CINEMA: I film visti da Franco Pecori23 Maggio 2009 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.] VincereVincere No, Mussolini a giustificarsi da Vespa non lo vedremo. La storia è la storia.  È passato tanto tempo, si sono riconosciute persino le ragioni repubblichine, quelle private del dittatore amante prolifico possono restare private. Magari un film, con qualche accorgimento, si può fare.  Il regista ha utilizzato i materiali documentari d’epoca per rendere presente Mussolini non solo  nella tragedia familiare che lo ha riguardato e di cui ufficialmente il “popolo d’Italia” non si accorse. Il film è strutturato in funzione di una sinergia espressiva tra “realtà ” e “finzione”. Il senso drammaturgico è giocato proprio sulla non semplice distinzione tra le due facce narrativa/stilistica, tenendo anche conto della maestria sui generis esibita dallo stesso Mussolini nella costruzione della propria immagine. Scostando il faccione del dittatore dal bianco dello schermo,  vediamo che Bellocchio racconta il dramma di una donna, misconosciuta dall’uomo che ha amato alla follia e al quale ha dato, anche materialmente, tutto ciò che aveva. Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno straordinariamente brava) e suo figlio Benito Albino (bravo anche Timi, al quale è affidata anche la parte di Mussolini giovane socialista)  vengono violentati dal loro destino. Mussolini ha sposato Rachele, tutto il resto deve restare privato per il bene della nazione e del fascismo. Riguardo all’oggi, il film non rimanda esplicitamente. Del resto, Bellocchio non è regista di film-messaggio. Anche quando si è occupato in maniera diretta di fatti politici come il sequestro Moro (Buongiorno, notte) ha puntato comunque ad un’interpretazione interna, interiore, analitica. Certo l’attualità è chiave sempre utilizzabile, se si vuole, su qualunque testo. Qui ci parrebbe interessante il possibile  confronto complessivo tra due diversi momenti della visione morale, tra il tempo in cui il valore politico (dei soldi) si traduceva in una metafora molto rigida per quanto traslata (tutto il sistema di “valori” che sottostò all’evoluzione del fascismo nelle sue forme di vita anche spicciola) e il tempo presente, in cui il sistema morale viene, inversamente, proiettato su un “progressismo” funzionalista, che tende ad adattare i “valori” a certi risultati materiali. E sono questi ultimi a prendere forma metaforica. Detto ciò, libertà completa (e ovvia) di appassionarsi alla vicenda di Ida, figura di donna leggibile anche in chiave modernissima, donna capace di trasmettere fino alla nostra generazione il senso di una lotta da combattere seguendo, invece delle vecchie e catastrofiche strategie ideologiche, l’umano e femminile impulso al riscatto della verità dei sentimenti e delle passioni. Quanto all’estetica, che ormai  non è – come già noto a qualcuno – la “filosofia del Bello” – il film ondeggia tra una prima,  sentita  istanza di verità ravvicinata, di zoom delle sensazioni e dei sentimenti, dove la Storia è come messa tra parentesi per lasciare il primo piano alle pulsioni amorose (soprattutto di Ida), e una successiva, più evidente  esibizione metodologica della ricerca (i documenti Luce sempre più insistiti).  Vincere non perde però la sua carica espressiva. Bellocchio si affida al montaggio creativo  di Francesca Calvelli e alle musiche di Carlo Crivelli (raramente si apprezza al cinema una musica produttiva di senso)  per scandire con freddezza implacabile e insieme con una  successione  continua  di invenzioni poetiche  le fasi del dramma, privato e  storico. La fotografia di Daniele Ciprì  va ben  oltre lo scenarismo d’ambiente,  definendo nella tessitura dialettica i dettagli di un chiaroscuro inclusivo ed emozionante. La messa in scena sfugge al  realismo narrativo  per costruire quadri di una metafora intensa e  più che istruttiva. Nel complesso, Bellocchio riesce a farci arrivare una sensazione di netta ripulsa per il fascismo, quale non si è  provata in tanti film più esplicitamente politici. AntichristAntichrist Abbiamo letto di un horror «malato ». E invece un horror sarebbe “sano” quando? Il problema è sempre l’arte, che sotto-sotto non si vuol riconoscere al cinema come suo diritto espressivo. Antichrist non è il miglior film di von Trier, è forse anche il meno riuscito. Però certe reazioni drastiche, o le risate in platea nelle proiezioni per la stampa, per esempio al festival di Cannes, sono un’altra cosa dalla critica. C’è stato anche chi se l’è presa con la psiche dell’autore, quando invece è risaputo che indagare sulle ragioni psicologiche del regista comporta gravi rischi di impertinenza e deviazioni dal problema del rapporto tra oggetto (il film) e spettatore. Un horror può fare ridere, certo. E però, certe risate non le abbiamo notate per altrettanti film in cui l’orrore delle mutilazioni e anche delle motivazioni non era da meno rispetto a quest’ultimo lavoro dell’ex “dogmatico” von Trier (le sue regole del Dogma, per un cinema “immediato” e senza finzioni, risalgono al lontano 1995). È vero che qui il regista danese si diverte anche un po’ sfacciatamente a caricare la scena di rallenty melodrammatici e di “apparizioni” simboliche di stampo letterario. Ma non possiamo credere che l’autore di film ultraosannati come Dancer in the dark (Palma d’oro 2000) e Dogville non se ne sia accorto. Il dramma di una madre e moglie (Gainsbourg) e di un marito (Dafoe), colpiti dalla morte del figlioletto sfuggito al loro controllo mentre erano intenti a consumare un focoso rapporto sessuale, sviluppa una serie di azioni e reazioni a catena che sfuggono all’analisi del marito terapeuta, fino alla confusione “culturale” tra psicoanalisi e stregoneria, tra natura e ragione, tra dolore e pena. L’idea del marito di portare la moglie a elaborare il dolore nella casa in mezzo al bosco dove la donna, in assenza del marito, era già stata col suo piccolo per scrivere la tesi di laurea sulla persecuzione delle streghe nel Medioevo, si rivela tutt’altro che risolutiva. Mentre si chiarisce che, in fondo, il motivo dei turbamenti della donna  non è  complicato – poteva salvare suo figlio, lo ha visto dirigersi perisolosamente verso la finestra ed ha “preferito” restare abbracciata nell’amplesso -, il marito scivola egli stesso verso forme di oscurità e di dubbio che contrastano con la sua competenza psicologica.  Quando le scene si fanno più ardite – ma senza che il regista dia l’impressione di crederci (come invece fanno molti autori di “vero” horror, ossia di genere non ambiguo) – e la donna si lancia al massacro del suo uomo e di se stessa (mutilazioni e sangue), vien fatto di rimpiangere Freud, dato per morto dal terapeura “moderno”. Se questa può essere una chiave di lettura, anche un film meno riuscito può avere la sua funzione seria. Una cosa è sicura, dal “porno” siamo lontanissimi. Letto 2338 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||