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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

31 Ottobre 2009

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera.  È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini]

Micheal Jackson’s This Is It

Micheal Jackson’s This Is It
Kenny Ortega, 2009
Documentario: Michael Jackson, Judith Hill, Dorian Holley, Darryl Phinnessee,  Ken Stacey (vocalist),  Devin Jamieson,  Orianthi (lead guitar),   Tommy Organ (guitar), Alex Al (electric and Synth Bass),  Mo Pleasure (keybords, trumpet), Michael Bearden (keyboards), Jonathan Moffett (drums),  Bashiri Johnson (percussion),  Nick Bass, Daniel Celebre, Mekia Cox, Misha Gabriel, Chris Grant, Shannon Holtzapffel, Charles Klapow,  Devin Jamieson, Dres Reid,   Tyne Stecklein,  Timor Steffens  (dancer).

La musica c’è. Ed è importante, perché prima del mito viene il musicista, l’artista. Michael Jackson, si dice a più riprese tra uno spezzone e l’altro del documentario, «conosce la sua musica ». Nel Pop non è da tutti.  Per chi non  conoscesse l’arte di MJ o l’avesse finora consumata superficialmente nelle forme rituali dei concerti (vale anche per le riproduzioni su supporto) Ortega (Hocus Pocus, 1993,  High School Musical, 2006,  High School Musical 2, 2007,  High School Musical  3 Senior Year, 2008) la  documenta nella sua fase ultima. Ed è questo: le riprese dei due mesi di prove (aprile-giugno 2009) di quello che sarebbe dovuto essere, all’Arena 02 di Londra,  il concerto d’addio del Re del Pop.  Il materiale girato, oltre cento ore, è montato come in un unico  colossale show,  con le più spettacolari invenzioni di Jackson. L’interessante è che non vediamo il prodotto finito ma la sua “nascita”, ne possiamo cogliere la logica interna, le difficoltà tecniche, le intenzioni espressive. Il leader, cinquantenne ma eterno miracolo infantile, guida la graduale realizzazione, passo passo indicando i punti critici e i momenti di maggiore valenza, sempre guidato dal proprio straordinario  istinto musicale, fissato nell’atto scenico con una precisione strabiliante. Vanno a formare un’unica scena diversi elementi narrativo/coreografici, che fondono nella visione  composita tracce di successi travolgenti (Thriller, 1982) e assonanze ardite con generi cinematografici indicati in immagini folgoranti (la Rita    Hayworth/Gilda del 1946). MJ entra nello spettacolo come  figura viva facendone un tutto “miracoloso”. E specialmente restandone il protagonista assoluto. Corpo-non-corpo misteriosamente eterodiretto (da chi? da un dio dei massmedia?) o  immedesimato per fatalità, Jackson lascia il messaggio finale più povero e più  ricco: «Poter credere in qualcosa ». L’insistenza  con cui professa il suo amore, verso la Natura  («Abbiamo ancora 4 anni prima del punto di non ritorno ») e verso i fans e i collaboratori  («Vi amo, Dio vi benedica », ripete durante le prove) può anche  sembrare  frutto di una tragica solitudine, una solitudine paradossale: di molti, di moltissimi.    Ma la musica c’è. Ed è questo.

Il nastro bianco

Das weisse Band – Eine deutsche Kindergeschichte
Michael  Haneke, 2009
Fotografia Christian  Berger
Christian Friedel, Leonie Benesch, Ulrich Tukur, Ursina Lardi, Fion Mutert, Michael Kranz,  Burghart Klaussner,  Steffi Kühnert, Leonard Proxauf, Levin Henning, Johanna Busse, Yuma Amecke, Thibault Sérié, Josef Bierbichler, Gabriela Maria  Schmeide, Enno  Trebs, Theo Trebs, Janina Fautz, Rainer Bock, Susanne Lothar, Roxane Duran, Brando Samarovski, Detlev Buck, Anne-Kathrin Gummich
Cannes 2009, Palma d’Oro.

