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CINEMA: I MAESTRI: Spencer Tracy. Senza essere mai divo non conobbe nessun insuccesso

12 Maggio 2016

di Gian Luigi Rondi
[da “La Fiera Letteraria”, numero 25, giovedì 22 giugno 1967]

Ho incontrato Spencer Tracy sei anni fa. A Berlino, il quattordici dicembre del ’61. Faceva più freddo che a Londra e che a Parigi. Un cielo basso, nerissimo, che quasi aveva impedito agli aerei di at ­terrare. Una città battuta da un vento polare, velocissimo, quel ­lo               cui i bollettini meteorologici sono abituati ad attribuire record da automobili da corsa.

Alla Kongress Halle c’era la prima europea di un film così importante, che in tanti ci era ­vamo mossi apposta per vederlo: Vincitori e vinti, di Stanley Kramer.

Era stata scelta Berlino, per questa prima, perché, come si ricorderà, il film era la documentazione, anzi la radiografia, del processo di Norimberga e, attra ­verso i casi di alcuni giudici e di alcuni imputati, intendeva af ­fermare i princìpi e le idee degli Stati Uniti d’America su quei giorni e, soprattutto, su quelli, orrendi, che li avevano precedu ­ti e determinati. Con quella pri ­ma, perciò, si voleva ribadire una idea e, nello stessa tempo, avvi ­cinarsi alla nuova Germania, nel ­la sua ex-capitale, per farle ve ­dere che gli Stati Uniti erano e intendevano essere contro il na ­zismo, ma non contro i tedeschi.

A dare maggior rilievo a quel ­la proiezione, Hollywood aveva chiesto a tutti gli interpreti del film di essere presenti alla Kongress Hall, tutti, a eccezione di Marlen Dietrich, il cui fiero at ­teggiamento antitedesco avrebbe potuto nuocere alla missione di ­mostrativa e a un tempo diplo ­matica di quella proiezione. Vi erano così Judy Garland, Mont ­gomery Clift, Richard Widmark e, naturalmente, Spencer Tracy, che nel film aveva la parte del presidente del Tribunale, un giu ­dice equilibrato e sereno, intima ­mente pervaso dai princìpi demo ­cratici del suo Paese.

Tutto bianco di capelli, massic ­cio, quadrato, mi accorsi, però, che il suo piglio risoluto sembra ­va un poco attenuato, quasi af ­fievolito. Non solo nella stretta di mano, che non mi ricordò le famose zampate per cui era di ­ventato proverbiale, ma perfino nella voce, che sembrava nascon ­dere un non so che di fioco e d’in ­certo, se non proprio di stanco. Lì per lì detti la colpa al fred ­do, a quel freddo che ci aveva attanagliato tutti per le vie geli ­de della città e che i termosifo ­ni della Kongress Halle stenta ­vano a domare. Una decina di minuti dopo l’inizio della proie ­zione, però, vidi Tracy, seduto in prima fila, vicino al sindaco Wil ­ly Brandt, alzarsi impacciato, far cenno a un amico che sede ­va due file più indietro, e allon ­tanarsi discretamente, con un passo che mi parve stranamente esitante.

Ne parlai, dopo il film, con Stanley Kramer, con l’idea di enunciare un semplice fatto di cronaca, senza molto peso, an ­che se avevo potuto costatare che Tracy non si era più fatto vivo alla Kongress Halle. Mi aspettavo una risposta qualun ­que, sul piano della conversazio ­ne mondana, gli vidi invece ag ­grottare le ciglia, farsi pensie ­roso e gli sentii mormorare, qua ­si controvoglia, due o tre frasi sulle cattive condizioni di salu ­te di Tracy. Avevo letto, però, proprio qualche giorno prima che l’attore si era fatto visitare ai « Cedri del Libano », la cele ­bre clinica di Hollywood dove gli attori e i ricchi californiani van ­no di tanto in tanto per il check-up, e avevo letto che i medici lo                 avevano trovato in ottima for ­ma. Lo dissi a Kramer che, an ­ziché confermare il responso di quei medici, si lasciò sfuggire af ­fermazioni molto più negative e pessimistiche. Tracy, mi disse, era molto malato, anzi, con ogni probabilità era irrimediabilmen ­te malato. I medici, conoscendo la sua forza, non gli avevano di certo mentito. Era lui che menti ­va agli altri, perché non deside ­rava parlare con nessuno di se stesso e della sua privacy.

