CINEMA: I film visti da Franco Pecori13 Giugno 2009 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.] Un’estate ai CaraibiUn’estate ai Caraibi Episodi che hanno una loro autonomia (minima) e che si fondono in un unico flusso, in una commedia corale, recitata con appena sufficiente dignità dagli attori impegnati in una “gita” nell’isola di Antigua, ai Caraibi, un po’ per ridere e un po’ per non morir. Soffocati dalle loro stesse bugie, dall’ambiguità e dalla volgarità degli espedienti di vita, dalla confusione e indeterminatezza della loro morale (insomma l’eterno fantasma di Sordi che ritorna), dieci personaggi si guardano bene dal cercare l’Autore e preferiscono svolgere la parte che un piccolo mondo sembra aver assegnato loro. Astuzie, equivoci, strane combinazioni, “simpatiche” corruzioni, truffe “ingenue”, amori stuzzicarelli e indifferenti, mare trasparente e pieno di meduse, Berlusconi con il mal di denti, il palazzinaro romano, l’autista che si ribella alla schiavitù del tuttofare, donnine senza importanza che vanno e vengono col vento; persino un accenno di amoruccio semplice e non troppo impegnativo. E anche, per il più bravo (Proietti), una chicchetta culturale esagerata che dovrebbe far pensare a Chaplin (Il monello), con l’attore nei panni di un disgraziato rovinato dal gioco, il quale ad Antigua sodalizza truffaldinamente con un vispo bambino indossando perfino una tonaca da prete. Troppo tenera la coppia. Un film innocente, direbbe qualcuno. Sì, come altri film “estivi”, come altre istantanee “rubate” ai divi nelle loro ville, come altri programmi televisivi. Un aiutino per non pensare alla crisi, che è globale e perciò non ci tocca più di tanto, noi innocenti. C’erano una volta registi che con le “bugie” d’artista riuscivano a farsi dare dai produttori barche di soldi per i loro film d’autore (Fellini è il primo che ci viene in mente). Adesso ci sono registi che hanno completamente digerito l’idea del botteghino e la sbandierano ai quattro venti, non per mettere le mani avanti sulla qualità artistica del loro lavoro ma proprio per farne l’esplicita filosofia, la strategia trasparente. Così, anche il pubblico (il popolo, direbbe qualcuno) può sentirsi sollevato dall’”incubo” dell’arte e può finalmente rilassarsi in sala come fosse a casa propria davanti alla Tv. «La tendenza ad andare al cinema anche durante il periodo estivo potrebbe crescere », dice Vanzina. Sì, però pensate alla delusione del popolo del cinema quando si trovasse, per caso, nella proiezione estiva di un film d’autore, di quelli che piacciono a una certa critica. Mettiamo che, in pieno giugno o anche luglio, o agosto in vacanza, gli propinassero un Bergman vintage: non sarebbe un disastro per il botteghino? Ricordate quel “film istantaneo” del 1983, ora mitico, che lanciava il “Natale al cinema”? «Un filmetto? E perché no – scrivemmo recensendo Vacanze di Natale sul Paese Sera -, a patto che sia un modo simpatico per richiamare l’idea d’un genere di cinema senza pretese superartistiche, ma di fattura più che rispettabile, non occasionale ». Di “vacanze” ne sono passate tante. Cosa resta di quegli anni ‘80? Sia chiaro che il tema qui non è la “rispettabilità” della “fattura” di un film di Vanzina, anche di questo caraibico. È piuttosto in discussione la qualità della scelta strategica. Quale sarebbe il senso di un’estate al cinema? Il cinema non è bello e nobile di per sé. Sacro e profanoFilth and Wisdom Per definizione, l’arte pop (intesa al di qua del valore estetico) non può essere scandalosa. “Scandalosa”, se mai. Le virgolette racchiudono gran parte dell’attività artistica di Madonna. Non è però il caso di questo suo debutto nella regia cinematografica. Passato a Berlino nella sezione Panorama Special e fuori concorso a Torino, il film è antinomico solo nel titolo – non proprio centrata, per altro, la traduzione italiana, che alla lettera sarebbe: sozzura e saggezza – e nel filo dialettico del personaggio conduttore, A. K. (Hutz), il quale dall’inizio alla fine ci costringe a riflettere su una semplice ovvietà: il miscuglio di male e di bene e le ingannevoli parvenze di cui siamo rivestiti nell’agire quotidiano (lasciamo stare la sfera teoretica della morale perché dovremmo salire di molto e non è proprio il caso). Lontanissimo dal rendere l’idea tematica ogni tentativo di riassunto narrativo o di inquadramento metaforico delle tre figure principali. Il musicista punk-rock-gitano (Hutz è nato a Kiev da famiglia russo-ucraino-romena) che si guadagna la sopravvivenza, sua e della sua musica, con prestazioni sadomaso, la farmacista Juliette (McClure) che sogna di andare in Africa a curare i bambini affamati, la danzatrice classica Holly (Weston) che per pagare l’affitto cede alla lap dance, potrebbero vivere, ciascuno o tutti, in altri film, di genere diverso. E nemmeno il fatto che stiano qui può considerarsi esaustivo di un’attuale tipicità socio-antropologica. È vero che siamo a Londra e che Madonna vede Londra così. Non ci sarebbe altro da dire, se non fosse per l’attività predicatoria di A. K., i cui ammiccamenti verso lo spettatore generano, a intervalli regolari, le relative sequenze della «mistica impollinazione » – così si esprime il personaggio – che ci fa stare al mondo (non puoi andare in paradiso se non conosci l’inferno e via dicendo) più o meno contenti. Quanto al piano espressivo, la sostanza punk ha un’aria risaputa (la novità sarebbe che viene dall’Ucraina?) che non giova all’ipotesi di un riscatto formale. Si resta ad un’apprezzabile discrezione della musica e ad un montaggio svelto e disinvolto (alla retorica del senso ci pensa A. K.) che rendono il film relativamente distinguibile dalla montagna di tentativi indipendenti/underground visti e rivisti nei decenni passati, ai festival e nelle sale off. I love Radio RockThe Boat That Rocked Oh la spensieratezza! Alcuni l’hanno associata alla musica rock e a tutto il suo mondo, compresa e non ultima la componente “ribellione”. Parliamo specialmente degli anni a cavallo tra i ‘50 e i ‘60 del secolo scorso, in America e di riflesso in Europa, da Elvis Presley ai Rolling Stones. Nel 1966 in Gran Bretagna, il rock era dominio dei “pirati”. Radio gestite irregolarmente da gruppi di appassionati su barconi trasmettevano dal Mare del Nord verso l’isola musica indigesta al governo e di cui invece erano entusiasti milioni di ascoltatori. Il film del neozelandese Curtis (già sceneggiatore di Quattro matrimoni e un funerale, Notting Hill, Il diario di Bridget Jones e alla seconda prova da regista dopo Love Actually – L’amore davvero) racconta l’avventura di una di quelle barche, sulla quale vissero per un certo periodo come in una vera e propria colonia “trasgressiva” i componenti di Radio Rock. Il palinsesto copriva 24 ore su 24 e si andarono consolidando figure di deejay che presto divennero mitiche. Guidava la simpatica comunità il Conte. Il ruolo affidato ad Hoffman può dire già molto sulla “pazzia” del personaggio. E mentre sulle onde radio viaggiavano Beatles, Stones, Kinks, Hendrix, Springfield, Joplin, Franklin, il gruppo di Radio Rock articolava, diremmo meglio disarticolava le proprie giornate, in un universo compiuto che, sia pure sul versante opposto, fa pensare a La nave dei folli di Stanley Kamer (1965) . Dave (Frost), Simon (O’Dowd), Midnight Mark (Wisdom), Wee Small Hours Bob (Brown), Thick Kevin (Brooke), On The Hour John (Adamsdale), Angus “The Nut” Nutsford (Darby), Elenore (Jones) Gavin (Ifans): una pedagogia “al rovescio”, non proprio come la sperava la madre di Carl (Sturridge), imbarcando su Radio Rock il figlio espulso dalla scuola, nella speranza che lì potesse trovare il suo padrino Quentin (Nighy) e una buona educazione! L’impressione è che il ministro Dormandy non ce l’avrebbe mai fatta ad arrestare l’ondata di musica piratesca. Ma, a veder bene, pur nella confusione tra ingenuità e cinismo, che cosa cercavano quei “ragazzi” di Radio Rock? In fondo, ciascun deejay non era che un “sacerdote”, al quale ci si rivolgeva per un bisogno di sicurezza. Siccome odiavano la gabbia della società che essi sentivano costrittiva, s’ingabbiarono nel mondo a parte di Radio Rock. La si può pensare (leggere, interpretare) in altri modi, certo. Il merito di Curtis è comunque di rendere il piatto digeribile, leggero, divertente. E di farci rimanere con il sogno di una spensieratezza a venire. Letto 5219 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||