Libri, leggende, informazioni sulla città di LuccaBenvenutoWelcome
 
Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I MAESTRI: “La Nazione”, 18 maggio 1997: Giuseppe De Santis, una mondina per l’eternità

14 Febbraio 2008

 di Giovanni Bogani
[da “La Nazione”, domenica 18 maggio 1997]

È morto Giuseppe De Santis, sparisce, a 80 anni, un altro pez ­zo di cinema bello, sparisce l’uomo che aveva inventato quell’icona dell’immaginario, quella pittura profana del nostro secolo che è l’immagine di Silva ­na Mangano, in piedi, impettita, fiera, con le calze nere che lascia ­no scoperti quei centimetri di pel ­le bianca, fabbrica del batticuo ­re. È morto lui che aveva inven ­tato «Riso amaro », e che in fon ­do aveva inventato anche la Man ­gano, incontrata per caso in un giorno di pioggia, come confida ­va, appena un anno fa, a una ce ­na. «Al provino l’avevo scartata, senza neanche farci caso. Poi un pomeriggio di pioggia vado a sbattere contro una ragazza infra ­diciata, senza trucco, con un impermeabilaccio di quelli compra ­ti ai mercatini, che mi dice: ‘Buongiorno dottor De Santis, sono Silvana Mangano, ricor ­da”?’. E io, di colpo, vidi una Rita Hayworth italiana, vidi la donna che avrebbe fatto il mio film ». Forse è vero che conta il caso, più di tutto, nella vita. Perché è anche per caso che nacque quell’immagine, la Mangano po ­vera ma bella, dea proletaria e nobile, in mezzo alle risaie, fremente di giovinezza, rabbia, ero ­tismo. «Avevamo finito le ripre ­se, quel giorno », ricordava, «e la Mangano se ne stava ancora lì in mezzo all’acqua, come in attesa, a fissare un punto dell’orizzonte. Io l’ho vista con la coda dell’oc ­chio, ho sobbalzato, ho gridato all’operatore di far ripartire la macchina da presa, e di ripren ­derla subito ». E così nacque quell’immagine, riassunto visi ­vo di un film, di una stagione, di un’era di emozioni popolari. «Riso amaro », il Neorealismo. Ma un neorealismo diverso da quello di Rossellini, De Sica, del primo Visconti, di «Roma città aperta » e di «Ladri di biciclet ­te ». Quello di De Santis era un cinema di personaggi popolari, ma fatto davvero per la gente, per gli spettatori qualunque. E allora, anche un cinema a forti tinte, con i buoni e i cattivi, i grandi colpi di scena, i grandi baci, co ­me la letteratura popolare, come i fotoromanzi, Che male c’è? «Riso amaro » è una storia di col ­pa, di espiazione, di perdono. Ed è anche una storia sulle mondine sfruttate, cioè una storia politica, ma anche una storia di amore di ­sperato, di voglia di evasione, di farsi stregare da un bello mascalzone da parte della protagonista. Ed è un film-archetipo: Silvana Mangano balla il boogie woogie così come hanno fatto davvero, dappertutto, tutti in Italia in que ­gli anni, scatenandosi, turbando ­si, i corpi che si scontrano. E nel ­la camerata, Silvana Mangano ancheggia in sottoveste nera, con gesti provocanti e infantili che diverranno la sigla di tutte le ragazzine aggressive del cinema del dopoguerra.
Negli ultimi anni, però, il cine ­ma si era dimenticato di lui. Persino il «suo » giornale, quello del ­la sua fede politica mai rinnega ­ta, quando aveva cominciato a vendere videocassette, aveva riscoperto la commedia all’italia ­na, ma «Riso amaro » no, non lo aveva messo. De Santis, che in cassetta non lo aveva, lo vedeva ogni tanto, infilato nella notte televisiva, a orari impossibili. Ma il cinema lo amava, lo amava an ­cora. Non solo attraverso lo spec ­chio della figlia, Luisa, attrice nei film di Nanni Moretti.
Per De Santis, il cinema era un impegno civile, una militanza po ­litica. Parole difficili da spiegare, oggi. E che invece, per De Santis, hanno avuto peso, e sono diventate cinema. Neorealista non per caso o per necessità, non perché Cinecittà distrutta obbli ­gava a girare per strada, o perché troppi attori erano stati coinvolti col fascismo, e occorreva cerca ­re volti nuovi, sconosciuti, qua ­lunque. No. De Santis era neorea ­lista per convinzione. Perché vo ­leva che il cinema fosse davvero nuovo, e rivoluzionario. E raccontasse di operai, artigiani, impiegati, braccianti agricoli.
Ma De Santis era anche regista erotico, un regista di donne, di volti di donna. Lucia Bosé in «Non c’è pace fra gli ulivi », o Silvana Pampanini in «Un marito per Anna Zaccheo », o la «Lilì Marlène » di «Caccia tragica », che si chiamava Vivi Gioi. E la Mangano. I volti di donna che inquadra sono bellissimi. Perché sapeva unire neorealismo ed erotismo, impegno e sensualità. E in fondo, l’immagine nei suoi film, non solo di una donna, ma anche di un paesaggio, un albero, una strada, è sempre «bella », intensa, significativa, mai casuale. Maestro di un cinema popolare, De Santis era però un creatore di immagini raffinato, un grande pittore di cinema. Smagliante nel bianco e nero, nelle inquadrature delle risaie dall’alto, nell’uso feroce delle ombre, nei movimenti regali della macchina da presa. Un grande pittore in cinema. E questo, forse, non lo si è mai capito.

