienti (Michael Clayton, 2007) alla guerra spietata tra due multinazionali per una formula contro la calvizie, ha pensato di cavalcare il genere commedia romantica, “rinforzandolo” con iniezioni di thriller, confezionate su misura non solo per la Roberts ma per la coppia Roberts-Owen. I due attori sono di nuovo insieme dopo la bella prova offerta in Closer (2004). La Roberts nei panni di Claire, Owen in quelli di Ray, sono in Duplicity due tipi furbissimi, con esperienze valide nella Cia e nei Servizi britannici. Si amano ma non riescono a fidarsi l’uno dell’altra e viceversa. Non mancherà il “compenso” per uno stress così ossessivo.  Owen porta nel film anche la maschera di personaggi precedenti (Sin City, Inside Man), sicché durante lo svolgersi della trama manca il tempo per rilassarsi un momento e intenerirsi con i sentimenti dei protagonisti. Del resto l’idillio non arriva mai, un piccolo sollievo lo si potrà provare solo alla fine del film. L’avventura di Claire e Ray risulta alquanto forzata dal meccanismo narrativo, un andirivieni continuo su e giù per il calendario, dal prima al dopo e dal dopo al prima, che finisce per far perdere di senso all’intreccio degli inganni, riducendolo ad una sorta di gioco dell’oca. Nella parte dei capi delle aziende in lotta, Wilkinson e Giamatti sono bravi. Soprattutto il secondo ha il privilegio di poter sconfinare nel comico. Da un regista che aveva scritto film come The Bourne Identity e The Bourne Supremacy, era lecito attendersi un plot  pur intrigante ma meno meccanico.

Che – L’argentino

The Argentine
Steven Soderbergh, 2008
Fotografia Steven Soderbergh
Benicio Del Toro, Demian Bichir, Santiago Cabrera, Elvira Minguez, Jorge Perugorrìa, Edgar Ramirez, Armando Riesco, Catalina Sandino Moreno, Rodrigo Santoro, Unax Ugalde, Yul Vazquez.
Cannes 2008: Benicio Del Toro at.

Cuba, 1952. Il generale Fulgencio Batista con un colpo di stato instaura la dittatura. Nel 1955 l’argentino  Ernesto Guevara, nato il 14 giugno 1928  a Rosario,  conosce Fidel Castro. Nel gennaio 1959 L’Avana è nelle mani dei rivoluzionari. Il Comandante Guevara  è lì. È stata una marcia lunga e  faticosa e la rivoluzione è appena cominciata. Ma non staremo a raccontare in poche righe la storia di Guevara. Coloro i quali vorranno potranno ricordarsela e verificarne, se mai, i contenuti con quelli di questo  lavoro di Soderbergh, prima parte di un film che, diviso in due (la seconda parte, Che – Guerriglia,  esce in Italia il 1 ° maggio) racconta   l’ascesa del Che, continuando in un certo modo il film del brasiliano  Walter Salles, I diari della motocicletta (2003). In modo molto diverso, però. Il film del 2003 raccontava di un Guevara giovane, romantico, alla scoperta dell’America Latina.  Il georgiano  Soderbergh (Sesso bugie e videotape, Out of Sight, Full Frontal, Ocean’s Twelve, Bubble) si è sempre mosso nella stanza dell’ovvio, sottilmente vietata ai non-snob. Nel suo spazio estetico, arte e genere si rincorrono come attorno ad un tavolo, in un gioco che ha l’aria di non finire mai. A quattro decenni dalla morte dell’eroe, la stratificazione mitologica accumulatasi sulla figura del Che meritava forse un approccio più coraggioso, almeno nella forma espressiva. Bravo Del Toro (premiato a Cannes) nell’immedesimazione –  il momento più  efficace è quello che ci mostra l’aspetto fisico del Che cambiare in maniera vistosa e divenire più “riconoscibile” rispetto all’iconografia che ha nutrito l’immaginazione di diverse generazioni di giovani -, ma il personaggio non suscita domande sulla sua  sostanza storica.  La ragione di ciò è in buona parte dovuta alla difficoltà, che si concretizzi in un film,  di un vero confronto tra storia e cinema. La storia è insidiata, nel film, dalla  trappola della “verità” insita nel cinema (l’ “obbiettività dell’obbiettivo”). Il genere storico è sempre un problema. Guardando quindi soltanto  alla verità intrinseca del film, occorre andare oltre le interpunzioni didascaliche, che pure ci sono anche vistose. E allora, ci troveremo in un flusso narrativo in cui l’azione è il personaggio principale. Se ricordate Tambuti lontani (Raoul Walsh, 1951), l’impressione è che la distanza di quel racconto dalla storia degli indiani e del contrabbando di armi non sia, sostituito Gary Cooper con Benicio Del Toro,  tanto diversa da quella   tra la rivoluzione cubana e il faticoso  procedere del Che verso L’Avana. Non che vi siano errori storici, è che l’attenzione è attratta dal procedere dell’azione, senza significativi sussulti,  e  lo spettatore non  è mai “disturbato” da altre fatiche.


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Bart