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CINEMA: I MAESTRI: Nuovo cinema, l’inverosimile credibile

3 Marzo 2012

di Gillo Dorfles
(da “Quindici”, numero 2, luglio 1967]

Terza Mostra Internazionale del Nuovo Cine ­ma, Pesaro 27 maggio-4 giugno 1967 –
Tavola Rotonda sul tema: « Linguaggio e
ideologia nel film ».

Le scene pateticamente incestuose di Spring Night Summer Night di Anderson o quelle vagamente ideologicizzanti di Chudy i inni di Kluba, ci avevano già piombato nel conte ­nutismo più vieto, quando, poi, per fortuna nostra, di alcuni spettatori (nonché di pochi critici), sopraggiunsero le serie del New Ame ­rican Cinema, le Nueve Cartas a Berta, la Terra en trance di Rocha, Black Natchez di Pincus e Neuman, a risollevarci il morale.

Dico questo, perché â— almeno a livello sperimentale, di « nuovo cinema » (quale vuol essere quello che, per l’assiduo impegno di Lino Miccichè, già per la terza volta si pre ­senta a Pesaro, condito di accanite e dotte discussioni semiologiche) â— non ci si può accontentare del semplice raccontino, magari pieno di buona volontà, come nel jugoslavo Tople Godine di Dragoslav Lazic, né del ­l’inchiesta un po’ arruffata come A Opiniào Publica di Jabor, né meno che meno degli insensati film tedeschi, come Der Findling di George Moorse e Wilder Reiter GMBH di Spieker, né, purtroppo, delle inette « opere prime » nostrane come II Giardino delle Delibie di Agosti, e Trio di Mingozzi; ma ci si deve valere del « linguaggio filmico » per quanto di complesso e multilinguistico e ca ­ratteristico esso offre: ossia -â— per accettare l’ipotesi di Eco â— come di un « codice a tre articolazioni (che permette dunque di intrap ­polare molta più esperienza di qualsiasi altro codice) »; un codice, dunque, che « ci dà quella strana impressione che il protagonista bidimensionale di Flatlandia provava quando era messo in presenza della terza dimensio ­ne ». E mi sembra che sia proprio questa incredibile ricchezza del linguaggio filmico a mancare nella maggior parte dei prodotti, anche discreti, dove si continua a trattare que ­st’arte come se fosse o soltanto « romanzo », o soltanto « fotografia », o soltanto « pittura cinetica », o soltanto collage astratto. E se â— anticipando i temi e i risultati della ta ­vola rotonda â— abbiamo constatato la vene ­razione di molti studiosi e di molti giovani registi per l’opera di Godard (in specie per la Femme Mariée), ebbene, crediamo che tale venerazione sia meritata appunto perché il registra francese ha saputo inserire e far coa ­gire nel suo lavoro le diverse articolazioni lin ­guistiche e ha saputo valersi molto intelligen ­temente dei diversi modi espressivi oiterti dal codice della lingua parlata, da quello del collage visivo, del « flusso diacronico », e via dicendo.

Ma non basta valersi delle diverse dimen ­sioni e articolazioni e utilizzare i sistemi che le altre arti ci hanno ammannito per riuscire nell’intento. Lo provano alcuni degli espe ­rimenti pesaresi, come il lungometraggio Amore Amore di Leonardi: gigantesco e generoso collage carico di buone intenzioni, in parte mantenute, in parte scadute nell’ovvio, nel sentimentale, o soprattutto nell’a-strutturato.

Ecco infatti il pericolo: l’assenza di struttura (che non significa assenza di forma e neppure di intreccio). Struttura nel senso che le immagini filmiche possano legarsi tra di loro, voli (o nella consuetudine) per una trama sceneggiata, letteraria, muoia altresì per una affinità (omologia, se vogliamo meglio ritmica, ritmico o tra i no sono ora, o cromatica, o di contrasti ritmico-cromatici, o di analogie formali.

Ecco quello che manca in parte (non in toto) al film di Leonardi, del resto coraggioso, e a molti degli altri film e filmetti sperimentali mentre è presente nei migliori americani (per esempio in Oh Dem Watermelons di Robert Nelson, dove l’unità strutturale è offerta dal melone condito in tutte le salse); o nei tre cortometraggi di Carl Linder, nella Afrikareise, Castro Street, ecc.; e ancora nel Dante no es unicamente severo, di Jorda e Estewa-Greve. Ed è quello che non hanno capito alcuni deni ­gratori di questo film molto sottile, anche se abbastanza inconsistente, che aveva il merito di valersi d’un filo conduttore dato appunto più che dalla trama, da alcuni accordi di colori, da alcune iterazioni di immagini, e soprattutto dal discorso basato su riferimenti figurativi, da metafore verbali e da bruschi riferimenti iconologici resi pregnanti da doppi sensi e puns linguistici. Mentre in molti film americani â— considerati quanto mai high brow (ma più che di sopracciglia si trattava di muccose!) â— l’omologia era a livello di sgradevoli associazioni fisiologico-dermatologiche o a livello di colori pseudo-psicodelici (che abuso di questo termine ai nostri giorni: dal mobile al raccontino, dalla poltrona al film!), o peggio di tonalità cromatiche svenevoli e romantiche (Winter di Brooks), o â— ma qui sì che l’omologia strutturale era perfetta â— di natiche, protagoniste di uno dei filmetti più graziosi della Fluxus Anthology e per nulla pornografico (tant’è vero che qualcuno, accanto a me, si chiedeva se non si trattasse di guance).