[Qui di seguito trascrivo la stroncatura del suo film “Uomini e lupi” (del 1956, interpretato da Yves Montand e Silvana Mangano), che fu fatta da Filippo Sacchi e che si trova nel libro “al cinema col lapis”, Mondadori, 1958, dissentendo con essa. bdm]

UOMINI E LUPI

Ci sono alle volte certi dettagli, insignificanti in apparenza, che dicono di più sullo spirito con cui è fatta una cosa, che non una pagina di critici ragionamenti. In Uomini e lupi c’è un personag ­gio, uno dei protagonisti, Rinuccio, un tipo di vagabondo bullo, senz’arte né parte, che un giorno, chissà come, capita in una bor ­gata dell’alto Abruzzo, e dando a intendere che è un esperto luparo, cioè di coloro che fanno per professione in quei paesi di cacciar lupi, si fa assumere dal più ricco proprietario del luogo con l’impegno che terrà lontano dalle sue mandrie la minaccia di quel ­le fameliche fiere.
Senonché Rinuccio è un poltronaccio che invece di lupi preferi ­sce dare la caccia alle donne, a cominciare dalla figlia del proprie ­tario, che sarebbe il più dotato partito del luogo, e contemporanea ­mente cerca di insinuarsi nelle simpatie della bella moglie di un litro lupare, un vero lupare molto diverso da lui, per cui ne nascerà un seguito di rusticane contese. Ma questo è un lungo racconto. Basta dunque che Rinuccio è uno squattrinato, un vagabondo. Adesso per giunta fa il luparo, in un paese sperduto nella più aspra montagna d’Abruzzo, dove anche controvoglia è costretto a zompare al vento e alla neve per quei massacranti sentieri, fatti più inaccessibili dai rigori di un crudelissimo inverno. Ebbene, state attenti, dalla prima all’ultima scena egli calza un paio di stivali a caccia di gomma elegantissimi, con risvolti di tinta più scura, ogni volta che per combinazione alza il piede vi mostra imperturbabilmente una suola nuova fiammante.
Questi stivali sono un simbolo, non per la svista materiale, che in sé non avrebbe importanza, ma perché è rappresentativa dell’equivoco fondamentale da cui parte il film. Ci sono nel film due piani   separati,     che   si   ignorano   completamente.     Da   una   parte l’Abruzzo, un Abruzzo vero, un Abruzzo rude coi suoi panorami solenni, coi suoi villaggi neri e rupestri spopolati dal terremoto e dalla miseria, coi suoi pastori taciturni e pazienti, con le sue gregge, coi suoi lupi, lupi veri anch’essi che vediamo coi nostri occhi azzannare muli e vaccine. E a questo pezzo di bravura dell’assalto del villaggio è affidato appunto l’effetto spettacolare del film; an ­che se poi il clou finale, il corpo a corpo tra Yves Montand e il lupo nella legnaia, è schivato elegantemente.
