CINEMA: I MAESTRI: Antonioni: Blow up2 Giugno 2012 di Luciano Codignola Cannes, maggio La saletta, che poi non è tanto piccola perché a occhio e croce conterrà un trecento persone, era gre mita di gente: giornalisti, critici, invitati, operatori cine matografici e televisivi, gli elettricisti del parco lampade, i fotografi. S’era appena proiettato Blow Up e stava per co minciare la più attesa confe renza-stampa del Festival. Fi no all’ultimo momento ci era stato detto che Antonioni non sarebbe venuto. Faceva caldo ma nessuno se ne lamentava. Eravamo ancora sotto la pri ma impressione del film, che a me era molto piaciuto. Me ne andavo elencando mental mente i pregi: una fotografia eccellente, colori splendidi, in quadrature sempre interessan ti; e poi una storia che fun ziona, interpreti ben scelti e benissimo diretti, una prepa razione sapientissima, grazie alla quale il film va avanti senza annoiare per più di un’ora, prima che vi accada alcunché; e poi gli impennamenti, le ellissi, lo stile; la se quenza strepitosa conla Veruschka… Ci fu un movimento, entrò Vanessa Redgrave, alta, lumi nosa. Dietro di lei, Antonioni. E poi il gruppetto del seguito. Ci fu uno scoraggiamento, in sala. E a me venne voglia d’andarmene, perché di pro blemi tecnici non m’interesso. Ma ormai la prima domanda era cominciata. Una signora della seconda fila disse che a suo parere il colore della co pia or ora proiettata era infe riore, come qualità, a quello della copia che si proietta a Londra. Può essere, rispose Antonioni: ma mi stupirebbe. Intanto, io stavo ripensando al film. Poco prima m’era sembrato d’intuire il disegno di Antonioni, nel girare Blow Up. Un ritratto d’artista, sen za dubbio. L’idea non è nuo va, ma dopo Joyce, che ci ave va mostrato The Artist as a Young Man, e dopo Dylan Thomas, che aveva corretto: as a Young Dog, perché non spingere più avanti, e accetta re l’artista come un cucciolo fotografo â— fotografo di mo da, naturalmente? Il ragazzac cio di Antonioni, il Tom foto grafo che gira in Rolls Royce, può benissimo valere co me un modello di artista at tuale: vitalistico, disinibito, padrone fino al virtuosismo della sua tecnica, affascinan te e fortunato. Anche un bra vo ragazzo, ma questo non conta, perché la buona volon tà non è una caratteristica del talento. Difatti quando si met te a fotografare gli slums di Londra fa fiasco. Quando in vece crede di indulgere, più o meno cinicamente, all’idillio anzi all’arcadia â— quei due che si abbracciano in un par co al tramonto, ohibò â— ecco che il caso favorisce il talento. La fortuna è propria del ge nio, diceva Napoleone. E Tho mas, sviluppando quell’im magine banale, hala Rivela zione, scopre il morto â— me tafora ibseniana, certo, però sempre viva. Ecco dunque il ritratto d’ar tista che si precisa nel suo de stino fatale. Perché la verità che il fotografo (ancora Ibsen!) aveva creduto d’intravvedere, maneggiando casual mente e senza intenzioni la sua macchina â— operando da artigiano, se si vuole, e non da artista â— quella verità poi si dissolve, al momento di possederla. Alla fine, esausto e stordito, Tom rinuncerà a sapere. E non si rifiuterà di partecipare alla fittizia partita di tennis dei pagliacci. La parabola è chiara. La ve rità non la si può cogliere con un atto di volontà (fotografa re gli slums è inutile, e tanti saluti al realismo socialista). Si può però, talvolta, per ca so, intravvederla: a patto di essere geniali cioè fortunati. Ma se la si vede, non si può esserne certi. Chi però l’ha vi sta, o crede di averla vista, non gli resta che ammazzarsi (ubriacarsi, drogarsi, dormi re). Oppure, diventare un ar tista ufficiale (un pagliaccio). Qual è la funzione del colo re nel suo