CINEMA: I film visti da Franco Pecori14 Aprile 2010 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini] Green ZoneGreen Zone Roy Miller (Damon) si sente messo in mezzo. È un soldato americano preparato, sa quello che fa, è pronto ad eseguire le missioni anche le più dure. Quando da luogotenente (lo chiamano “capo”) viene incaricato di scoprire nel deserto iracheno i siti dove sarebbero nascoste le armi di distruzione di massa, Roy si impegna a fondo con la sua squadra per mettere le mani sulle “prove” della ragione per cui – come dice egli stesso – l’esercito statunitense si trova in Iraq. Siamo nel 2003. Una, due, tre azioni in mezzo a mille pericoli e violenze di tutti i tipi: niente, nessun deposito chimico, tanto che a Miller comincia a venire il dubbio che le indicazioni ricevute dai superiori provengano da informazioni segrete sbagliate. Errori casuali? La strana reazione degli ufficiali alle sue prime domande incuriosisce Roy, il quale comincia per conto proprio ad indagare sulla “verità” della sua stessa presenza in quel paese sconvolto da contrasti che sembrano insanabili. Entrano in ballo personaggi dell’intrigo internazionale, la Cia, la Dia, i Berretti Verdi, i politici locali che complottano nella confusione totale. Freddy (Abdalla), un civile, offre a Miller la propria collaborazione per arrivare alla fonte delle false notizie mentre una giornalista (Ryan) impegnata sul campo mostra gli stessi interessi. Per quanto complicato, il film appare ridondante, quasi come potrebbe esserlo oggi un western sulla “verità” degli indiani d’America. Tra i fatti e l’azione di Miller (Green Zone – avverte il regista – non è un film sulla guerra in Iraq) si frappone la scelta di genere, con gli stereotipi stracollaudati, militari in tuta da cambattimento, scontri armati, elicotteri, inseguimenti, ecc. E Greengrass carica anche troppo le sequenze di un ritmo asfissiante. I primi dieci minuti mettono lo spettatore a dura prova. D’altra parte, è chiara la necessità di bypassare l’ostacolo obbiettivo rappresentato dalla montagna di materiali da Tg accumulatisi nella memoria collettiva ed elaborati ormai in un immaginario non più tanto disponibile a fantasie ulteriori. È il limite che rende quest’ultimo lavoro del regista britannico meno attraente dei due film da lui diretti e dedicati all’alienazione di Jason Bourne, il superkiller di Bourne supremacy e Bourne ultimatum. Tuttavia una qualche similitudine resta, per così dire, nell’aria, proprio in quel sentirsi, i personaggi interpretati da Damon, coinvolti involontariamente in un destino alienante. Se Bourne si chiedeva che fine avesse fatto la propria coscienza, Miller conclude il proprio “spaesamento” iracheno con una domanda che oltrepassa la medietà dello spettacolo: «Che cosa succederà la prossima volta che chiederemo fiducia? ». Il cacciatore di exThe Bounty Hunter Non è una commedia semplice. Sulle prime sembra una semplice commedia, ma non appena i protagonisti prendono corpo ci si accorge che la trama entro cui agiscono quasi li costringe ad una vita impossibile, contraria in fondo alle loro stesse aspirazioni. Milo (Butler), poliziotto “simpatico” e di poca fede, ha preferito farsi licenziare dalla Polizia per dedicarsi ad una più redditizia attività privata: va a caccia di taglie, ripesca imputati che non si presentano in tribunale, riconsegna alla prigione gente che ha ritenuto troppo facile sottrarsi alla giustizia. Una vita “beata” la sua. Si è perfino dimenticato la separazione dalla moglie. Del resto, il matrimonio era durato soltanto qualche mese. Meglio la libertà. Ma il destino, a volte, si mostra crudele. A Milo tocca di trasformarsi da cacciatore di taglie in cacciatore di ex. Gli capita infatti di doversi mettere sulle tracce di Nicole (Aniston), proprio la sua ex moglie. Giornalista dinamica e aggressiva, Nicole sta indagando circa un omicidio e non ha tempo per certe “regolarità”, mentre invece il giudice la vorrebbe tanto presente davanti a sé. Ed ecco che la commedia si complica. È vero che fin dall’inizio era apparsa chiara in trasparenza la fine gloriosa dell’unione ritrovata. La via per arrivare al traguardo, però, riserva sorprese, tanto da indurre il regista (Tutta colpa dell’amore, Hitch – Lui sì che capisce le donne, Tutti pazzi per l’oro) a comporre una specie di cocktail fatto di rosa, di giallo e di azione, quasi fosse Tennat stesso un cacciatore, cacciatore di generi. Il risultato è discretamente divertente, grazie anche alla buona prova degli attori. Butler (Il fantasma dell’Opera, 300, P.S. I love you) è molto nella parte, simpatico e misurato. Aniston (E alla fine arriva Polly, Vizi di famiglia, La verità è che non gli piaci abbastanza) più vera e meno smorfiosetta del solito. Simon KonianskiSimon Konianski Ritmo tranquillo, nessuna invenzione vistosa, commedia apparente (in realtà saggio sulla possibile trasformazione della cultura ebraica), satira liscia, sorrisi e non risate. Gli ebrei oggi visti da uno di loro, non conservatore. Simon Konianski (Zaccaï, Finché nozze non ci separino, Tutti i battiti del mio cuore), 35 anni, laureato in filosofia, si separa dalla madre di suo