|  CINEMA: I film visti da Franco Pecori4 Marzo 2008  [Franco Pecori  dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]  Non è un paese per vecchiTitolo originale: No country for old men      Joel e Ethan Coen, 2007 Tommy Lee Jones, Javier Bardem, Josh Brolin, Woody Harrelson, Kelly Macdonald, Garret Dillahunt, Tess Harper, Josh Blaylock, Rodger Boyce,  Beth Grant,  Josh Meyer,  Barry Corbin. Golden Globe 2008: Javier Bardem atnpr. Oscar 2008: film, Joel e Ethan Coen re, Javier Bardem atnpr.Avventura in laboratorio. Laboratorio di analisi del linguaggio. Un uomo «strano con solidi princìpi » si aggira per il Texas. Ammazza le persone chiedendo di scegliere testa o croce da una moneta o puntando sulla loro fronte un tubo ad aria compressa, di quelli in uso nei mattatoi,  capace di bucare con precisione le serrature delle porte, ma i suoi ragionamenti non fanno una piega e contraddirlo è quasi impossibile. Uno psicopatico, si direbbe. Ma il suo scopo è molto concreto e “normale”, deve arrivare ad una valigetta piena di dollari caduta casualmente nelle mani sbagliate. La faccia è quella di Bardem (Prima che sia notte, Mare dentro), il tipo è Anton, uno dei tanti possibili. Uno dei tanti? Risulta dal laboratorio dei Coen. I due fratelli, capaci di mettere insieme il ghiaccio più freddo e l’ironia più umana (Blood Simple, Barton Fink, Fargo, Ladykillers) espongono il risultato di una ricerca molto attuale: passo indietro fino agli anni ‘80, verifica dell’humus d’epoca, raffronto implicito con l’aria che tira oggi, riproduzione della normalità di comportamento, cambio tecnico del linguaggio. Lo spettacolo che ne vien fuori è semplicemente paralizzante. Ci si guarda intorno per vedere se per caso qualcosa di simile a ciò che accade sullo schermo si stia verificando accanto a noi. E per qualche minuto non ci si muove, attoniti. Anton non è solo. Tutto è cominciato con un texano reduce del Vietnam, Llewelyn Moss  (Brolin), che durante una battuta solitaria di caccia al confine col Messico si trova davanti ai resti di una sparatoria  tra trafficanti di droga. Oltre ai cadaveri  vede la valigetta e decide che  2 milioni di dollari  possono fargli comodo. Passa poi di là lo sceriffo Bell (Jones). Subito pensiamo alla Valle di Elah perché la piega di dolore per come va il mondo è la stessa, è la Vecchia America onesta che non riesce a capacitarsi di quanto sia finita in basso la nuova generazione. Bell fiuta la preda, anche con lo scopo di “salvarla” da altri pericoli, per esempio  Anton. La caccia, infine si complica ancora con l’irruzione nella  scena di Carson Wells (Harrelson), ex agente speciale “convertito” al traffico di droga. Il quadro è molto nero, dark, il colore preferito dai Coen. Di nuovo c’è qui il riferimento letterario, l’omonimo romanzo No country for old men, perfettamente consonante con lo spirito dei due registi e frutto  di uno dei più  apprezzati scrittori della nuova ondata americana, Cormac McCarthy, detto lo Shakespeare dell’Ovest. Più moralista il libro (nostalgia di un paese che non c’è più), più analitico il film. I Coen raggiungono forse il punto di equilibrio tra fredda consapevolezza formale e sentimento dei tempi. Nettamente migliore la prima parte, quando la violenza sembra non dover più smettere di nascere. L’Innocenza del peccatoLa fille coupée en deux Claude Chabrol, 2007 Ludivine Sagnier, Benoît Magimel, François Berléand, Mathilda May, Caroline Silhol, Marie Bunel, Valeria Cavalli, Etienne Chicot, Thomas Chabrol, Jean-Marie Winling, Didier Benureau, Edouard Baer.Spietato. Uno Chabrol sempre impietoso verso la fascia medioalta della società , in Francia localizzabile specialmente in provincia. Il regista francese, classe 1930 e “carta di credito” Nouvelle Vague, mette in scena ancora una volta un’umanità senza orizzonti, che  coltiva con indifferenza irresponsabile  la corruzione, quasi recitando una parte imposta nello spettacolo