Una differenza tra cronaca e storia è nella capacità di guardare al “prima”. Haneke guarda al 1913-14 e ci fornisce alcuni elementi per capire il futuro a  cui andava incontro la Germania prenazista. Oggi molte scuole conducono lodevolmente e doverosamente gli studenti a visitare Auschwitz Birkenau. Speriamo che gli insegnanti sappiano anche far loro osservare i piccoli dettagli della vita quotidiana da cui spesso possono emergere indicazioni sui pericoli nascosti nei “buoni ideali”. Nessuno dice, certo, di voler fare ancora Auschwitz, non lo dice nemmeno mentre lo fa. Ma di giorno in giorno magari senza “saperlo” si comporta come se un altro nazismo potesse esservi. In questo senso Il nastro bianco di Haneke (Funny games, 1997-2008, La pianista, 2001, Il tempo dei lupi, 2003, Niente da nascondere, 2005) va ben oltre il cliché, troppo alla moda e troppo spesso intriso di falso realismo e falsamente risarcitorio, del film “tratto da una storia vera”. Premiato con la Palma d’Oro a Cannes, oltre che bellissimo, Il nastro bianco è preziosissimo. Fuori campo, nella forma del diario di chi oggi ricorda, la voce ormai anziana dell’allora giovane maestro del villaggio, racconta la strana vicenda di perversioni sotterranee in uno sperduto paesino di contadini del nord. Brava gente di cui man mano scopriamo raccapriccianti tendenze, tutte riconducibili, in sostanza, ad una radice culturale, l’idealismo. Non quello di Immanuel Kant, ma quello che, partendo da un’istanza anche inconscia di “assoluto”, la devia per utlilizzarla a giustificazione di spregevoli convenienze. Il pericolo maggiore è al livello dell’infanzia.  I bambini tendono ad assolutizzare gli insegnamenti ricevuti dagli adulti e ad applicarli in concreto, senza preoccuparsi di verificarne le conseguenze pratiche. In agguato c’è sempre la voglia di avere il contatto diretto con la fonte ideale, con Dio stesso, e in suo nome comportarsi con rigida determinazione e con intenti punitivi verso chi si ritenga non “benedetto”. Una scena chiarisce bene questo rischio. Il maestro (Friedel) sta pescando trote al fiume e si accorge che Martin (Proxauf),  uno dei suoi piccoli allievi, cammina pericolosamente lungo il ponticello un po’ più in alto rischiando di cadere e morire. Il ragazzino dirà che voleva verificare la volontà di Dio di lasciarlo in vita.  Dal superamento della prova  avrebbe dedotto il giudizio positivo sul proprio comportamento.   Tra pochi anni quel bambino sarà in età militare. Una strana situazione, con un susseguirsi di “incidenti” di cui non si trova il colpevole,  si sta dispiegando nel villaggio. Haneke la racconta in un bianco & nero opprimente, scuro e quasi minaccioso. Di momento in momento la suspense assume i tratti del giallo e/o dell’horror senza minimamente vestire i connotati  manieristici dei due generi, mantenendo invece altissima la tensione intellettuale derivata dalle sequenze, misteriose e insieme rivelatrici di una tendenza che appare, dato il contesto, ineluttabile. Il Pastore protestante (Klaussner) e sua moglie Anna (Kühnert), l’Intendente (Bierbichler) e sua moglie Emma (Schmeide), il medico (Bock), il contadino (Samarovski) e la sua famiglia, il Barone (Tukur) e la Baronessa (Lardi), il Precettore (Kranz),  la comunità nel suo complesso si rivela responsabile degli errori dei figli, i quali formano l’orribile scolaresca premonitrice del tremendo destino di un popolo e dell’umanità. Il film non esplode però in “dramma”, lasciando sempre in primo piano l’interrogativo filosofico della responsabilità culturale. Il segno è nel nastro bianco che ai bambini ritenuti “cattivi” viene fatto indossare per il tempo necessario alla loro “purificazione”. Nelle mani di chi è, oggi, quel nastro? A chi l’attribuzione del merito nel villaggio elettronico che tutti ci fa sembrare “fratelli” in diretta?


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Bart