Passò del tempo. Pensavo spes ­so a quella breve apparizione di Spencer Tracy a Berlino, pensa ­vo alla notizia che mi aveva da ­to Kramer. Ma da Hollywood niente e nessuno sembrava con ­fermarla. Poco tempo fa ne par ­lai proprio con Vincente Minnelli, che, a Hollywood, ha la casa a due tiri di schioppo da quella di Tracy. « E’ vero, non sta mol ­to bene », mi rispose, « mi sem ­bra, anzi, che lo abbiano anche operato, però non credo che ab ­bia qualcosa di veramente gra ­ve, perché lavora. Regolarmente. Proprio un me fa, anzi, ha co ­minciato un film ».

Il film era Guess who’s coming to dinner. Al suo fianco c’era Katarine Hepburne, con cui Tra ­cy aveva fatto spesso coppia fis ­sa, soprattutto in alcuni film umoristici. Finito il film, lessi che aveva dichiarato alla stam ­pa: « Sono stanco, forse questo film costituirà il mio addio al cinema ». Recitava ancora, na ­scondeva la verità agli altri o la nascondeva anche a se stesso? E in questi giorni, da Hollywood, è arrivata la notizia della sua morte. Motivo: cuore. Ma poteva trattarsi di un motivo provocato da un altro, anche più grave motivo. Contro il quale Tracy si era battuto per sei anni.

Questa sua lotta contro la mor ­te, questa sua tenacia, questo suo riserbo in extremis, sono i segni e le caratteristiche che hanno guidato tutta la sua non lunga vita (è morto in fondo a soli sessantasette anni). E che han ­no guidato anche la sua carriera.

Diventò celebre quando erano celebri, con lui, a Hollywood, Gary Cooper e Clark Gable. Il primo, in gioventù, era anche stato bello e, tutto sommato, po ­teva considerarsi, oltre che at ­tore, divo. Il secondo si era im ­posto, come divo, per quella ar ­rogante baldanza da simpatica canaglia che lo aveva reso l’ido ­lo delle donne di tutto il mondo.

Innegabilmente, nel terzetto, Spencer Tracy era quello che la natura aveva meno dotato. Le sue origini se non proprio con ­tadine, almeno agrarie, gli si leg ­gevano sul viso rustico e a tratti perfino un po’ plebeo, traspari ­vano da quella sua corporatura un po’ tozza, quasi atticciata, gli si svelarono anche più con il pas ­sare degli anni, su quella fitta rete di rughe che presto gli coprì   il volto, esattamente come le ru ­ghe degli uomini che vivono mol ­to all’aria aperta, lavorando la terra.

Però, nonostante questo e for ­se, molte volte, per merito pro ­prio di questo, Tracy, che non era un divo, riuscì a ottenere esattamente come un divo, l’af ­fettuosa simpatia dei pubblici di tutto il mondo. Anche, s’inten ­de, perché era un ottimo attore, uno dei migliori, anzi, che ci ab ­bia proposto il cinema di Holly ­wood, ma soprattutto, per quei sentimenti cordiali e umanissi ­mi che suscitava nelle platee con la sua agreste semplicità e l’in ­nata bontà dei suoi personaggi. Anche senza essere un divo, co ­sì, divenne un « tipo », e un ti ­po che, senza difficoltà, riusciva a conquistare gli animi degli spet ­tatori.

La tecnica del consenso popo ­lare, al cinema, soprattutto, fra il                   ’40 e il ‘6O, è sempre stata molto semplice: piacciono gli eroi, piacciono gli avventurieri, ma tanto gli eroi quanto gli av ­venturieri bisogna che abbiano un briciolo di bontà, un sospetto di umanità; altrimenti il pubblico non li accetta, o li considera alla stregua di Charles Laughton.

