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CINEMA: I MAESTRI: Il teledivismo

9 Ottobre 2013

di Raffaello Brignetti
[da “La fiera letteraria”, numero 13, giovedì, 28 marzo 1968]

E’ stato di Su e giù o di qualche al ­tra trasmissione che si è detto: ci fare ­mo l’abitudine? La questione ha così poca importanza che non mette conto controllarla sulle copie arretrate. Tut ­ti lo sapevamo. Come Su e giù, si poteva dire la stessa cosa di Partitissi ­ma, della Fiera dei sogni, e via. Lo si vede dalle facce e dal tono dei saluti ogni volta che una serie arriva all’ulti ­ma puntata. L’abitudine è fatta: la me ­lassa di questi commiati, benché spar ­sa tante volte, è sempre buona in quanto contiene un piccolo che di au ­tentico e di necessario. Dalla terza o quarta puntata in poi comincia a for ­marsi l’opinione che lo spettacolo non sia poi tanto povero e dispiaccia che finisca.

La constatazione è empirica. Ma se ne trova conferma anche in un testo. E’ Psicologia del divismo televisivo di Donato Goffredo (Fratelli Palombi Editori – Roma, 1968) che naturalmen ­te non ha per tema soltanto questo, ma che, proprio occupandosi a fondo della televisione, ne delinea il proces ­so e quasi la fatalità dell’abitudine del pubblico ai programmi, specie di serie.

Esaminiamo, trattato alla mano, Su e giù. Vi si riscontrano tutti gli ele ­menti che, da una parte, dimostrano esatta la teoria, e, dall’altra, consento ­no di riconoscere la prassi. Il tratteni ­mento serale del giovedì è una traspo ­sizione del gioco dell’oca, il più fami ­liare, bonario, natalizio gioco che la tradizione ci abbia consegnato. Il pre ­sentatore, Corrado, ha tutte le doti per essere inteso come un amico ilare, dal ­le battute di spirito mai troppo rare ­fatte e mai pronunciate in un linguag ­gio impreziosito, «all’inglese »; di più, egli potrebbe essere un parente, un giovane zio, un cognato, il cugino un tantino « pecora nera » ma « una vera pasta », il meno imbarazzante dei cu ­gini.

La sua misura culturale è quella di uno che ha « fatto gli studi » per gli spettatori che hanno « fatto gli studi », ma anche quella di uno che non ha studiato molto per coloro che non hanno studiato molto. E’ romano, ma non « bullo »; uno di quelli che fanno pensare: beh, nonostante il loro modo di fare scettico in apparenza, i romani sono brava gente; sentimentaloni, co ­me noi. Corrado è uno di noi.

Quando la trasmissione è stata ar ­ricchita di una componente comica, ecco apparire la Valori e Panelli: non elaborati, non inediti; soprattutto, una coppia. All’inizio era apparsa un’altra riconosciuta, acquisita coppia: la Mon ­daini e Vianello. I concorrenti, pure, sono come noi, quasi sempre persone senza particolari movenze, di profes ­sioni correnti, di aspetto consueto. Al ­le domande il pubblico potrebbe ri ­spondere il più delle volte esattamen ­te come loro: non sono degli specializ ­zati. Sopra ogni altra cosa, Su e giù non presenta sorprese. Si sa che ricom ­pare ogni giovedì e non si sa quando finirà: Corrado e il gioco in famiglia sono assicurati a tempo indeterminato.

Questi canoni, a parte tutto il resto, vengono regolarmente contemplati in Psicologìa del divismo televisivo e in tutti gli altri studi che il saggio indica e richiama abbondantemente. In spe ­cie. è prevista la serie, l’abitudine. C’è di mezzo la provincia, come qui si ac ­cennò fin dal primo giorno, ma non meno uno speciale divismo.

meccanismi della società neocapi ­talistica o collettivistica â— è l’assunto del testo â— rendono l’uomo più ogget ­to che soggetto; la specializzazione tecnologica fraziona l’uomo. L’uomo, così, non può fare a meno di avvertire un’istanza sacrale che lo difenda da tanta sua transitorietà e solitudine. D’altronde si trova di fronte a un vuo ­to sacrale in rapporto alla maggior parte dei valori tradizionali. Ecco, al ­lora, il ritorno di uno stato d’animo analogo a quello che indusse l’uomo di altre epoche, generalmente di crisi, a colmare il salto di qualità fra il pro ­prio stato e quello di una trascenden ­za diventata inafferrabile appunto per la sua ridotta capacità di percepirla spiritualmente; colmarlo mitizzando alcune figure: l’imperatore, l’eroe, il sacerdote al posto della divinità. Tom ­maseo ricorda la definizione di « dei » per le entità di natura divina, e di « divi » per gli ascritti, umani, al nu ­mero degli « dei ». « Gli imperatori erano divi, non dei ».

Al posto degli imperatori, degli eroi, eccetera, sono ora « divi » i portatori di immagini. Da questa condizione del ­l’uomo contemporaneo e dal linguag ­gio per immagini ecco scaturire la sor ­gente mitopoietica del divismo.

Ma altro è dire divismo, ad esempio, cinematografico, altro è dire divismo televisivo. Il primo ha carattere oniri ­co; il secondo, carattere realistico. I di ­vi del cinema sono radiosi, grandi, re ­moti: i numina; quelli della televisione casalinghi e vicini: i penates. Al cine ­ma si addice la singolarità delle situa ­zioni, dei gesti, delle avventure amoro ­se e di vita esaltabili dai rotocalchi. Alla televisione no. I penates non de ­vono esse avventurosi; meglio se ap ­paiono, più che sui rotocalchi, nei « ca ­roselli », a contatto coi dadi da brodo, i biscotti, le bibite, gli elettrodomestici presenti in tutte le case. In ogni casa sarebbe semplice e affettuoso trovarsi una volta a cena un Corrado, un Lu ­po, un Simonetti, un Marchesi, una Masiero, una « signorina buonasera », mentre creerebbero, sì, splendore, ma anche scompiglio e disappetenza ner ­vosa una Sofia Loren o una Claudia Cardinale.

Il divismo stesso del tipo numina si trasforma in divismo del tipo penates quando dal cinema o dal teatro passa in televisione. Anche al Delia Scala Story l’abitudine era fatta, nonostante la pochezza delle prime puntate e pro ­prio per la ripetizione, in TV, di vec ­chie cose già collaudate sul palcosce ­nico.

I canoni erano ancora meglio che in Su e giù puntualmente rispettati, a co ­minciare dal titolo già nell’orecchio del pubblico, risaputo, ripreso dalla terminologia americaneggiante in cir ­colazione, a finire con il lenocinio â— sia detto senza malignità â— della rap ­presentazione, come sigla conclusiva, dei commenti immaginati proprio in famiglia. Erano penates la modestia di copione della protagonista, dei suoi costumi, la sfilata dei personaggi che il pubblico considera « suoi », la rievoca ­zione del passato, la variante di una Delia-Odette con la fede all’anulare e specialmente donna di casa… Il divi ­smo televisivo rispondeva qui a tutte le regole del gioco, compresa la serie.

C’erano confidenza, abitudine. Forse era un male: ma almeno in TV questo divismo è realistico â— per quanto lo possa essere un fenomeno del genere â— e concorre a circoscrivere la fanta ­sticheria di quello dei numina alla Ro ­dolfo Valentino.


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