film?, chiese un ta le, e io fui riportato alla con ferenza-stampa. Una funzione espressiva, rispose Antonioni. Per esempio, quando Tom, ir requieto e stanco, gira a caso per le vie di Londra, ho volu to che questo suo vagare av venisse in una strada che ha delle case dipinte di rosso, perché quel rosso, in quella scena, esprime, mi pare, lo stato d’animo di Tom: se le case fossero state di colore di verso, la scena sarebbe stata più debole… Quel rosso di quei mattoni è un rosso au tentico, intendiamoci, quelle case sono proprio rosse, come quell’altra, che viene poco do po, azzurra, è proprio azzur ra… Londra, concluse, è una città piena di colori. Questa insistenza di Anto nioni sull’obiettività dires se altrove i miei pensieri. Ho sbagliato tutto, ma che ritrat to d’artista! Antonioni ha vo luto confezionare un oggetto industriale perfetto, che è quello che è e non significa nulla. Un oggetto capace di mostrare a colui che lo osser vi ciò che l’osservatore desi dera vedervi. In Blow Up c’è tutto, l’erotismo e l’indiffe renza, il feticismo degli ogget ti e l’omicidio, l’arcadia e il sadismo, la natura e l’indu stria, la critica del costume e della società e l’individuali smo più sfrenato e irrespon sabile, e poi la droga e la cul tura e l’attimo fuggente, e l’av ventura e l’eclisse e il grido. Ognuno ci peschi quello che crede, non ci ho forse visto, io, quello che m’interessa, una indicazione sul problema del l’artista nella società moder na? Un regista wittgensteiniano, Antonioni. E il premio, se lo merita. Ma un fotografo che gira in Rolls Royce, via, com’è possi bile?, chiese un tale. Niente affatto, rispose Antonioni, a Londra è possibile, io ne ho conosciuti almeno un paio. Una signora domandò se la scena delle modelle nude non fosse stata tagliata, a Cannes: a Londra le era sembrata più lunga. Nessun taglio, dichia rò Antonioni. E aggiunse ar guto: è chiaro che lei voleva vederne di più. Il pubblico ri se, e fu la sola volta. Io non risi, rividi Antonio ni come m’era apparso la not te prima, verso le due del mat tino. Me l’ero trovato davan ti all’improvviso, nella rue d’Antibes buia e deserta. Cam minava a grandi passi verso di me, insieme con Carlo Ponti, loro due soli, non ve devano nessuno, quasi ci scon trammo, sparirono. Gesticola vano. Avvertii una singolare relazione, fra i due, non il so lito rapporto mercantile fra produttore e regista. Una com plicità incalcolabile e non sen za precedenti illustri. Potreb be essere un personaggio fau stiano, Antonioni? Certo, Pon ti sarebbe il suo Mefistofele ideale, e non solo perché fi- schietta sempre, come nel me lodramma di Boito. Ma allora Blow Up potrebbe esserlo, un oggetto industriale perfetto: però firmato, all’interno, col sangue del suo autore, rima sto solo, coi suoi Guerra e Di Palma, fra un gruppo di spe cialisti anglosassoni. Potrebbe anche essere un ritratto d’ar tista, Blow Up, ma l’artista, il giovane, il cane, il fotografo di moda, è Antonioni stesso (anche i ritratti di Joyce e di Dylan Thomas erano autobio grafici). Ma se Blow Up fosse autobiografico, allora questo film, che è al terzo posto nel la graduatoria degli incassi in America, allora, questo film… Che dire, di Mouchette? Che dire di un film che racconta una storia deprimente, mostra personaggi odiosi, un ambien te bieco, attori che sono perso ne qualsiasi, prive di ogni at trattiva? Un film che svolge una vicenda che in mano a qua lunque altro regista non Si sopporterebbe per cinque mi nuti? Figurarsi: una ragazzetta quattordicenne, figlia di un contrabbandiere alcooliz zato e di una cancerosa alcoolizzata pure lei che vive in uno squallido paesaggio vicino alla frontiera belga, in una ca sa che è un tugurio; a