Dall’altra parte ci sono quei signori della produzione. Quei si ­gnori della produzione sono gli organizzatori, i finanziatori, eleganti signori di Roma e di Parigi abilissimi nel manovrare frut ­tuose combinazioni internazionali, divi di cartello, Yves Montand, Silvana Mangano, quelli che non firmano mai se non ci sono molti zeri in fila. Ebbene tutti questi signori non hanno assolutamente niente da fare con l’Abruzzo. Silvana Mangano che per fare la lu ­para abruzzese si è data alle chiome un vaghissimo biondo tanné, passa attraverso montagne e vallate con un viso impeccabilmente levigato dalle creme, e con l’andatura studiata delle debuttanti che si preparano per la presentazione a Corte. Persino Yves Montand, quello che ho visto due anni fa al Sarah-Bernhardt attore così po ­tente nelle Streghe di Salem, di colpo si rimette a gareggiare, e sciorina nelle solitudini nevose del Gran Sasso la finta eleganza sportiva e il lirismo turistico dei locali di St.-Germain-des-Prés. Ecco precisamente quello che volevo dire:   nessuno di questi si ­gnori è riuscito a sporcarsi le scarpe. Nessuno di questi divi è riu ­scito a entrare, loro e il loro dramma, nel paesaggio e nella na ­tura. E guardate che stranezze succedono. C’è un solo personaggio che vive nel film, non per quello che gli fanno dire o fare, ma per l’accento e la credibilità fisica dell’attrice che lo porta, ed è quello di Bianca, la ragazza ansiosa d’amore e di libertà che padre e fra ­tello comprimono in un’esistenza servile perché non esca da casa con la dote. C’è ribellione e passione in questo denso volto, in que ­sta selvatica e graziosa persona; sì che alla fine sconcerta che Rinuccio non scelga lei invece di quella smorfiosa lupara. Insomma è l’unico personaggio che si sporca le scarpe. Poi sono andato a guardare il cast, e ho visto che l’attrice si chiama solamente Irene Cefaro. Signora, non sta bene fare di questi. scherzi.
Naturalmente, tutte queste considerazioni non hanno niente a fare col vero scopo che è di mettere in piedi un grosso affare   finanziario, cioè un film che per i nomi internazionali delle vedette, per il suo appello spettacolare, e per le garanzie che offre al botteghino, si piazzi in partenza con contratti in dollari per tutto il mondo. È un programma perfettamente giustificabile a patto che riesca, cosa che non si vedrà che alla fine, cioè quando nessuno se ne ricorderà più. È per questo che generalmente i produttori han ­no sempre ragione – molto più di Mussolini – e la fanno quasi sempre franca.   Le altre considerazioni,   verità,   invenzione,   creazione, poesia, sono tutte cose che non c’entrano, anzi vanno tenute accuratamente in disparte, perché sono armi a doppio taglio e pos ­sono compromettere il resto. Perciò questi film non sono del regi ­sta, ma del produttore. Il regista esegue e firma. In questo caso: F.to Giuseppe De Santis.


Letto 2297 volte.


Nessun commento

No comments yet.

RSS feed for comments on this post.

Sorry, the comment form is closed at this time.

A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart