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CINEMA: I MAESTRI: Antonioni: Blow up

2 Giugno 2012

di Luciano Codignola
[da “La Fiera letteraria”, numero 21, giovedì 25 maggio 1967]

Cannes, maggio

La saletta, che poi non è tanto piccola perché a occhio e croce conterrà un trecento persone, era gre ­mita di gente: giornalisti, critici, invitati, operatori cine ­matografici e televisivi, gli elettricisti del parco lampade, i fotografi. S’era appena proiettato Blow Up e stava per co ­minciare la più attesa confe ­renza-stampa del Festival. Fi ­no all’ultimo momento ci era stato detto che Antonioni non sarebbe venuto. Faceva caldo ma nessuno se ne lamentava. Eravamo ancora sotto la pri ­ma impressione del film, che a me era molto piaciuto. Me ne andavo elencando mental ­mente i pregi: una fotografia eccellente, colori splendidi, in ­quadrature sempre interessan ­ti; e poi una storia che fun ­ziona, interpreti ben scelti e benissimo diretti, una prepa ­razione sapientissima, grazie alla quale il film va avanti senza annoiare per più di un’ora, prima che vi accada alcunché; e poi gli impennamenti, le ellissi, lo stile; la se ­quenza strepitosa conla Veruschka…

Ci fu un movimento, entrò Vanessa Redgrave, alta, lumi ­nosa. Dietro di lei, Antonioni. E poi il gruppetto del seguito.
I soliti flashes, poi Antonioni esordì, chiedendo il permesso di togliersi la giacca. Se la tol ­se. Si sedette. Guardò alla sua destra, a Vanessa: e Vanessa ebbe in quel momento quel suo lungo sorriso, che dove ­va durarle sulle labbra e ne ­gli occhi fino al termine della conferenza-stampa. Infine, il regista parlò. E disse che gli facessimo il favore di far do ­mande precise, tecniche, per ­ché lui del film poteva solo fornire informazioni a propo ­sito dei procedimenti tecnici.
Il resto, non era il caso.
Il resto, forse, non lo sape ­va bene neanche lui. Chiedes ­simo quello che volevamo, a proposito delle riprese, del co ­lore, delle luci, della stampa, del montaggio, della colonna sonora: ma per favore niente domande generali, niente pro ­blemi d’interpretazione.

Ci fu uno scoraggiamento, in sala. E a me venne voglia d’andarmene, perché di pro ­blemi tecnici non m’interesso. Ma ormai la prima domanda era cominciata. Una signora della seconda fila disse che a suo parere il colore della co ­pia or ora proiettata era infe ­riore, come qualità, a quello della copia che si proietta a Londra. Può essere, rispose Antonioni: ma mi stupirebbe.
Si lavora bene, all’estero?, chiese un tale. Benissimo, ri ­spose Antonioni; a parte qual ­che difficoltà per via della lin ­gua.

Intanto, io stavo ripensando al film. Poco prima m’era sembrato d’intuire il disegno di Antonioni, nel girare Blow Up. Un ritratto d’artista, sen ­za dubbio. L’idea non è nuo ­va, ma dopo Joyce, che ci ave ­va mostrato The Artist as a Young Man, e dopo Dylan Thomas, che aveva corretto: as a Young Dog, perché non spingere più avanti, e accetta ­re l’artista come un cucciolo fotografo â— fotografo di mo ­da, naturalmente? Il ragazzac ­cio di Antonioni, il Tom foto ­grafo che gira in Rolls Royce, può benissimo valere co ­me un modello di artista at ­tuale: vitalistico, disinibito, padrone fino al virtuosismo della sua tecnica, affascinan ­te e fortunato. Anche un bra ­vo ragazzo, ma questo non conta, perché la buona volon ­tà non è una caratteristica del talento. Difatti quando si met ­te a fotografare gli slums di Londra fa fiasco. Quando in ­vece crede di indulgere, più o meno cinicamente, all’idillio anzi all’arcadia â— quei due che si abbracciano in un par ­co al tramonto, ohibò â— ecco che il caso favorisce il talento. La fortuna è propria del ge ­nio, diceva Napoleone. E Tho ­mas, sviluppando quell’im ­magine banale, hala Rivela ­zione, scopre il morto â— me ­tafora ibseniana, certo, però sempre viva.

Ecco dunque il ritratto d’ar ­tista che si precisa nel suo de ­stino fatale. Perché la verità che il fotografo (ancora Ibsen!) aveva creduto d’intravvedere, maneggiando casual ­mente e senza intenzioni la sua macchina â— operando da artigiano, se si vuole, e non da artista â— quella verità poi si dissolve, al momento di possederla. Alla fine, esausto e stordito, Tom rinuncerà a sapere. E non si rifiuterà di partecipare alla fittizia partita di tennis dei pagliacci.

