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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

11 Aprile 2008

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]

La seconda volta non si scorda mai

La seconda volta non si scorda mai
Francesco Ranieri Martinotti, 2007
Alessandro Siani, Elisabetta Canalis, Francesco Albanese, Miriam Candurro, Marco Messeri, Enzo De Caro, Fiorenza Marchegiani, Clara Bindi, Paolo Ruffini, Niccolò Senni, Sergio Solli, Inna Anosova, Rita Pelusio, Daria D’Antonio, Gianluca Ansanelli, Mariangela Vessicchio, Gaetano De Martino, Rosario Terranova.

Napoletano universale.  Comprensibile l’intento, in quanto Napoli e i suoi modi appartengono al mondo. E la televisione, senza la quale pochi saprebbero sopravvivere,  quasi non esisterebbe senza l’antico spettacolo di varietà, pozzo inesauribile di battute e di situazioni comiche. Che c’entra la televisione? Nel cinema italiano c’entra quasi sempre. Ispira. Attore rivelazione con Ti lascio perché ti amo (2005) e poi comico “natalizio” in due film di Neri Parenti, Siani ha rafforzato di recente  la   propria notorietà frequentando la Tribbù di Raidue. Ed  ora  mostra di voler  consolidare la vocazione autoriale curando di  suo pugno soggetto e sceneggiatura. La locandina della Seconda volta dice «Un film di Alessandro Siani, regia di Francesco Ranieri Martinotti ». Come di un romanzo diciamo, a volte, che sembra scritto per il cinema, così le scene di quest’ultimo lavoro sembrano pensate per  il mezzo  elettronico. Siparietti di leggera (alleggerita, adattata per la “Prima Serata”)  memoria avanspettacolesca si susseguono al ritmo discreto della voce narrante del protagonista. Il personaggio si rivela passo passo, in modo che la storia sia fruibile anche tra una portata e l’altra del pranzo/cena. Il continuum è dato dalla “simpatia” dell’attore, esibita e “appoggiata” senza tema di somiglianze. Giulio (Siani)  ha incontrato la prima volta  Ilaria (Canalis) quando era ancora studente. Adesso ci riprova, stando molto attento a non farsi dire di no perché la seconda volta non si scorda mai. Una folla di caratterizzazioni a presa immediata si muove d’attorno, offrendosi al gioco del riconoscimento facile, adatto ai tempi televisivi, rispettosi del palinsesto, rispettoso degli inserti pubblicitari.  Resta negli occhi il volto di un giovane maturo, un po’ stupito dell’assurdità che lo investe e quasi impietosito di se stesso.

 

In amore niente regole

Leatherheads
George Clooney, 2008
George Clooney, Renée Zellweger, John Krasinski, Stephen Root, Wayne Duvall, Keith Loneker, Malcolm Goodwin, Matt Bushell, Tim Griffin, Robert  Baker, Nick  Paonessa, Bill  Roberson, Mark  Teich.

Le regole del gioco, ossia il tema centrale dei film  del Clooney regista. Confessioni di una mente pericolosa (2003) apriva uno squarcio critico sul modo “disumano” di gestire le persone imprigionandole in   un format televisivo. Good night, and Good Luck (2005) denunciava con nuova incisività, rispetto a tentativi precedenti, lo speciale condizionamento dei media americani durante il maccartismo. Alla sua terza regia, Clooney sembra preferire una chiave più “leggera”, mettendosi in scena in coppia con Zellweger, in una commedia di costume che racconta il momento di passaggio, negli anni ‘20, dal football dilettantistico a quello professionistico. Il titolo originale, “Teste di cuoio”, allude ai caschi protettivi dei giocatori. La traduzione italiana, un po’ bislacca, mentre accentua il carattere sentimentale del film, ne suggerisce però  (involontariamente?) una lettura strutturale, forse anche più giusta, facendo salire in primo piano appunto il tema delle regole. Cala, invece, l’importanza della contesa amorosa  tra il  giocatore veterano  Jimmy “Dodge” Connolly (Clooney)    e il nuovo  acquisto Carter Rutherford (Krasinski)  per amore della giornalista sportiva Lexi Littleton (Zellweger). Presto, infatti, il gioco si fa “duro”, anche al di là delle  ruvidezze del football. Lexi, ambiziosa e carrierista, punta allo scoop, avendo subdorato che le gesta  militari (prima guerra mondiale)  di cui si vanta Carter possano essere state non propriamente gloriose. Sicché la partita finale si presenta come la scena ideale per mettere in pratica una filosofia delle regole alquanto realistica.  Con una vittoria i  dilettanti di Dodge, passando definitivamente al professionismo, possono liberarsi dalla schiavitù del lavoro in miniera. E pazienza se il capitano dovrà per una volta ancora comandare uno dei vecchi trucchi “irregolari”. Ben altre, d’ora in poi, saranno le regole da tenere sotto controllo, tanto che già s’invoca un “commissario per il football”. In definitiva, la commedia risulta divertente, nonostante richieda una dose d’attenzione in più, per non perderne il senso  strada facendo.

