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CINEMA: I MAESTRI: Un museo per Katharine Hepburn

20 Ottobre 2016

di Arturo Lanocita
[dal “Corriere della Sera”, domenica 20 luglio 1969]

Dicono che serva freddo il piatto delle sue vendette, a lun ­ga distanza dalle offese, quando cioè nessuno se le aspetta. ( Par ­liamo di Katharine Hepburn). Sembra che abbia la dimenti ­canza facile, e invece se qual ­cuno l’ha pestata farebbe me ­glio a tagliare il piede respon ­sabile, Katharine s’è subito in ­formata, senza intenzioni di be ­nevolenza, sulla misura e sul ­l’impronta. Si addossi ciascuno la sua parte di colpa e aspetti la sua parte di espiazione: chi diamine ha avuto l’idea di or ­ganizzare nel Museo d’arte mo ­derna, a Nuova York, una mo ­stra dedicata alla sua carriera artistica? Una panoramica su quarant’anni di recitazione â— naturalmente non è cosi che l’hanno intitolata, ma il senso è questo â— allestita in un mu ­seo e affidata a una serie di fotografie, non vuol dire pano ­ramica né recitazione; vuol di ­re quarant’anni di lavoro e ol ­tre sessant’anni di età, pubbli ­camente proclamati; poche at ­trici, delle molte più indulgenti di lei, accetterebbero di perdo ­nare.

A quanto pare, ha precisato un nostro collega da Nuova York, informando su questo l’altro giorno, la Hepburn non sapeva nulla della mostra che si allestiva in suo onore. Giu ­reremmo che non soltanto pa ­re, ma è certo. Se lo avesse saputo in tempo, non tutte le pietre del Museo d’arte moder ­na sarebbero rimaste connesse quanto occorre perché i muri stiano in piedi. Un crollo comunque ci sarebbe stato. Ovviamente, non è offensivo far sapere quanto sia brava Katha ­rine Hepburn, offensivo è far sapere che lo è da molti anni.

Quando esordì nel cinema, al tempo dei tempi, spaventò tut ­ti. Il suo primo regista con ­statò, con sgomento, che non aveva nulla da insegnarle, mo ­struosamente sapeva già tutto; esatto l’atteggiamento, perfetta la dizione, precisa l’aderenza al personaggio. Risultava impossi ­bile consigliarle qualcosa che già non avesse intuito. Comin ­ciava dallo stadio della matu ­rità e non nascondeva affatto di esserne consapevole. Si per ­metteva, persino, la civetteria di suggerire omettendo di ap ­parire saccente; George Cukor, regista di attrici laureate e fa ­mose, abituato alle supine ac ­quiescenze altrui, si rassegnò a tollerare le sue impennate, ridendo verde mentre la defini ­va « un tiranno artistico », e l’attributo serviva solo a miti ­gare la verità aspra del sostan ­tivo. L’intransigenza del suo di ­spotismo, al servizio d’una spie ­tata ambizione, è confermata dal fatto che ancor oggi Ka ­tharine Hepburn ami il suo mestiere; si trovi un’altra at ­trice che, senza imporlo con violenza a se stessa, sia capace di amare il cinema, dopo qua ­rant’anni di teatro di posa.

La singolarità del suo aspet ­to e specialmente del suo viso scarno e ambiguo, in cui a tratti la bellezza si accendeva come prodotto di un arcicalcolato atto di volontà e non come dono naturale, contribuì a far di lei l’edificatrice di se stessa; non poté darsi il sex-appeal per carenza di materia prima, ma poté ardere e trasumanare quanto occorreva perché la sua ricerca stilistica sembrasse spon ­taneità e immediatezza. Tutto questo non impressiona più: og ­gi sappiamo quanto talento ab ­bia, ma quando interpretò il primo film, Febbre di vivere, era la sola a saperlo. Osò inso ­lentire, dopo quella pellicola, un famoso attore di allora, l’um ­bratile John Barrymore: « Gra ­zie al Cielo, non dovrò più recitare con voi », costringen ­do lui a replicare, per ripicca: « Cara, non mi sembra che l’abbiate mai fatto ».

Brutta più di lei e brava al ­trettanto, Bette Davis ha sba ­gliato qualche film, Katharine no. Alla terza interpretazione ebbe l’Oscar numero uno, ma tutte potevano averlo, meno Greta Garbo; ne volle altri due, ebbe anche quelli. « Il miglio ­re attore di Hollywood », scrisse qualcuno, perché risultasse esplicito quel tanto di masco ­lino, aspetto e carattere, che, in lei, saltava agli occhi; ed era qualcuno di memoria corta, giacché dimenticava che una prova sottile di femminilità, in Primo amore, l’aveva data. La sua espressione struggente di ragazza afflitta e delusa, in quel film, sulla veranda d’una casa operaia, in una sera di canico ­la, quando s’accorge che la gros ­solanità dei suoi familiari sta per allontanare da lei il fidan ­zato, ospite a pranzo dei suoi per la prima volta: l’intensità della patetica ambascia, le la ­grime e le parole rattenute. Certo, non era fatta per le parti lattemiele, quel film era un’eccezione. Ma la versa ­tilità, che è la sua regola, ri ­sulta un mosaico di eccezioni.

Senza essere accanitamente volitivi non si riesce a tutto, come avviene a questa attrice, che si tuffa in ogni impegno con puntiglio agonistico, Ka ­tharine Hepburn contro i suoi limiti fisici, le ambizioni di Ka ­tharine Hepburn contro le am ­bizioni degli altri. E sempre con la grinta di chi non tollera di essere preceduto a un traguardo purchessia. Vorrebbe interpre ­tare i film da sola; consente che le stia a fianco un uomo, farne a meno è difficile, ma non sopporta altre donne.

Quanto più appare smaniosa di soverchiare il prossimo e quanto più si giustifica la sua alta opinione di sé, in un mon ­do di gonfiate mediocrità come è questo del cinema, tanto più commuove il calore d’affetto che, finalmente posponendosi ad altri, riversò su Spencer Tracy, negli ultimi anni, di solitu ­dine e d’infermità, che prece ­dettero cupamente la scompar ­sa del grande attore. Un’aridi ­tà da pietra pomice, per lunghi anni ostentata, fu riscattata, inattesamente, da questa sua dedizione. Rivelò d’improvviso una capacità di sentimento che sembrava essere stata riserbata in esclusiva alla finzione dello spettacolo. Se ne avvantaggiò Spencer Tracy, ovviamente; ma, supponiamo, anche lei. Prima o poi, doveva accaderle di cono ­scere la gioia di voler bene a qualcuno che non sia Katha ­rine Hepburn.


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Bart