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CINEMA: I MAESTRI: La figlia prediletta del cinema muto: Francesca Bertini

24 Luglio 2008

di Arturo Lanocita
[dal “Corriere della Sera”,   sabato 25 aprile 1970]  

Di quelli che ebbero una fet ­ta della grande torta del primo cinema italiano ricco e spre ­cone, esploso negli anni fra il Dieci e il Venti, i pochi super ­stiti ritengono di far parte di una specie di nobiltà decaduta, che indossò un tempo vesti d’oro e abitò castelli con parco. Fu giusto, non fu giusto, go ­dettero d’una fortuna facile, talvolta presto acquistata e più presto dispersa, e non è solo al denaro che si pensa, ma più ancora a quel tipo di popola ­rità idolatra e turbolenta che da allora avvolse e consumò alcuni esemplari di umanità poco umana, detta dei divi, con neologismo dell’epoca.
Chi oggi li registri e li cata ­loghi, sono gli orfani del ci ­nema muto; a parte Francesca Bertini che, per speciale privi ­legio, se mai è orfana di se stessa. Non ha fatto molto, ne ­gli ultimi decenni, per impor ­si all’attenzione. Quando volle divorziare dal marito, quaran ­t’anni fa, perpetrò un divorzio bisbigliato; o una separazione, o quel che fu; comunque, una rottura di matrimonio sottratta al chiasso. E non per amore di riserbo o per nausea di pub ­blicità o per difesa di privacy, non sarebbe attrice se non si struggesse all’idea d’essere di ­menticata. Vorrebbe che di lei, tuttavia, si dicessero poche co ­se, a condizione che fossero ripetute spesso. Quali poche cose siano sa bene chi ha letto il libro delle sue memorie, che non per nulla s’intitola II re ­sto non conta (prefazione di Palazzeschi, edizione Giardini, 357 pagine).
Conta, naturalmente, quella parte di lei che può dirsi uffi ­ciale, menzionata nei testi sto ­rici: la protagonista di centodieci film (sebbene il suo libro elenchi solo i settanta giudicati più importanti), in un’epo ­ca in cui per il cinema scarseggiavano gli attori di qualità. Smancerosa e sospirosa la sua parte, in quel gioco pantomi ­mico che era la recitazione mu ­ta, ma assai più prossima alla semplicità del vero di quanto non fossero, allora, altre cele ­brità del cinema, la Bertini sep ­pe darsi, almeno per alcuni film, e specie per Assunta Spi ­na, giusta misura di espressione e di gesto, precedendo gli at ­tori spontanei e credibili della scuola moderna. E tutto questo malgrado gli insegnamenti ri ­cevuti, quando gli orecchianti che guidavano gli attori, negli studi, erano sì e no capicoristi da melodramma ed esigevano smorfie e contorcimenti e tre ­miti e convulsioni che fossero sintomi d’una certa epilessia attribuita alle donne fatali, giacché fatalità e mal caduco si ritenevano infermità della stessa famiglia. Più assetata, forse di affetto che di ammirazione, ha trovato sempre consolante la convin ­zione che la gente le volesse bene; lo si immagina dall’en ­fasi con cui, sia riferendosi al pubblico come ai corteggiatori, spreca il verbo adorare. Tutti la adoravano, dice, dal par ­rucchiere al blasonato; però, salvo che per suo marito, il verbo risulta usato al passivo e mai all’attivo; era adorata da scienziati e poeti e magnati e principi, ma, turbata o no, lei non adorava gli altri. C’è da credere, anche se esagera, che rispondesse di no a tutti; il suo carattere era dispotico, del resto, e spesso s’imponeva soverchiando; e ciò mortificava, fra l’altro, non solo gii inna ­morati giudiziosamente respin ­ti, ma anche quelli che vole ­vano esserle d’aiuto nel suo la ­voro, respinti meno giudizio ­samente.
Non solo la Bertini, sia chia ­ro. Le attrici famose del suo tempo erano tanto più prepotenti quanto più pagate, pareva che fra le due cose un rapporto ci fosse. Di tutte, però, nessuna usufruì, né in Italia né fuori, di quel favoloso contratto che Francesca Bertini ebbe nel 1920, e di cui ancora si sbalordisce: due milioni, in un anno, per otto film. Un film, allora, si faceva in quindici giorni o poco più. Si dia a quei due milioni del 1920 il valore che avrebbero oggi, naturalmente in miliardi, e ci si spiega come non risul ­tasse possibile firmare un con ­tratto simile senza sentirsi au ­mentati di statura.
Il volume dei ricordi traboc ­ca di reticenze; ossia le cose più importanti, come i buchi nel formaggio svizzero, sembra ­no quelle omesse, i vuoti. Oc ­corre leggere 216 pagine prima di apprendere, incidentalmente, come si chiami (Elena Vitiello; altre biografie, però, dicono Seracini Vitiello); la data di nascita   è     elastica;    il   film   di esordio, La dea del mare, gi ­rato a Napoli, risulta di poco posteriore ai suoi primi vagiti; tutto il calendario appare ter ­remotato. Ma con l’ufficio anagrafe un’attrice ha diritto di giocare anche negli anni tardi. Il resto non conta è l’autobiografia di un’attrice muta, non stupisce l’assenza delle notizie che pur conterebbero. Esempio: perché ebbe successo strepitoso, e fu largamente esportato, ses ­sant’anni fa, quel tipo di film italiano che, obiettivamente, pur considerati i primitivi mezzi tecnici disponibili, era provin ­ciale, goffo e rozzo nella con ­cezione e nella fattura? E per ­ché, dieci anni dopo, quando andava affinandosi, non ebbe più successo e il cinema andò in sfacelo?
A queste domande petulanti, da molto tempo esperti e stu ­diosi danno risposte impietose. Alimentati dalle pellicole popo ­late di maliarde con gli occhi sbarrati e aggrappate con le mani adunche ai tendaggi, i nostri genitori, comunque, non erano più ingenui di noi, se si pensa ai dischi di certe can ­zoni, smerciati oggi a milioni di copie; a ogni generazione la sua area di idiozia. Se i film, allora, piacevano perché c’era la Bertini, comprensibile: era davvero bellissima, bravura a parte, e bellissima è rimasta sino alla maturità. Quando la incontrammo la prima volta, una ventina d’anni fa, in Spa ­gna, la sua era ancora un’av ­venenza fiera, severa, da levi ­gato busto canoviano; e lo sa ­peva fin troppo. Di tante per ­sone da cui fu adorata, come ripete il suo libro, nessuna amò così fedelmente Francesca Ber ­tini come la amò Francesca Bertini.
Un po’ al modo dell’entomo ­logo, che fissa con gli spilli la farfalla, perché non perda la bellezza della sua primavera, così l’attrice ha arrestato sullo specchio il volto dei suoi memorandi vent’anni, quando i Pathé e i Barattolo e i Negroni e i Fox della cinematografia, tutti i capintesta, s’incantavano a guardarla, pronti a cedere alla sua tirannia. E le consen ­tivano di far da despota nei film che lei stessa, a suo ca ­priccio, aveva ideato scritto diretto interpretato tagliato montato, giacché lasciava agli altri la sola libertà di dirle sì. Tanto questa immagine le restò pre ­sente, divenuta anziana signo ­ra, che la considerava ancora realtà, e non trasfigurazione del ricordo. Non celebrò mai i funerali dei suoi sogni. Anche nella tarda età, pensiamo, certe volte le è avvenuto di stupire perché sulla strada, all’ingresso delle case dove era attesa, non avessero steso tappeti di vel ­luto rosso. Come allora.

 

 

 


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2 Comments

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