scuola, Mouchette è odiata dalla mae stra perché stona quando can ta, e dai compagni sbeffeggia ta perché brutta e sporca. Onde si comporta, com’è giu sto, in modo da rendersi anco ra più antipatica. Fra le sue abitudini c’è quella di gironzolare nei bo schi, e una sera viene colta da un acquazzone che Mouchette prende per un ciclone, quindi resta a inzupparsi sotto una pianta, finché cade la notte e sopraggiunge un bracconiere epilettico (e alcoolizzato, tan to per cambiare), il quale se la porta nella sua capanna, le racconta di aver testé ammaz zato un guardiacaccia, ha una crisi di epilessia, si riprende, e, appena in piedi, fa bere la bambina e la violenta. La bam bina torna a casa, dà da man giare al fratellino e non s’ac corge che la madre sta agoniz zando. Favorisce il di lei tra passo con un buon bicchiere di acquavite, le si accosta per confidarsi, è la prima volta, di ce Bernanos, che si apriva a qualcuno, ma, precisa, « la morta non udì ». Non è finita. La mattina do po, Mouchette gira per il pae se per rifornirsi di latte per il fratellino, viene subito pre sa in giro da comari astute che capiscono al volo quello che le è successo, fa l’incontro di una zitella sadica e necro fila che le consegna un suda rio per la madre e una vesti na bianca per lei â— ahi me morie pirandelliane! â— quella vestina che poco dopo la bam bina si avvolgerà intorno al corpo, dopo averla coscienzio samente lacerata con un pru no perché non ci siano dubbi sui simboli, al momento di buttarsi in uno stagno. E farla finita. Una storia torcibudelle co me questa solo Bernanos po teva scriverla, e bisogna an che dire che la Nouvelle histoire de Mouchette aggiunge po co ai suoi meriti letterari. E’ un libretto, abbastanza verbo so e velleitario. Però, ecco, Bresson ne ha tirato un film bellissimo, che si fa guardare con trepidazione, forse il più riuscito della sua carriera, cer to superiore a Balthazar. Que sto era il film che avrebbe meritato il premio, e di gran lunga. E invece non ha avuto che un riconoscimento mode sto, di parte. Già, perché Ber nanos era uno scrittore cat tolico, sia pure a modo suo, e Bresson è un regista cattoli co: ergo Mouchette ha da es sere un film cattolico. Sarà, io di film cattolici non ne so granché. Ma di cattolico in questo film lucido e nero e privo della minima luce di spe ranza, non sono proprio riu scito a veder nulla. In questo, non sono disposto a far cre dito a Bresson, quando ci ha detto, durante la conferenza-stampa, che la bambina si uccide per ottimismo, perché spera nell’aldilà. Bresson è ca pace di dire questo e altro, con quella insofferenza anzi quel disprezzo per il prossi mo che si porta in viso. Un viso asciugato su un corpo se galigno, un profilo d’aquila, una corona di lunghi bianchi svolazzanti capelli. Ha fama di dispotismo sul lavoro, Bres son, e intrattiene faticosi rap porti coi produttori. In com penso, gli attori non li ama e se può ne fa a meno. Potrebbe essere un architetto, come sago ma, ricorda Wright, Le Corbusier. Potrebbe essere un im postore, un genio delle Public Relations. E invece è proprio un artista. Con la sola forza delle immagini riesce a dirci di Mouchette molte più cose di quanto Bernanos non ci di cesse, con tante più parole e fatti e personaggi. Passano die ci minuti filati senza che nel suo film si pronunci sillaba. E poi basterebbe la scena del la fiera, dove Mouchette ha un suo momento di gioia, quando è montata su una automobili na e gioca a scontrarsi con un suo coetaneo. Niente di più banale, una scena vista le mil le volte. Ma Bresson ne ha fatto un episodio indimen ticabile, che guardiamo col cuo re in gola, come peraltro tutto il film. Il resto del Festival fu ordi naria amministrazione. O