La parabola è chiara. La ve ­rità non la si può cogliere con un atto di volontà (fotografa ­re gli slums è inutile, e tanti saluti al realismo socialista).

Si può però, talvolta, per ca ­so, intravvederla: a patto di essere geniali cioè fortunati. Ma se la si vede, non si può esserne certi. Chi però l’ha vi ­sta, o crede di averla vista, non gli resta che ammazzarsi (ubriacarsi, drogarsi, dormi ­re). Oppure, diventare un ar ­tista ufficiale (un pagliaccio).

Qual è la funzione del colo ­re nel suo film?, chiese un ta ­le, e io fui riportato alla con ­ferenza-stampa. Una funzione espressiva, rispose Antonioni. Per esempio, quando Tom, ir ­requieto e stanco, gira a caso per le vie di Londra, ho volu ­to che questo suo vagare av ­venisse in una strada che ha delle case dipinte di rosso, perché quel rosso, in quella scena, esprime, mi pare, lo stato d’animo di Tom: se le case fossero state di colore di ­verso, la scena sarebbe stata più debole… Quel rosso di quei mattoni è un rosso au ­tentico, intendiamoci, quelle case sono proprio rosse, come quell’altra, che viene poco do ­po, azzurra, è proprio azzur ­ra… Londra, concluse, è una città piena di colori.

Questa insistenza di Anto ­nioni sull’obiettività dires ­se altrove i miei pensieri. Ho sbagliato tutto, ma che ritrat ­to d’artista! Antonioni ha vo ­luto confezionare un oggetto industriale perfetto, che è quello che è e non significa nulla. Un oggetto capace di mostrare a colui che lo osser ­vi ciò che l’osservatore desi ­dera vedervi. In Blow Up c’è tutto, l’erotismo e l’indiffe ­renza, il feticismo degli ogget ­ti e l’omicidio, l’arcadia e il sadismo, la natura e l’indu ­stria, la critica del costume e della società e l’individuali ­smo più sfrenato e irrespon ­sabile, e poi la droga e la cul ­tura e l’attimo fuggente, e l’av ­ventura e l’eclisse e il grido. Ognuno ci peschi quello che crede, non ci ho forse visto, io, quello che m’interessa, una indicazione sul problema del ­l’artista nella società moder ­na? Un regista wittgensteiniano, Antonioni. E il premio, se lo merita.

Ma un fotografo che gira in Rolls Royce, via, com’è possi ­bile?, chiese un tale. Niente affatto, rispose Antonioni, a Londra è possibile, io ne ho conosciuti almeno un paio. Una signora domandò se la scena delle modelle nude non fosse stata tagliata, a Cannes: a Londra le era sembrata più lunga. Nessun taglio, dichia ­rò Antonioni. E aggiunse ar ­guto: è chiaro che lei voleva vederne di più. Il pubblico ri ­se, e fu la sola volta.

Io non risi, rividi Antonio ­ni come m’era apparso la not ­te prima, verso le due del mat ­tino. Me l’ero trovato davan ­ti all’improvviso, nella rue d’Antibes buia e deserta. Cam ­minava a grandi passi verso di me, insieme con Carlo Ponti, loro due soli, non ve ­devano nessuno, quasi ci scon ­trammo, sparirono. Gesticola ­vano. Avvertii una singolare relazione, fra i due, non il so ­lito rapporto mercantile fra produttore e regista. Una com ­plicità incalcolabile e non sen ­za precedenti illustri. Potreb ­be essere un personaggio fau ­stiano, Antonioni? Certo, Pon ­ti sarebbe il suo Mefistofele ideale, e non solo perché fi- schietta sempre, come nel me ­lodramma di Boito. Ma allora Blow Up potrebbe esserlo, un oggetto industriale perfetto: però firmato, all’interno, col sangue del suo autore, rima ­sto solo, coi suoi Guerra e Di Palma, fra un gruppo di spe ­cialisti anglosassoni. Potrebbe anche essere un ritratto d’ar ­tista, Blow   Up, ma l’artista, il giovane, il cane, il fotografo di moda, è Antonioni stesso (anche i ritratti di Joyce e di Dylan Thomas erano autobio ­grafici). Ma se Blow Up fosse autobiografico, allora questo film, che è al terzo posto nel ­la graduatoria degli incassi in America, allora, questo film…
La conferenza-stampa era fi ­nita. Michelangelo Antonioni mi passò accanto. « Le è pia ­ciuto, il film? », mi chiese. « Molto. Moltissimo », risposi.

