CINEMA: I film visti da Franco Pecori19 Aprile 2008
Shoot’em up – Spara o muori!Shoot’em up Quando si legge che un tale film è «uno dei massimi capolavori » di un certo genere di cinema si rischia di non avere più il parametro a cui riferirsi per  il giudizio critico. Non perché non si sia d’accordo sul giudizio dato, ma perché il metro esibito suona, di per sé, come un errore elementare di lingua, un po’ come se si dicesse “il più bellissimo dei film”. L’inglese Davis, già autore di Monster man (2003),  una commedia horror che pochi ricordano, ha l’aria di voler sostenere l’intento manieristico con una carica di ironia che, mentre denuncia l’uso disinvolto del genere “azione”,  aspira ad una propria dignità espressiva.  Il problema nasce dalla critica dei “massimi” valori, che legge in Shoot’em up  riferimenti a “massimi capolavori”, con  l’ intento di sollevare il livello artistico del film.   E allora diventa difficile leggere anche l’ironia, chiave che per l’apertura di porte interpretative usa combinazioni complesse. Altro imbarazzo deriva dalla difficoltà della Bellucci a parlare con un normale ritmo corrente. Se non l’avessimo già notato in altre occasioni, rischieremmo di sfiorare l’ipotesi di un sia pur misero  tentativo di straniazione recitativa  (Brecht ci perdoni), anche considerando gli inserti dialettali (accenti vagamente “napoletani”) che per altri versi suonano incomprensibili. Sgombrato il campo critico  dagli ostacoli più vistosi, possiamo goderci la girandola incessante di sparatorie le più fantasiose e divertirci persino a contare le molte decine di morti in un mare di sangue. Fotografia e montaggio costruiscono un’articolazione movimentata, secondo il principio di “attrazione” che non è certo nuovo nel cinema  e che, con l’avanzare della pubblicità , ha progressivamente assunto uno stile più “nervoso”. E, non ultimo, il contenuto. Il bravo Owen (The Bourne Identity, Sin City, Inside man) assume il gravoso e strano compito di salvare un neonato, che egli stesso ha visto nascere in situazione estremamente drammatica, intervenendo pistola alla mano a  difesa della  partoriente inseguita da una squadra di killer. La donna muore e Smith affida il piccolo alla sua amica prostituta, Donna Quintano (Bellucci). Al neonato danno la caccia misteriosi “cattivi” (il ruolo principale spetta a Giamatti), con chiare implicazioni politiche e riferimenti espliciti ai fabbricanti di armi.
10 cose di noi10 Items or less Periferia di Los Angeles e “periferia” di Hollywood. Freeman  è l’attore  quasi in  crisi, cammina  sul ciglio: un passo falso e non avrà più alcuna parte importante, da quattro anni il suo senso professionale lo spinge al dubbio, a prendere con estrema circospezione  ogni nuova  proposta. E così vagabonda da un set immaginario all’altro, cercando le “location” per piccoli film indipendenti che forse non si faranno mai. Un giorno capita nello sperduto supermercato di un quartiere latino. L’ambiente è quasi deserto, ma alla cassa c’è Scarlet (Vega),  una giovane donna che attrae l’attore per il suo carattere, per la personalità forte, ben oltre il “ruolo” di cassiera. E infatti la ragazza ha un appuntamento nel pomeriggio per un colloquio, lascerà il supermercato e cercherà di farsi assumere come segretaria. E allora? Commedia leggera, esile? Lezione di cinema? E’ questo proprio uno di quei casi in cui, da fruitori avveduti, si può godere molto, cogliendo ad ogni sequenza il valore essenziale dell’ambiguità e la sostanza che può  nascondersi dietro le apparenti frivolezze; e  intravedendo il miscuglio dei generi (sentimentale/drammatico, suspence/comico) nello scorrere della più piatta successione del “quotidiano”.  Lo stesso  curriculum del regista, che va  da La città degli angeli a Moonlight Mile – Voglia di ricominciare  e  a Lemony Snicket – Una serie di sfortunati eventi, la dice lunga su una certa tendenza ad utilizzare con disinvoltura icone diverse come Nicolas Cage, Dustin Hoffman, Jim Carrey. Qui l’occhio dev’essere attento alle sfumature e alla “leggerezza” del vivere. L’attore gioca con se stesso. Sembra quasi di incontrarlo per caso in treno: si vuol far riconoscere e nello stesso tempo si diverte a interpretare personaggi finché non si arriva alla stazione. Scarlet ci mette un po’ ad entrare in situazione, poi (brava) cambia registro e, da cassiera sfigata, passa a ragazza moderna  vogliosa di riscatto. La strana coppia va fondendosi e diventa quasi-perfetta. Certo chi s’intende di Nouvelle Vague può divertirsi nella “seconda” lettura, fare riferimenti, insomma tentare l’approccio intelletuale. Ma il “filmetto” si offre anche alla “semplicità ” della fruizione rilassata. In fondo, i due protagonisti scherzano al gioco delle “dieci cose che odi” e delle “dieci cose che ti piacciono”.  Poi alla fine, Freeman, simpatico,  lascia il “messaggio”: «Viviamo, lavoriamo, si ricomincia da qui, non ci rivedremo mai più ».  Poche parole, tutto un romanzo. 2121 Curioso numero il 21. Per Iñárritu, 21 grammi  era il peso dell’anima (2003) e non è che portasse proprio un gran bene.  Luketic  con il 21 allude ad un modo di dire dei giocatori di blackjack al casinò: «21, vittoria grande baldoria » e sembrerebbe un numero fortunato. Vediamo.  