Shine a Light

Rolling Stones’ Shine a Light
Martin Scorsese, 2007
Mick Jagger, Keith Richards, Ron Wood, Charlie Watts.
Berlino 2008: film d’apertura fuori concorso.

Una vota di più  si dimostra che, nel cinema, il termine “documentario” ha un puro senso convenzionale e, a scanso di equivoci, sarebbe meglio non usarlo. Qui la luce è di uno splendido film  in cui la performance musicale dei Rolling Stones è tradotta in un’immagine sonora artisticamente rilevante, così come, mutatis mutandis, potrebbe esserlo se Scorsese fosse partito da un testo letterario. Insomma sembrerà banale ma stiamo parlando di cinema. Tanto per cominciare, per “coprire” il set del concerto al Beacon Theatre di New York (autunno 2006), il regista ha invitato Robert Richardson, il direttore della fotografia  due  volte premiato con l’Oscar (The Aviator e JFK), a guidare una schiera di altri grandi direttori: John Toll, Andrew Lesnie, Stuart Dryburgh, Robert Elswith, Emmanuel Lubezki, Ellen Kuras; ed ha affidato il montaggio a David Tedeschi (The Blues – Dal Mali al Mississipi e No Direction Home: Bob Dylan). Non certo trascurabile l’apporto di Bob Clearmountain per il mix dei suoni. Infatti, Scorsese sceglie le inquadrature e i piani che scandiscono  i movimenti  degli Stones sulla scena e  il suono si articola in modo complementare, mantenendo il punto di fruizione legato all’immagine e dandoci una straordinaria  sensazione di  presenza. Provate ad ascoltare l’audio senza le immagini e saprete. Non staremo ad annoiarvi con la descrizione del film, soprattutto perché l’importanza primaria è data dall’emozione che suscita. Ce n’è per varie pertinenze. Non capita spesso, per esempio, di avere accesso al set mentre la troupe prepara col regista le riprese: problemi di organizzazione che si trasformano sullo schermo in momenti di trasparenza creativa. E quando Jagger attacca il Jumpin iniziale in un lampo il volto di Scorsese ci trasmette lo stress dello start. Tutto dovrà funzionare, luci obbiettivi movimenti suono, come previsto e anche come non previsto, con quel tanto di improvvisazione che appartiene ad ogni  espressione e specialmente alla musica/scena degli Stones. Subito si impone il carattere interpretativo della performance, sia nei singoli che nel gruppo: la band funziona come un organismo teatrale, i corpi vivono la loro metafora, pescano nel profondo della tradizione l’energia tutta moderna e attuale che prolunga la loro vita oltre il palco ma che dal palco non si distacca. In questo elastico è la forza di Jagger-Richards-Wood-Watts, mito di se stessi, modello scenico non trasferibile, solo rappresentabile. Notate l’inadeguatezza delle domande negli inserti delle interviste che scandiscono i decenni della lunga carriera del gruppo: una lezione utile a liberarsi dall’oppressiva somministrazione di tanti  miseri servizi giornalistici, soprattutto televisivi. In sostanza, Scorsese ci offre la chiave per entrare in contatto con i Rolling Stones come ripartendo da zero, proprio ora che Jagger  sta per compiere 65 anni. Inutile insistere sulla  diabolica energia sprigionata da Mick, ancora più strabiliante la perfezione tecnica delle figure spettacolari, tanto infallibili da risultare paradossali, un’esplosione fredda. Colpisce la compostezza dei personaggi (massimo l’esempio del batterista Watts che  impugna le bacchette come insegna il manuale di Gene Krupa!)  nella loro “furia” espressiva, la rabbia si traduce in teoria e la teoria prende il corpo e il tempo dell’esecuzione. Infine, ma non ultima ragione, il film ha il merito di rendere presente il valore del rock nel quadro musicale contemporaneo. Coloro poi che  tra gli spettatori hanno esperienza  di jazz apprezzeranno il contributo della sezione dei fiati e, più in generale, sentiranno lo swing che si sviluppa nell’uso del riff (oh Count Basie…), secondo la più collaudata e popolare  delle forme jazzistiche.


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Bart