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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

24 Aprile 2010

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera.  È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini]

Matrimoni e altri disastri

Matrimoni e altri disastri
Nina di Majo, 2009
Fotografia Cesare  Accetta
Margherita Buy, Fabio Volo, Luciana Littizzetto, Francesca Inaudi, Marisa Berenson, Mohammad  Bakri, Massimo  De Francovich, Italo  Dall’Orto, Gianna  Giachetti, Elisabetta  Piccolomini, Stefano  Abbati, Jarkko  Pajunen, Antonio Petrocelli, Sergio  Forconi, Laura  Pestellini, Nicoletta  Boris, Mehmet  Gunsur, Lorenzo  Caponetto, Danilo  Nigrelli.  

Incuriositi dall’annuncio sbalorditivo della «svolta sexy » di Margherita Buy – «Aspettavo da anni questo momento » aveva commentato l’attrice prima dell’uscita del film – siamo corsi a vedere il terzo lungometraggio di Nina di Majo (Autunno, 1999, L’inverno, 2001). La Buy esibisce la solita bravura “nevrotica”, con la differenza che questa volta non resiste al fascino di Alessandro/Volo, il quale, la notte prima del proprio matrimonio con Beatrice (Inaudi), ubriaco e tutto vestito,  si sovrappone  senza  enfasi  alla “sorella” della sposa, Nanà/Buy appunto. Di essa vediamo di sfuggita una coscia. Niente paura: pochi secondi e via. L’attimo non-erotico  è la conseguenza  del fatto che i due “cognati” si sono dovuti frequentare nel compito della preparazione della lsita di nozze tra  Alessandro e Beatrice (invenzione di una sceneggiatura instabile). Il momento culminante della commedia è  comunque un altro e arriva quando Nanà scopre che  Beatrice nacque non da suo padre ma da quello che in famiglia  ha sempre sentito chiamare zio e che tuttora compone un segreto terzetto con Lucrezia (Berenson), madre “snaturata”  e attrice forse troppo ambiziosa. Ma anche qui niente paura: lo sbigottimento della Buy dura pochi minuti. Il resto è raccontato principalmente dalla voce fuori campo della protagonista. Il testo  si accolla così  la responsabilità del filo logico dell’azione. Restando infatti  al susseguirsi  delle sequenze, avremmo poco più di un  insieme di “figure”, rappresentative di un’intenzionale casistica sociologica ricavata – sembra – da una ricognizione  sommaria sulla borghesia medio-alta localizzata in quel di Firenze. Dal punto di vista di una dinamica cinematografia, il film è fermo, le gag sono prevedibili con un anticipo di diversi secondi e insomma un ipotetico lavoro di découpage risulterebbe  non poco improduttivo. Qualche rischio è prevedibile anche nell’eventuale utilizzo televisivo del film, visto che, per dirne una, la stessa Littizzetto, nel ruolo di amica  della zitella  Nanà, è ben lontana dalle brillantezze dimostrate in simpatiche  trasmissioni d’intrattenimento.

La città verrà distrutta all’alba

The Crazies
Breck Eisner, 2010
Fotografia Maxime  Alexandre
Timothy  Olyphant, Radha  Mitchell, Joe  Anderson, Danielle  Panabaker, Christie Lynn  Smith, Brett  Rickaby, Preston  Bailey, John  Aylward.

Il genere horror è  tra i più rigidi nel rispettare alcune regole sia strutturali che espressive, prima fra tutte la regola della  ”paura”. Nei pochi casi in cui viene coltivato in forma autoriale, e se non altro per questo, l’horror non può sfuggire ad un plus di ambiguità produttiva, estetica. Dato che la “paura” è un parametro di per sé troppo largo –  a pensarci, non si sa bene come definirlo giacché motivazioni ed effetti tendono a confondersi in una nebbia emotiva  e/o in un labirinto ideale dalle radici complesse, difficilmente semplificabili  -, il giudizio estetico diviene essenziale –  proprio come dev’essere. Di fronte ad un  capolavoro di George A. Romero (La notte dei morti viventi, 1968) niente di meno significativo della domanda preventiva, che alcuni appassionati di horror usano porre ad amici che hanno già visto  il film: «Fa paura? quanto fa paura? ». La montagna di referenzialità che quel film poteva  indicare già  ai tempi  della Contestazione (il mondo tecnico e “sperimentale” che si decompone fino ad invertire, per mancanza di una prospettiva filosofica,  la  propria vitalità in forme di orribile sopravvivenza) non ha più smesso di accrescersi, grazie all’arte cinematografica di un regista che ha saputo dare all’horror un senso non precostituito. Per intenderci, la suspence è elemento essenziale del film, legato sia alla forma che alla sostanza del contenuto in maniera non esclusivamente progettuale bensì percettiva non meno che narrativa. Il che realizza appunto quella sorta di  consustanzialità che dà al film il necessario carattere di implementarietà e carica l’horror del plurisenso indispensabile per una coscienza complessa della fruizione. Tanto questo è vero  che perfino in un prodotto secondario rispetto al capolavoro del ‘68, Romero, continuando “in minore” la ripetizione   del tema dell’”inquinamento” per errore o disgrazia, e cioè del destino catastrofico di un’umanità “maledetta” dalla  sua “vocazione” malefica, riesce a prolungare il perverso successo in chiave di “contagio” col successivo The Crazies (La città verà distrutta all’alba,  1973). Dopo di che,  diverrà  ineluttabile la “regolarità”, la stabilizzazione anche concettuale del termine Zombie, tradotto in film nel 1978. È la qualità artistica dell’invenzione di Romero a fare dell’horror un oggetto culturale produttivo, in profondità e al di là del genere. E a rendere possibile, diremmo quasi naturale, oggi una conseguente interpretazione proprio del proseguimento  di quei Folli del ‘73, così lontani nel tempo così vicini nella mente collettiva. Eisner (Sahara, 2005), ha avuto l’intelligenza di cercare nel precedente la saggezza di un’epoca e di tradurla non alla lettera, nella sostanza. Il pericolo, l’incubo del contagio viene da un virus prodotto da una ricerca batteriologica a fini militari. Un aereo cade e porta sostanze velenose nella piccola città di provincia, nel cuore dell’America. Lo sceriffo, la moglie incinta, la fuga dai mostri inconsapevoli  assalitori. Tutto sembra come allora, ma non è una ripetizione. Ora il mondo sembra davvero avviato all’autodistruzione. Non resta che recintare il pericolo, ma con poche speranze. La scommessa è estrema. Ed ecco che  a fronte di un tale futuro l’aggressione dei folli –  contagiati a noi vicini,  gente che conosciamo bene, che vediamo ogni giorno,  sanguinari e insensati –  risulta delimitata, circoscrivibile. Tuttavia l’orrore che produce è al di là del “sangue” e della violenza deflagrante e “improvvisa”. S’impadronisce di noi, invece,  una sensazione (estetica appunto)  di disgusto verso la possibilità stessa, o probabilità, che un triste destino segua i nostri passi,  lungo il confine del campo di grano. È vero, all’orizzonte s’intravede un’altra città, salvata dalla distruzione. La sensazione, però, è che il finale sia fittizio. E che  non valgano i “grandi mezzi” e gli effetti  utilizzati dal regista per assistere la nostra fantasia nell’angoscioso viaggio attraverso la pazzia del contagio. No, questa città distrutta all’alba non è una semplice ripetizione.


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Bart