E’ la storia di Ben (Sturgess), 21 anni (!), studente genio del Massachusetts Institute of Technology di Boston, la  cui aspirazione è continuare gli studi. Ma la retta  è di  300.000 dollari e Ben, potendo contare solo su sua madre, non riuscirà mai a mettere insieme quella cifra. Ci vorrebbe la borsa di studio. All’inizio, vediamo il ragazzo nell’ufficio del rettore, il quale si complimenta con lui per il suo curriculum eccellente. Ci sono però altri concorrenti meritevoli. Riuscirà Ben ad esporre una ragione che lo renda vincente? Lo sapremo alla fine del film, a chiusura del lungo flash.  Ed ecco la singolare vicenda. I dollari per la retta, anche molti di più, Ben li “guadagnerà ” a Las Vegas. Arriva a proposito la proposta del professore di matematica. Micky Rosa (Spacey) non è un insegnante normale. Giocatore di professione, capeggia una squadra di giovani cervelli, ragazzi del college addestrati a “battere il banco” scientificamente, con una sistema di calcolo che non fallisce mai. Quando arriva il weekend, si  va in aereo  a Las Vegas, ci si maschera ogni volta in modo diverso e si “rapinano” i tavoli del blackjack. Si rischia, è vero, di essere beccati dal personale di sorveglianza (Fishburne), ma i dollari, la “bella vita” nella città dell’azzardo e l’amore  di Jill (Bosworth)  valgono il rischio. Reclutato da Micky, Ben diventa  il numero uno della squadra. Il ragazzo  pensa di usare strumentalmente il gioco, fino a “risparmiare” la somma che gli serve per la retta. Ma le cose si complicheranno. Tratto da un fatto di cronaca degli anni ‘90, il film riesce nell’impresa di rendere spettacolare il complicato problema statistico, puntando sulle simbologie e sulle convenzioni, sui momenti di attesa, trasformando in “azione” ogni mossa della singolare banda in una possibile svolta. Gli attori (bravo Sturgess) sostengono a dovere il trasformismo dei ruoli, ottenendo una rappresentazione non convenzionale sia  sulla scena di Boston sia tra i tavoli da gioco dei locali più alla moda di Las Vegas. Con pochi tocchi abbiamo la sensazione precisa del fascino che quei weekend possono avere verso giovani brillanti e pronti ad entrare nel mondo. Alla stessa maniera percepiamo  quale fondo malevolo, quale pericolo possa nascondersi dietro la facciata di una scuola “moderna”, non ultimo il problema dei costi della frequenza e della selezione formalmente meritocratica.  Nella figura del “buttafuori” specialista in “pulizie” vecchio stile, benissimo impersonata da Fishburne, si riassume un mondo che  se ne va inesorabilmente sconfitto. Ora il gioco si è fatto più complicato e le difese vanno aggiornate. Non è detto che il futuro sia migliore. Sta di fatto che l’Università offrirà a Ben la borsa di studio di cui ha bisogno. L’ultima missioneMR 73 «Dio mi ha tradito e io lo punirò ». Louis Schneider (Auteuil), della Squadra Omicidi di Marsiglia, ha una vita d’inferno. Dopo Gangsters (2002) e 36 quai des orfèvres (2004), Marchal chiude con MR 73 (la sigla di una pistola)  una sorta di «trilogia sulla solitudine, la disperazione e la perdita dei propri riferimenti » – così il regista, ex poliziotto che ha deciso di uscire dalla polizia proprio per aver “visto” la storia realmente accaduta  alla quale  poi si è ispirato per il terzo  film. Trasandato nell’aspetto, alcolista, Louis vive in un abisso morale in cui lo hanno trascinato i casi del suo lavoro, che spesso contrasta con la propria tendenza alla rettitudine. Soffre e tira avanti di ora in ora, senza una prospettiva precisa. Lo incontriamo nel momento in cui,  impegnato in un’ultima “missione”, va oltre i limiti e il  rapporto con i colleghi diventa un muro troppo alto. E’ il muro della corruzione e dei poteri “altri” rispetto ai “doveri” del detective, è un macigno che si aggiunge al peso della vita spericolata e violenta del poliziotto. Assalito dai flash-incubo che gli  mantengono vivi i  momenti personali più  drammatici (desolante la visita in ospedale alla moglie che giace senza speranza), Louis si muove in un ambiente di piombo, tutto è “nero” intorno a lui. Marchal mostra di avere un notevole talento nel rappresentare il contesto, forse aiutato dalla radice autobiografica, di sicuro dalla bravura del protagonista, perfettamente calato nella parte. Mentre l’ombra di un serial killer copre di cupa suspense la vita della città , una ragazza, Justine (Bonamy)  ,chiede aiuto, paralizzata dalla paura per l’uscita dal carcere dell’assassino dei suoi genitori. L’uomo (Nahon) fu appunto arrestato da Schneider. Il racconto, qui la sua principale qualità , pur  fotografando (la firma è di Denis  Rouden)  con estetica quasi maniacale i dettagli dell’ambiguità , non procede per accumulo. Il noir prevale sulla trama, il poliziotto non va dritto alla mèta. Forse vorrebbe tener fede al proprio istinto professionale, ma “incidenti” lo confondono, estranei al compito, più complessi. Attenzione: non c’è “filosofia”, non in primo piano. Ma proprio per questo l’atroce violenza di alcuni momenti “pieni” può confondersi persino con la dolcezza (più una  struggente aspirazione) dei “vuoti” che si confondono con la rabbia confusa di Louis, fino al grido finale, religioso (più una tragica tensione). Letto 2899 volte. | ![]() | ||||||||||
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