Tracy, di bontà e di umanità ne aveva da vendere, anche quan ­do, in rare occasioni, affrontava personaggi non del tutto spec ­chiati. E il pubblico non esitò a mettersi con lui, fin dagli inizi. Adorava Clark Gable, ma ebbe affettuosissimi consensi anche per lui quando, in abito talare, lo vide contrastare fraternamen ­te ma fermamente con Clark Ga ­ble, in San Francisco. E si lasciò totalmente avvincere dalla sua calda comprensione, quando lo vide così paterno e sereno in Capitani coraggiosi, il film che giustamente gli ottenne, nel ’36, il primo Oscar. E applaudì, subi ­to l’anno dopo, al secondo Oscar che gli venne dato per la sua in ­terpretazione del personaggio ve ­ro di Padre Flanagan nella Città dei ragazzi.

Nella storia di Hollywood, nel ­la storia degli Oscar, c’è stato un solo caso di un attore pre ­miato con l’Oscar due anni di seguito, e fu proprio il caso di Tracy, per merito anche del ca ­lore che aveva suscitato presso il pubblico, della irresistibile sim ­patia che i suoi personaggi me ­ritavano presso tutti. « In Capi ­tani coraggiosi Tracy è stato ad ­dirittura eccezionale. Ma eccezio ­nalissimo è anche nella Città dei ragazzi. E’ vero che l’altr’anno ha avuto l’Oscar, ma non si può assolutamente non darglielo an ­che quest’anno. Sarebbe una gra ­vissima ingiustizia ». Così diceva ­no i suoi colleghi nel ’37, quando furono chiamati a votare per i massimi premi cinematografici del mondo.

Da quei giorni sono passati trent’anni e Tracy non si può dire che abbia mai conosciuto un insuccesso. Sono cambiate le mode, sono cambiati i gusti del pubblico, persino il cinema è cam ­biato, e non solo in Europa, ma anche a Hollywood, ma lui, re ­stando forse sempre lo stesso, è nello stesso tempo rimasto sem ­pre sulla breccia, sempre vinci ­tore, sempre eccellènte interpre ­te, sempre applauditissimo. I per ­sonaggi mutavano, ma non mu ­tava mai il carattere cui egli li uniformava, un carattere solido e positivo di uomo forte, che, pur senza alcuna retorica, non si lascia mai sopraffare dagli av ­venimenti contrari, il carattere di un uomo onesto che crede nei propri princìpi e che ai pro ­pri princìpi non ha paura di sa ­crificare tutto: così negli Arditi dell’aria, così nel Romanzo di una vita, così in Joe il pilota, così nella Settima croce, così nell’Uomo creò Satana, per non par ­lare ancora di quel Vincitori e vinti in cui, pur trattandosi di un film corale, riusciva a impor ­si con una decisa e vivacissima personalità.

Era però anche un attore dalle molte corde al suo arco. Quando gli proposero la riduzione cine ­matografica dì Pian della Tortil ­la, di Steinbeck (Gente allegra), seppe trovare toni picareschi di festosissima baldanza, quando gli proposero la riduzione del Vec ­chio e il mare, di Hemingway, seppe comporsi in una singolaris ­sima caratterizzazione dalle va ­stissime dimensioni tragiche, e quando gli affidarono addirittura delle commedie in serie (La don ­na del giorno, Il padre della spo ­sa, Papà diventa nonno), trovò in sé delle risorse comiche e umoristiche preziosissime, anche in questo rivelandosi equilibrato e misurato, avaro di toni ecces ­sivi, ostile a ogni troppo colo ­rato effetto. Attore, insomma, at ­tore grande, anche in piccole co ­se. Ma, soprattutto, uomo aperto a ogni suggerimento della sua ar ­te e della sua professione. Con una polivalenza che oggi si è ve ­nuta ormai facendo molto rara nel cinema; e non solo in quel ­lo americano.


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