Che dire, di Mouchette? Che dire di un film che racconta una storia deprimente, mostra personaggi odiosi, un ambien ­te bieco, attori che sono perso ­ne qualsiasi, prive di ogni at ­trattiva? Un film che svolge una vicenda che in mano a qua ­lunque altro regista non Si sopporterebbe per cinque mi ­nuti? Figurarsi: una ragazzetta quattordicenne, figlia di un contrabbandiere alcooliz ­zato e di una cancerosa alcoolizzata pure lei che vive in uno squallido paesaggio vicino alla frontiera belga, in una ca ­sa che è un tugurio; a scuola, Mouchette è odiata dalla mae ­stra perché stona quando can ­ta, e dai compagni sbeffeggia ­ta perché brutta e sporca. Onde si comporta, com’è giu ­sto, in modo da rendersi anco ­ra più antipatica.

Fra le sue abitudini c’è quella di gironzolare nei bo ­schi, e una sera viene colta da un acquazzone che Mouchette prende per un ciclone, quindi resta a inzupparsi sotto una pianta, finché cade la notte e sopraggiunge un bracconiere epilettico (e alcoolizzato, tan ­to per cambiare), il quale se la porta nella sua capanna, le racconta di aver testé ammaz ­zato un guardiacaccia, ha una crisi di epilessia, si riprende, e, appena in piedi, fa bere la bambina e la violenta. La bam ­bina torna a casa, dà da man ­giare al fratellino e non s’ac ­corge che la madre sta agoniz ­zando. Favorisce il di lei tra ­passo con un buon bicchiere di acquavite, le si accosta per confidarsi, è la prima volta, di ­ce Bernanos, che si apriva a qualcuno, ma, precisa, « la morta non udì ».

Non è finita. La mattina do ­po, Mouchette gira per il pae ­se per rifornirsi di latte per il fratellino, viene subito pre ­sa in giro da comari astute che capiscono al volo quello che le è successo, fa l’incontro di una zitella sadica e necro ­fila che le consegna un suda ­rio per la madre e una vesti ­na bianca per lei â— ahi me ­morie pirandelliane! â— quella vestina che poco dopo la bam ­bina si avvolgerà intorno al corpo, dopo averla coscienzio ­samente lacerata con un pru ­no perché non ci siano dubbi sui simboli, al momento di buttarsi in uno stagno. E farla finita.

Una storia torcibudelle co ­me questa solo Bernanos po ­teva scriverla, e bisogna an ­che dire che la Nouvelle histoire de Mouchette aggiunge po ­co ai suoi meriti letterari. E’ un libretto, abbastanza verbo ­so e velleitario. Però, ecco, Bresson ne ha tirato un film bellissimo, che si fa guardare con trepidazione, forse il più riuscito della sua carriera, cer ­to superiore a Balthazar. Que ­sto era il film che avrebbe meritato il premio, e di gran lunga. E invece non ha avuto che un riconoscimento mode ­sto, di parte. Già, perché Ber ­nanos era uno scrittore cat ­tolico, sia pure a modo suo, e Bresson è un regista cattoli ­co: ergo Mouchette ha da es ­sere un film cattolico. Sarà, io di film cattolici non ne so granché. Ma di cattolico in questo film lucido e nero e privo della minima luce di spe ­ranza, non sono proprio riu ­scito a veder nulla. In questo, non sono disposto a far cre ­dito a Bresson, quando ci ha detto, durante la conferenza-stampa, che la bambina si uccide per ottimismo, perché spera nell’aldilà. Bresson è ca ­pace di dire questo e altro, con quella insofferenza anzi quel disprezzo per il prossi ­mo che si porta in viso. Un viso asciugato su un corpo se ­galigno, un profilo d’aquila, una corona di lunghi bianchi svolazzanti capelli. Ha fama di dispotismo sul lavoro, Bres ­son, e intrattiene faticosi rap ­porti coi produttori. In com ­penso, gli attori non li ama e se può ne fa a meno. Potrebbe essere un architetto, come sago ­ma, ricorda Wright, Le Corbusier. Potrebbe essere un im ­postore, un genio delle Public Relations. E invece è proprio un artista. Con la sola forza delle immagini riesce a dirci di Mouchette molte più cose di quanto Bernanos non ci di ­cesse, con tante più parole e fatti e personaggi. Passano die ­ci minuti filati senza che nel suo film si pronunci sillaba. E poi basterebbe la scena del ­la fiera, dove Mouchette ha un suo momento di gioia, quando è montata su una automobili ­na e gioca a scontrarsi con un suo coetaneo. Niente di più banale, una scena vista le mil ­le volte. Ma Bresson ne ha fatto un episodio indimen ­ticabile, che guardiamo col cuo ­re in gola, come peraltro tutto il film.

Il resto del Festival fu ordi ­naria amministrazione. O me ­glio, una certa novità, di ordine tecnico, c’è stata, e riguarda l’area delle convenzioni espressive. Siamo entrati nel ­l’èra del torso nudo per signo ­ra, che ormai tutti i registi si affrettano a impiegare, a torto e a traverso. I più disinvolti sono i nordici, perché pare ab ­biano più esperienza. La con ­seguenza è, chi l’avrebbe det ­to, la quasi totale sparizione del bacio. Fino a sei mesi fa, il bacio rappresentava per con ­venzione l’intero rapporto d’amore, era quindi un mo ­mento nodale di ogni vicenda, e perciò era oggetto di parti ­colari cure. Anzi c’era tutto un catalogo dei vari generi di bacio, in movimento, da fer ­mi, segnando il passo, noncu ­rante, a dispetto, eccetera; e se ne cronometrava la durata, secondo un codice internazio ­nale scritto. Oggi, alla conven ­zione del bacio s’è silenziosa ­mente sostituita quella del se ­no. E la donna amante, che prima offriva la bocca, oggi of ­fre il seno, come una balia. Il seguito, lo vedremo. Forse Antonioni ce ne ha dato un anticipo, col suo amplesso nu ­do e crudo, in Metrocolor, che ci mostra in Blow Up.

Beninteso, a questi traguar ­di non sono ancora arrivati proprio tutte le cinemato ­grafie europee. Per esempio, i russi gli ungheresi gli jugosla ­vi adoperano ancora il bacio: ma i cecoslovacchi, sono al se ­no. Da ogni altro punto di vi ­sta direi che non hanno pro ­prio nulla da imparare da nes ­suno. Se ci potevano essere ancora censure o autocensure di qualsiasi tipo: tendenze al ­l’agiografia o compiacenze pseudoavanguardistiche, film come Diecimila soli dell’un ­gherese Ferenc Kosa (Titezer Nap), o Ho incontrato perfi ­no degli zingari felici, del ju ­goslavo Alexandar Petrovic (Skulpjaci Perja), sono prove di una maggiore età raggiun ­ta, soprattutto sul piano della presa di coscienza dei proble ­mi di quelle società. Il film ungherese, che ha fatto grida ­re al miracolo più di un cri ­tico di Parigi, racconta con onestà ed efficacia la vita di un contadino durante gli ulti ­mi decenni e rappresenta e discute senza peli sulla lin ­gua i fatti del ’56. Il film ju ­goslavo racconta un episodio della vita di una tribù zinga ­ra, e se è vero che la maturi ­tà di un popolo si vede anche dal modo come tratta le sue minoranze, bisogna pensare chela Jugoslavia sia molto avanti. Da noi gli zingari non godono di altrettanta tolle ­ranza.

Il resto della cronaca del Fe ­stival è irrilevante, nessuno può prendere sul serio le com ­petizioni dei festival e quin ­di non è il caso di commenta ­re il verdetto dei giudici; tan ­tomeno di scandalizzarsi di epi ­sodi grotteschi come quello di Lelouch, il giovinastro assur ­to da un giorno all’altro al successo più strepitoso, che entra in giuria ma ignora la differenza fra giurato e mer ­cante di film. Mi pare invece che metta il conto di accen ­nare a un film che non face ­va parte del festival e fu pre ­sentato una sola mattina in una saletta privata. Si tratta di un film svedese a episodi, Stimulantia, firmato da otto gran ­di registi svedesi, fra cui Gu ­stav Nolander e Ingmar Bergman. Il pezzo più stimolante è quello di Bergman, e vedi caso è un Ritratto di Artista quale Padre. Il tema, se sia ancora possibile fare dell’arte, è ormai diventato un tema obbligato. Bergman col suo cortometraggio dedicato a suo figlio Daniel, dice esplicita ­mente il suo parere, che è una conclusione amara e senza speranza, una dichiarazione di fallimento in piena rego ­la. Ancora una volta, le fragi ­li spalle dei neonati sono ca ­ricate dei pesi, e non si tratta soltanto di pesi artistici, che noi, i padri, non abbiamo sa ­puto portare. Bergman non di ­ce perché, ma dice che è così.


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Bart