figlio Hadrien (Ben Abdelmoumen) e si rifugia dal padre Ernest (Popeck), dal quale non riesce a separarsi, “immaturo” com’è. Sembra più ragionevole il bambino, il quale, nonostante le proteste chiassose della mamma ballerina, sceglie di volta in volta con chi vuole stare, incuriosito sia dalla “spensieratezza” di Simon sia dalla “saggezza” del nonno. Ernest racconta al piccolo il proprio passato drammatico (la deportazione, il campo di concentramento) e perseguita Simon con il “normale” suggerimento di trovarsi un lavoro fisso. Sul versante persecuzione nazista, il limite della paranoia è rappresentato dall’anziano fratello di Ernest (Leber), ossessionato tuttora dalla “presenza” degli uomini della Stasi (la sicurezza di Stato della Germania comunista). Insomma passato, presente e futuro interagiscono in una trama situazionale nutrita di riferimenti in codice tra memoria e attualità (Gaza, la diaspora, lo sterminio, la presenza rabbinica). Uno di tali elementi, a un certo punto, si fa azione. Muore Ernest e c’è il problema della sepoltura. Per rispettare le volontà del padre, Simon si mette in macchina verso l’Ucraina portando con sé la salma, Hadrien, lo zio e la moglie di lui. È un viaggio un po’ grottesco e un po’ patetico. Sembra comunque che a Simon faccia bene, il giovane pare sollevarsi dagli incubi di una famiglia troppo legata a certa mentalità tradizionale. Le scene però versano in una progressiva meccanicità che mescola simbolismi e riflessioni, umorismi e malinconie storiche senza ritrovare una sufficiente fluidità narrativa. Lasciando stare i Coen e Woody Allen, la cui evocazione da parte di alcuni pare non più che esterna e referenziale, il film del trentacinquenne regista belga (autore al secondo lungometraggio e già apprezzato nei festival di Clermont-Ferrand, Locarno, Cannes, Montréal) evidenzia e conferma soprattutto una vivace istanza di rinnovamento culturale da parte dell’ebraismo. L’uomo nell’ombraThe Ghost Writer Thriller non è un campanello che suona, non è una porta che cigola, non è un temporale incombente. Non basta. La suspense non è nelle “cose” ma su ciò che può accadere. E l’evento possibile non vale annunciarlo con un segnale, sebbene forte. L’evento che tiene sospesi è nella sostanza stessa del racconto, si sviluppa con la trama, sorprende per la propria importanza, mentre succede invita alla cultura del dubbio, mentre promette soluzioni allarga il ventaglio delle ipotesi, seguendo i personaggi ne approfondisce il carattere e rende complessa la scelta del lettore, dello spettatore – e perfino nella musica, se ci pensate, la suspense dell’improvvisazione non rassicura circa la prevedibilità della “caduta” della dominante. La suspense vuole arte, non si accontenta di artifici. Lo specifico di Polanski è personale e classico insieme. L’autore è inimitabile nella mestria di lasciare nella normalità delle cose l’inquietudine del mondo, eppure il suo metodo sprigiona implicazioni generali, provoca domande impegnative per tutti, impossibili da eludere. L’ex ministro britannico Adam Lang (Brosnan), protagonista del romanzo di Robert Harris (Il Ghostwriter, Mondadori) da cui parte Polanski, fa pensare a Tony Blair, è vero. Anche il film fa lo stesso effetto. Il film però ci coinvolge al di là della valenza storico-politica di una biografia. La vita di cui tratta il film finisce per essere la nostra, vogliamo dire il problema di scriverne una, un’autentica biografia. Non v’è sempre un fantasma a minacciare la nostra verità più intima? E non v’è sempre il pericolo che il biografo di noi stessi muoia di morte improvvisa, assassinato per ragioni che ci sovrastano? Ecco la capacità di Polanski di trasmettere alla nostra sensibilità il turbamento tutto contemporaneo (ma che viene da molto lontano, diremmo dalle strutture della tragedia più antica) della vita “raddoppiata” nel suo contesto, rivissuta e straniata su ragioni che non riusciamo a controllare, tanto che può venire un giorno in cui il manoscritto si disperda al vento e con esso il senso ingombrante di una realtà troppo intima per essere interessante e troppo interessante per restare autentica. Un autore fantasma è in ciascuno di noi? Andate a domandarlo a McGregor, come si sia sentito nella parte del ghostwriter, dovendo fingere di essere un altro. «Lavori per un assassino! », gli gridano i pacifisti che dimostrano contro le “guerre illegali” di Lang. Prima o poi, entrerà in ballo la Cia. E forse, prima o poi, ciascuno di noi scoprirà di essere in qualche modo un agente dell’Intelligence. Dipende dal senso che dovremmo dare alla morte misteriosa di McAra, lo scrittore fantasma che ha preceduto il ghostwriter interpretato da McGregor. Una cosa è sicura, dovrà pur esservi una ragione perché la vita di un uomo politico importante debba essere fissata nella pagine di un’autobiografia. Non può trattarsi soltanto di un fattore editoriale. E tantomeno sarà decisiva la questione dell’autenticità del manoscritto. Aleggia il fantasma di Hitchcock. Bisognerà interrogarlo, prima o poi. Letto 3496 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. 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