della vita. Il filtro è  giallo, ma  riguarda più il carattere e le relazioni  dei personaggi nelle loro scelte esistenziali  di quanto determini lo svolgersi della vicenda. Una suspense morale tiene in bilico lo spettatore nel difficile giudizio verso la protagonista, ragazza  divisa in due, come dice il titolo originale molto meglio della traduzione italiana, tra il fascino di un amore perverso e l’aspirazione a un matrimonio ricco e felice. La giovane donna è Gabrielle (Sagnier), i due uomini sono Charles (Berléand) e Paul (Magimel), uno scrittore affermato e dall’aspetto paterno il primo, ricco e capriccioso il secondo, poco più che un ragazzo. Gabrielle si accosta a Charles quando lo vede in libreria firmare autografi. Lui la sa molto lunga in fatto di donne e la “ragazzina” stuzzica la sua vanità . La introduce nel club che frequenta,  dove il sesso è pratica magistrale. Chabrol non ci mostra dettagli e anzi per un momento siamo portati a credere che tra la giovane e il maturo stia nascendo l’amore. Sullo scivolo di questa bugia s’innesta l’equivoco dell'”innocenza” di Gabrielle e quando la vediamo rifiutare la corte di  Paul, insistente ed esibizionista al limite dell’arroganza, quasi siamo portati a difendere la ragazza da quegli assalti sconsiderati. Ma Chabrol non si distrae, si avvicina ai personaggi con scrupolosa attenzione, li osserva  nei minimi comportamenti, rivelatori di ambiguità , riflessi di un ambiente  dove la distinzione tra Bene e Male ha poco senso. E se stiamo attenti, veniamo colpiti dai tagli netti del montaggio, che spesso “mutilano” addirittura le inquadrature con esibita antipatia. Mentre cresce il dubbio del giallo sulla sorte di Gabrielle, la vicinanza dell’obbiettivo turba anche la nostra presunzione di innocenza, indica la complessità della soluzione e insieme semplifica le variabili del racconto. Arriviamo alla fine che ci sembra di trovare sollievo proprio dall’atto crudele e freddo, che non riveliamo e che  “risolve” il dilemma amoroso della donna divisa in due. Ma Chabrol non ci lascia in pace. Con un giochino da circo, una botta di fantasia, mette in scena la rappresentazione “diretta” della magia, con Gabrielle in ambiente surreale che viene sottoposta al trucco della sega circolare sul suo corpo. Non è “reale”, ovvio. Come non è forse vero fino in fondo che la ragazza fosse al bivio della propria esistenza. Aveva cominciato una carriera di presentatrice televisiva con il servizio Meteo ed era passata subito, per attrazione fatale, a condurre interviste nel falso salotto elettronico. I “ricchi e potenti” che aveva poi conosciuto non erano tanto più veri. Una citazione specifica la merita Edoardo Serra, il direttore della fotografia che Chabrol considera suo “complice” insostituibile. La Guerra di Charlie WilsonCharlie Wilson’s War Mike Nichols, 2007 Tom Hanks, Philip Seymour Hoffman, Julia Roberts, Amy Adams, Ned Beatty, Om Puri, Shiri Appleby,  Emily   Blunt.Politico. Sì, si può  trattare la  politica anche senza annoiare. L’esempio viene da Mike Nichols (Il laureato, Comma 22, Una donna in carriera, Cartoline dall’inferno, Wolf,  I colori della vittoria, Closer),  un maestro che non ha mai  perso occasione di  raccontare storie con realismo, collocando i personaggi in un quadro schiettamente verosimile, senza falsi pudori, nemmeno ideologici. Questa è la volta di sollevare il sipario (e Nichols ne sa molto anche di teatro) sugli anni ‘80 e sulla fase della guerra fredda rimasta finora  più misteriosa – e tuttavia d’importanza decisiva per capire l’11 Settembre, l’Iraq, l’Afghanistan, il Pakistan, Israele, l’Egitto, l’Arabia Saudita, come dire le sorti del mondo. Nella forma dell’espressione, una commedia; nella sostanza un réportage inquietante tratto dall’omonimo bestseller del giornalista  George Crile, il cui sottotitolo recita: The Extraordinary Story of the Largest Covert Operation in History. Tre star del calibro di Tom Hanks, Philip Seymour Hoffman e Julia Roberts contribuiscono a garantire il livello. Nella parte di Wilson, il deputato texano che riuscì a  far crescere  fino a molte  centinaia di  milioni di dollari l’investimento amaricano per fronteggiare e invertire a favore degli Usa il predominio sovietico in Afghanistan, Hanks risulta perfetto. Il personaggio non era facile, Wilson è un uomo apparentemente egoista e un po’ cialtrone, interessato più alle donne che alle sorti del Paese. L’attore non smette mai di vestirne i panni, riuscendo al tempo stesso a far emergere poco alla volta qualcosa di più profondo, uno sguardo che sa andare al di là dei favori verso le clientele locali.  Merito anche della “trappola” in cui lo attira Joanne Herring  (una Roberts quantomai fascinosa), ricca e influente, scontenta dello scarso impegno americano. Ed essenziale sarà  l’incontro con l’agente  della Cia  di origine greca, Gust Avrakotos (Hoffman, in grandissimo spolvero), rude pratico e furbo a sufficienza per affrontare il lucido intrigo che si andrà sviluppando nella mente di Wilson. Il triangolo sprizza intelligenza e simpatia fino a convincere lo spettatore più  guardingo della giustezza dell’idea: dare ai Mujahideen i mezzi per sconfiggere gli aggressori e farlo in segreto, come esige la guerra fredda, il che significa nientemeno  far arrivare  ai fondamentalisti musulmani  armi di fabbricazione sovietica passando dai trafficanti israeliani. Insomma un capolavoro, che coinvolge tutta l’area mediorientale. E infatti, l’idea viene a Wilson quando Joanne lo spedisce in Pakistan, a vedere in quali condizioni vivono i profughi afghani. Tutto bene? Da una sceneggiatura tirata in modo magistrale, con i dialoghi serrati e brillanti, persino comici a tratti, e con le scene tagliate secondo un ritmo infernale, dobbiamo aspettarci anche un risvolto che ci porti fino ad oggi. La dedica in coda al film cita Winston Churchill, il primo ministro inglese, il quale ebbe a dire: «Abbiamo cambiato il mondo e poi abbiamo mandato a farsi fottere il finale ». E, a proposito di finale, alquando curiosa la storiella che Gust ricorda a Wilson, del sintetico commento del maestro di filosofia Zen ai successivi sviluppi della vita del bambino  che aveva avuto in  dono un cavallo: «Vedremo », ripeteva ogni volta  il maestro. Parlami d’amoreParlami d’amore Silvio Muccino, 2008 Silvio Muccino, Aitana Sánchez-Gijón, Carolina Crescentini, Andrea Renzi, Flavio Parenti, Max Mazzotta, Giorgio Colangeli, Geraldine Chaplin.Un  super cioccolatino non incartato. Un Moccia per adulti. Senza frasi celebri ma con più d’una citazione cinefila scacciaoperaprima, il primo film da regista di Silvio Muccino è talmente facile da raccontare che non ci proviamo nemmeno, basterà girare lo sguardo attorno, sono “storie vere”. Soggetto (Carla Vangelista)  centrato e comodo, da godersi in poltrona. Sceneggiatura (Vangelista e Muccino) levigata e insieme puntigliosa, a non lasciarsi sfuggire nemmeno un’ombra di eccentricità . Argomenti tosti: recupero tossici, famiglia distrutta, infanzie rovinate, reinserimento difficile, dislivelli amorosi (donna più grande stavolta), giovani ricchi marci dentro, gioco d’azzardo che risucchia l’anima,   rimorsi, sensi di colpa, pedagogie, furie erotiche, primi piani insistiti, occhi di Muccino (un «ragazzo di venticinque anni che si affaccia timidamente nel mondo » – tenero), fotografia (Arnaldo Catinari) degna di grandi registi (fai conto Bertolucci), specie su dettagli delle facce e dei corpi sfiorati dalla luce che li imbellisce; e iconologie vagamente religiose (nel senso di psicologiche, complesse, complessive, forse complessate) fino alla somiglianza  magari non voluta del volto del protagonista con quello di un Jesus transatlantico (buono per il grande salto). Un patetismo che ti prende dall’inizio alla fine, non ti lascia un minuto di distensione: speri che prima o poi spunti una Fataturchina a fare felice ‘sto ragazzo che, poveretto, ne deve sopportare troppe. E invece incappa in una quarantenne  sposata (Sánchez-Gijón) che di suo non sta bene, ex analista, ex parigina e quasi ex moglie. Così, addìo sogni infantili: Sasha/Muccino (sì Sasha, non trovate che sia un nome fantastico?), tra una partita a poker (con le carte è un mago) e una sexy-frenesia con quella che una volta fu la bambina Benedetta  ed ora è una diavolessa confusa (Crescentini), deve arrivare per forza al dunque. Basta svolte romantiche, apprendistati della seduzione  e pugni in faccia. Dopo un’ultima punizione (questione di poker), che lo riduce uno straccio sanguinante, eccolo al cospetto di Nicole. Non più cucciolotto, volto sfigurato dalle botte,  «Parlami d’amore », le dice (ma forse non dovevamo rivelarlo). Il recupero è compiuto. La musica fa il resto. Un Andrea Guerra in forma sfavillante traduce in pathos multiculturale anche la più invisibile virgola del sentimento. Senza sfoggio, dice. Il PetroliereThere will be blood Paul Thomas Anderson, 2007 Daniel Day-Lewis, Paul Dano, Ciarán Hinds, Kevin O’Connor, Dillon Freasier, Colleen Foy, Barry Del Sherman, Russell Harvard, Paul F. Tompkins, Kevin Breznahan, Jim Meskimen, Russell Harvard, Coco Leigh, Paul F. Tompkins, Mary Elizabeth Barrett, David Willis, Rhonda Reeves, Hans R. Howes. Golden Globe Award 2008: Daniel Day-Lewis at. Berlino 2008:  Anderson Orso d’Argento Paul Thomas re, Johnny Greenwood mu. Oscar 2008: Daniel Day-Lewis at, Robert Elswit foto.Antico. Uno di quei bei filmoni anni ‘50,  che con calma ed efficacia sicura ti fanno arrivare nella mente e nel cuore una chiara lezione di vita –  sentimenti forti, umanissimi, ambizioni ed espansioni gigantesche.  Dal romanzo Petrolio, di Upton Sinclair (1927),  la storia di come potesse nascere, tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del secolo successivo in California, un vero capitalista (tycoon, oggi, sembra più fine), magnate del petrolio. E di come il destino “culturale” del petroliere si potesse intrecciare con aspirazioni apparentemente più alte, cioè religiose (nel caso, cristiane fondamentaliste). E di come le due aspirazioni si potessero trovare a viaggiare sostanzialmente sullo stesso binario, interpretando, per “vocazione”, due parti alquanto somiglianti, se non proprio nella sostanza almeno nell’espressione – che in musica si direbbe sopra le righe. E difatti proprio alla musica (Jonny Greenwood dei Radiohead) è affidato sin dall’inizio  il compito di approfondire il senso diciamo pure  drammatico del protrarsi della ricerca. Ricerca di ricchezza e di potere, di dominio assoluto sulle cose (leggi valore in dollari)  e sulle persone (diciamo pure anime). Le prime sequenze hanno l’aria del documentario bello. Senza parole, un cercatore d’argento spiccona con gran fatica la roccia in fondo a una buca che sembra volerlo inghiottire. Si  rovina una gamba e poi con sforzo sovrumano riesce a trascinarsi fuori. Pesantezza del lavoro, solitudine, forza di volontà (grinta, oggi, sembra più attuale)  senza limiti: non ci viene in mente altro. Quell’uomo  è Daniel Day-Lewis nei panni di Daniel Plainview, un uomo un fiume di oro nero. Un’interpretazione tipica da Golden Globe e da  Oscar. Col personaggio non ci sarebbe da augurarsi di trovarsi a cena. Odia e invidia, si porta dietro un bambino/figlio finché gli fa comodo per rendere simpatica l’offerta ai contadini dei quali gli serve la terra da trivellare, scarta l’ipotesi di avere un fratello, finge di credere al predicatore evangelico  Eli Sunday  (Paul Dano), un furbo/sciocco che gli serve per “distrarre” la gente semplice, salvo poi costringerlo a confessare la propria falsità , quando sente che  il peso del male non è più sopportabile senza condividerne le tristi conseguenze. Ed è per giungere al finale superdrammatico che si è passati dal “documentario” al mito, in un crescendo che arriva a sfiorare gli stilemi di uno psico-horror. I maligni hanno pensato a Bush, ma qui siamo alle origini, in un’aspra fiaba ben più fascinosa. Away from Her-Lontano da leiAway from Her Sarah Polley, 2006 Julie  Christie, Gordon  Pinsent, Olympia  Dukakis, Murphy  Aubrey, Kristen  Thomson, Wendy  Crewson, Alberta  Watson, Deanna  Dezmari, Clare  Coulter, Thomas  Hauff, Grace Lynn Kung. Golden Globe Award 2008: Julie Christie atr dr.Per giovani. Gli anziani rischiano di vederlo come un… documentario, magari bello e commovente. Ci sia concessa la piccola provocazione, anche rispettosa della finissima ironia che attraversa il film insieme alla  speciale sensibilità  già dimostrata dalla canadese Sarah  Polley, da attrice, in  lavori come La mia vita senza me (2003)  o come La vita segreta delle parole (2005), entrambi della regista spagnola  Isabel  Coixet. Julie Christie interpreta (divinamente) la parte di una donna colpita dall’Alzeimer, è vero, ma il film (prima regia della Polley, dal racconto “The Beat Came Over The Mountain”, di Alice Munro)  è qualcosa di più e forse di diverso. Quando la protagonista osserva (voce fuori campo, interiore): «Una volta che un’idea è persa, è persa per sempre », siamo al di là della pur terribile malattia, siamo in una riflessione profonda sul rapporto tra ragione e sentimento, sulla durata e sulla consistenza dell’esistere. E il danno psicofisico della perdita di memoria entra in un parametro di valutazione allargato, ponendo, paradossalmente in concreto, la questione astratta, cioè filosofica, della qualità dell’individuo rispetto alla propria e all’altrui storia. Tutto questo, per una sorta di miracolo espressivo, si traduce nel film in una sublime sequenza di scene umanissime, mantenute ben lontane da facili traduzioni nel “senso comune”, pronte invece a sviluppare riflessioni congiunte verso ambiti meno specifici della vita. Della vita di coppia, nel caso di Fiona (Christie)  e Grant (Pinsent), ma della vita turbata di chiunque si trovi a doversi occupare di persone colpite dall’Alzeimer. E di più: dall’Alzeimer o da qualsiasi altro disturbo che ponga l’individuo oltre, di molto o di poco, la funzionalità  comportamentale riconosciuta dalle “regole”. Ecco perché i giovani. Un momento di particolare incisività del senso è dato dal fuggevole incontro, sul divano della sala-soggiorno della casa di riposo dove si è trasferita Fiona, di Grant, che si è recato a trovare  sua moglie,  con una ragazza anche lei in “visita parenti”. E’ uno scambio di battute rapido quanto aperto, che evidenzia non solo la sofferenza di quella situazione concreta bensì la possibile prospettiva, sociale sì ma – insistiamo – filosofica, che ne deriva. Prospettiva, cioè disegno di vita rispetto a interrogativi sulla discrezione insondabile del privato, sui limiti delle relazioni esistenziali. Problemi che – ripetiamo, in prospettiva –  non possono  non coinvolgere i giovani più degli anziani. In prospettiva, giacché, sottolinea poeticamente la voce fuori campo, in certe condizioni «il passato e il presente sono leggeri come piume ». Dentro questa problematica vive, nel film, la struggente metafora delle “nuove” relazioni tra Fiona e un altro  degente, Aubrey (Murphy)  e tra Grant e Marian (Dukakis), moglie di Aubrey. Vite accennate, rinvenute casualmente sotto l’occasione della mancanza; vite impossibili quanto possibili possono essere i vuoti di memoria, mentre il lungo (45 anni insieme) affetto della coppia (Fiona-Grant), perde e riacquista centralità seguendo le onde dei respiri, i sussulti dell’anima, il passare del tempo. John RamboJohn Rambo Sylvester Stallone, 2008 Sylvester Stallone, Julie Benz, Paul Schulze, Matthew Marsden, Graham McTavish, Ken Howard, Rey Gallegos, Tim Kang, Jake La Botz.Nel Myanmar (Birmania)  la fa da padrone il regime di Than Shwe. Lo si capisce bene, Stallone mostra immagini più che sufficienti: atroci aggressioni e genocidi, distruzione e morte nei villaggi, tutte cose che qualsiasi americano deve odiare, tanto più se cattolico. Gli verrà voglia di farsi missionario e di andare laggiù a dare una mano, in particolare, ai Karen, minoranza religiosa perseguitata ai confini con la Thailandia. Rambo laggiù c’è già . Ha visto un bel po’ di dettagli in Vietnam, tanto che gli è rimasta nel volto una smorfia di disgusto, e adesso se ne sta buono. Caccia serpenti, aggiusta barche. Quando una spedizione di benefattori bianchi gli chiede un passaggio per risalire il fiume tenta, con i suoi modi bruschi, di declinare. Tra loro c’è anche una  bionda (Benz)  e la spedizione non sarebbe certo una passeggiata. Ma poi cede, il suo cuore è grande. Aspettatevi i botti, una mitragliata infinita di scontri e agguati, con molto sangue e molta sofferenza. Ma sempre dalla parte giusta. Purtroppo il mondo non si può aggiustare con la sola bontà . Con  dolore e a tratti ormai quasi con ripugnanza, Rambo strozza, sgozza, spancia i gialli cattivi pur di salvare la bionda e, con qualche riluttante scetticismo, i suoi amici. Lo aiuta un drappello di mercenari,  il cui intervento è annunciato  da un signore bianco vestito di nero che si presenta a John  con un piccolo ombrello pieghevole sotto un diluvio che chiamare pioggia è pura comicità . Ci credereste? Chi deve morire morirà e sarà salvo chi è atteso dal buon destino. Alla fine dei botti, un pacioso silenzio country accoglie Rambo che rientra, intenzionato a vivere in pace nella campagna paterna. A meno che, tra un po’, qualcuno non lo inviti alla quinta prestazione. Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet StreetSweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street Tim Burton, 2007 Johnny Depp, Helena Bonham Carter, Alan Rickman, Timothy Spall, Sacha Baron Cohen, Laura Michelle Kelly, Jayne Wisener, Jamie Campbell Bower, Edward Sanders. Golden Globe 2008: Miglior film mus/com, Johnny Depp at. Oscar 2008: Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo sgr.Affilato. Musical horror in salsa rossa.  E allora?  Non vuol dire Serie B. Non in questo caso –  il che comporterebbe il dibattito, se fosse da farsi,  sul recupero dell’immondizia, ma non siamo all’Università . La scena (mano “divina” di Dante Ferretti) è una Londra di un secolo e mezzo fa,  finto-espressionista, umida e scura, povero-romantica (fotografia di Dariusz Wolski), piena di topi e con qualche  signore arrogante che attira su di sé la vendetta (pazza o divina che dir si voglia) di chi – uno o molti fa lo stesso – il turpe sopruso lo  subisce. E’  una scena teatrale che si fa cinema indiscreto, sfacciato nell’adorazione di un’innocenza anch’essa finta e perciò doppiamente attraente –  dato che siamo nella  chiara rappresentazione assetata di “verità ”, per quanto  trasognata.  La finzione di Burton rende impossibile l’innocenza dello spettatore, tanto traspare  l’uso quasi-straniato (freddo)  del cinema muto nella sovrapposizione della musica alle immagini. Qui è la differenza essenziale  col musical di Stephen Sondheim e Hugh Wheeler (1979), da cui il film è tratto. Sul palcoscenico, l’effetto incollatura non avrebbe potuto funzionare, mentre  il cinema  permette (e asseconda) l'”outing” stilistico, specie con il drastico montaggio dei primi piani del barbiere killer  (Depp), che esplodono addirittura in una sorta di pausa ritmica, indispensabile all’idolatria del rasoio, vero tema del film. Già , perché – meno che mai  qui –  tutto si dovrà fare fuorché fermarsi al “libretto” dell’opera. Va bene, il ributtante giudice corrotto (Rickman) si è sbarazzato del barbiere Benjamin Barker,  facendolo marcire in galera per rubargli moglie e figlia. Volete che Barker, fuggito di prigione e assunto lo pseudonimo di Sweeney Todd, non pensi a rifarsi? Ed ecco che  sul grande schermo un rasoio in primo piano diventa specchio perverso di un’anima ispida, diventa protagonista allo stesso livello degli occhi spiritati del Todd/Vendetta, che riflettono sulla lama l’incombente taglio di gole. Nel paradiso dell’atroce destino, complementare è la donna, Mrs. Lovett (Bonham Carter), impastatrice di  pasticci stantii  nella locanda polverosa. E’ lei che ha il guizzo decisivo, pensando ad una vita finalmente senza fame. I corpi degli sgozzati da Todd (in attesa di avere sotto mano il giudice colpevole), messi al forno, possono diventare carne squisita per i clienti che arriveranno in massa. Nel sotterraneo, sordidi ingranaggi e il fuoco di cottura, nel cielo di Londra il fumo e l’acre  odore  dell’orrido cannibalismo.  Per una volta, lasciamo stare le fabbriche di cioccolato, i pesci felliniani  e perfino le  mani di forbice: qui nemmeno Batman, anche a volerci credere, sarebbe capace di  risolvere in Bene la situazione. Prendiamoci dunque  questo Burton “diverso” con le sue  doti d’inventore sarcastico, divertiamoci con lui a riconoscere il trucco dell’emozione, a godere del momento affilato del giustiziere imbestialito. Applaudiamo la classe e gustiamo con leggerezza il prelibato impasto di pezzi umani. Lo scafandro e la farfallaLe scaphandre et le papillon Julian Schnabel, 2007 Mathieu Alamric, Emmanuelle Seigner, Marie Josée-Croze, Anne Consigny, Patrick Chesnais, Niels Arestrup, Olatz Lopez Garmendia, Jean-Pierre Cassel, Marina Hands, Max Von Sydow, Emma de Caunes. Golden Globe: film str, Julian Schnabel re.  Meglio non pensare ad una “storia vera”. Schnabel, pittore di successo  e regista attento al mondo dell’arte (Basquiat, Prima che sia notte), racconta l’esperienza e la  vera  drammatica “disavventura”  di Jean-Dominique Baudy, 43 anni,  direttore della rivista francese Elle, padre di famiglia dalla vita movimentata, il quale un bel giorno resta vittima di un ictus terribile, che lo paralizza lasciandogli libero solo l’occhio sinistro. Risvegliatosi dal coma iniziale, Baudy si rende conto di essere rimasto progioniero del suo proprio corpo “inanimato” (sindrome locked-in), ma non rinuncia a vivere. Userà il battito della palpebra come unica possibile forma di comunicazione, con l’aiuto della dolce logopedista Céline (Seigner) e soprattutto attingendo alle risorse interiori della memoria e dell’immaginazione.  È  la “farfalla” che gli permetterà di evadere dalla scafandro.  E voliamo anche noi dalla stanza dell’ospedale di Berck-Sur-Mer nel mondo fantastico/reale-reale/fantastico  per le vie che la palpebra di Jean-Dominique ci suggerisce.  Sicché la storia sarà più vera, più pertinente  della “storia vera” di Baudy. Percepiremo come in un miracolo emotivo la nascita di un  linguaggio, faremo parte dell’evento sperimentale forse più interessante che si possa immaginare, dato che proprio nel linguaggio è la dote distintiva della nostra umanità . Toccheremo con mano, per così dire, la differenza tra sostanza e senso, garantiti dalla funzione fantastica e preservati dall’invasione del “nulla”. Jean-Dominique riesce, con i mezzi che gli rimangono, persino a scrivere un libro. Una prova  meravigliosa. Ma più importante è il percorso creativo in quanto tale, attivato dai limiti “tecnici” che lo condizionano. Il regista riesce bene a stare nel gioco soggettivo del personaggio, relazionando la sua  particolare  visione del mondo con la nostra condizione di spettatori in maniera discreta e insieme partecipe, con un montaggio spazio-temporale ingegnosamente adeguato e con un uso della fotografia (Janusz  Kaminski) perfettamente omogeneo. I contatti di Jean-Dominique  con l'”esterno”, nei momenti della memoria, si fondono senza contrasto nel collegamento con lo scafandro, in una dialettica ricca di agganci anche metafilmici, come quando  improvvisamente ci sembra di vedere  Von Sydow “ricordarsi” del grande Bergman: non è che il padre di Baudy, ma è anche  un film/cinema “oltre”,  che ci sale alla memoria. Letto 2520 volte.
|  |