me glio, una certa novità, di ordine tecnico, c’è stata, e riguarda l’area delle convenzioni espressive. Siamo entrati nel l’èra del torso nudo per signo ra, che ormai tutti i registi si affrettano a impiegare, a torto e a traverso. I più disinvolti sono i nordici, perché pare ab biano più esperienza. La con seguenza è, chi l’avrebbe det to, la quasi totale sparizione del bacio. Fino a sei mesi fa, il bacio rappresentava per con venzione l’intero rapporto d’amore, era quindi un mo mento nodale di ogni vicenda, e perciò era oggetto di parti colari cure. Anzi c’era tutto un catalogo dei vari generi di bacio, in movimento, da fer mi, segnando il passo, noncu rante, a dispetto, eccetera; e se ne cronometrava la durata, secondo un codice internazio nale scritto. Oggi, alla conven zione del bacio s’è silenziosa mente sostituita quella del se no. E la donna amante, che prima offriva la bocca, oggi of fre il seno, come una balia. Il seguito, lo vedremo. Forse Antonioni ce ne ha dato un anticipo, col suo amplesso nu do e crudo, in Metrocolor, che ci mostra in Blow Up. Beninteso, a questi traguar di non sono ancora arrivati proprio tutte le cinemato grafie europee. Per esempio, i russi gli ungheresi gli jugosla vi adoperano ancora il bacio: ma i cecoslovacchi, sono al se no. Da ogni altro punto di vi sta direi che non hanno pro prio nulla da imparare da nes suno. Se ci potevano essere ancora censure o autocensure di qualsiasi tipo: tendenze al l’agiografia o compiacenze pseudoavanguardistiche, film come Diecimila soli dell’un gherese Ferenc Kosa (Titezer Nap), o Ho incontrato perfi no degli zingari felici, del ju goslavo Alexandar Petrovic (Skulpjaci Perja), sono prove di una maggiore età raggiun ta, soprattutto sul piano della presa di coscienza dei proble mi di quelle società. Il film ungherese, che ha fatto grida re al miracolo più di un cri tico di Parigi, racconta con onestà ed efficacia la vita di un contadino durante gli ulti mi decenni e rappresenta e discute senza peli sulla lin gua i fatti del ’56. Il film ju goslavo racconta un episodio della vita di una tribù zinga ra, e se è vero che la maturi tà di un popolo si vede anche dal modo come tratta le sue minoranze, bisogna pensare chela Jugoslavia sia molto avanti. Da noi gli zingari non godono di altrettanta tolle ranza. Il resto della cronaca del Fe stival è irrilevante, nessuno può prendere sul serio le com petizioni dei festival e quin di non è il caso di commenta re il verdetto dei giudici; tan tomeno di scandalizzarsi di epi sodi grotteschi come quello di Lelouch, il giovinastro assur to da un giorno all’altro al successo più strepitoso, che entra in giuria ma ignora la differenza fra giurato e mer cante di film. Mi pare invece che metta il conto di accen nare a un film che non face va parte del festival e fu pre sentato una sola mattina in una saletta privata. Si tratta di un film svedese a episodi, Stimulantia, firmato da otto gran di registi svedesi, fra cui Gu stav Nolander e Ingmar Bergman. Il pezzo più stimolante è quello di Bergman, e vedi caso è un Ritratto di Artista quale Padre. Il tema, se sia ancora possibile fare dell’arte, è ormai diventato un tema obbligato. Bergman col suo cortometraggio dedicato a suo figlio Daniel, dice esplicita mente il suo parere, che è una conclusione amara e senza speranza, una dichiarazione di fallimento in piena rego la. Ancora una volta, le fragi li spalle dei neonati sono ca ricate dei pesi, e non si tratta soltanto di pesi artistici, che noi, i padri, non abbiamo sa puto portare. Bergman non di ce perché, ma dice che è così. Letto 3497 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. 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