Tutto ciò a dimostrare che quando si vuol discorrere di Contenuto e significato dell’opera cinematografica (come ha fatto Emilio Gar ­roni nella sua relazione) non bisogna lasciarsi) irretire dalla preoccupazione di ridurre a mor ­femi, a sintagmi, a « cinòmi », le singole unità filmiche, ma bisogna considerare il film in toto per i suoi polivalenti significati immagi ­nifici oltre che discorsivi. E, infatti, come afferma appunto Garroni: « Messa da parte l’ipotesi che si abbia a che fare, nel caso del linguaggio filmico, con una semiotica conno ­tativa, non rimane che pensare ad un tipo di ‘ semiotica mista ‘… dove tutti i mezzi semiologici intervengono nella loro biplanarità espressione-contenuto, o comunque con la loro carica simbolica, ma funzionalizzandosi in senso distintivo ai fini di quell’unica, autentica unità di contenuto che è il film nella sua interezza… o meglio, ai fini di quell’unico au ­tentico livello di significato che è il significato contestuale ». Per cui â— e mi sembra che l’ipotesi sia molto più sana di tante altre espresse a questa tavola rotonda â— « se è vero che il linguaggio filmico, lungi dall’essere né specifico o gerarchico, né trasformabile in semiotica verbale, è un linguaggio misto e simultaneo, se esso costituisce un insieme in ­terdipendente di semiotiche, allora… il suo unico livello di significato è quello contestua ­le »; e, proprio per questa sua contestualità, necessariamente ‘ambiguo’.

E, tuttavia: se è vero che la semiotica fil ­mica va riferita globalmente ai diversi para ­metri costitutivi del cinema (non più l’antico « film muto », e meno ancora il « film-arte figurativa »!) è anche vero che spesso il quo ­ziente discorsivo è così importante rispetto a quello meramente iconico da permettere il co ­stituirsi d’una « struttura » sulla base d’un nesso che sia verbalmente traducibile; mentre altre volte il nesso strutturale può benissimo prescindere dall’aspetto verbale e discorsivo, né ha bisogno che si dia una « traducibilità » dell’immagine filmica (visuale) in quella di ­scorsiva.

Il soppiantamento della denotatività da parte della connotatività dell’immagine filmica, del resto, sta spesso alla base di questa semiotica ed è direttamente legato al tortuoso quesito della verosimiglianza d’ogni composizione ci ­nematografica.

Due parole soltanto su questo altro grosso quesito. Certo già Galvano della Volpe ci aveva ammonito sul nostro debito ad Aristo ­tele a proposito del « verosimile filmico »; e nella sua relazione aveva insistito nel riaffer ­mare: « questa problematica gnoseologica del rapporto parola-immagine nel film è soltanto aggirata… da coloro (vedi Roland Barthes e seguaci) che si ingegnano a ridurre l’immagine filmica a ‘ segno ‘ di un ‘ linguaggio ‘ (ico ­nico) e quindi ad un quissimile della ‘ parola ‘ e della ‘ frase ‘ coi rispettivi valori denota ­tivi e connotativi e con ‘ sintagmi ‘ e ‘ para ­digmi ‘, e così via ». Ma, proprio se ci teniamo strettamente ad Aristotele, dovremo ricordare a Christian Metz (la cui relazione era tutta rivolta a dimostrare l’importanza di « sfuggire al verosimile », che è « il momento ostico del ­l’arte ») come non solo di eikòs parlava Ari ­stotele, a proposito d’una necessità della tra ­gedia di essere « verosimile », ma anche di adùnaton, di impossibile; e cioè di come sia preferibile l’adunaton pithanon al dunaton apithanon il che significa: « meglio una cosa impossibile ma credibile che una possibile ma incredibile ». Dunque il vero punto, ancora oggi, è che alcunché sia « credibile » rispetto al contesto del film, sia come vicenda che come struttura d’immagini. Verosimile, wahrscheinlich, vraisemblable, pravdopodobnij, vuol dire « simile al vero » e in questo senso vale meno che nulla; ma « credibile », questo sì, che vale qualcosa: vuol dire essere â— o dover essere â— recepibile a livelli diversi. Vari piani di credibilità (che poi corrispondono ai piani di verosimiglianza cui Metz allude nella sua relazione II dire e il detto nel cinema) a seconda dello stile d’un’opera o d’un’epoca. Credibilità, che, per dare un esempio pesa ­rese, è del tutto assente dal mediocre (ma tanto ammirato!) film olandese Joszef Katus di Verstappen; proprio per la sua incoerenza nùn solo discorsiva (del racconto filmico) ma delle immagini (evidente miscuglio non ben amalgamato tra attori recitanti e ripresa estem ­poranea tipo cinema-verité); come è assente dal mediocrissimo film tedesco Der Findling (dove la matrigna è troppo giovane, il patrigno troppo buono, l’amante troppo brutta e col naso troppo lungo). Mentre è presente e fun ­zionante persino quando si riferisca ad un elemento del tutto astratto nei deliziosi car ­toni animati Fat feet e Duo Concernantes, dove il contrasto tra personaggi « finti » e rea ­li accentua semmai la piacevolezza dovuta alla non-verosimiglianza dell’insieme.

A questo punto ancora un breve cenno alle osservazioni sollevate dall’estetologo cecoslovacco (tra parentesi i cecoslovacchi hanno saputo risolvere molto abilmente il problema della verosimiglianza e della credibilità nel loro film quasi fantascientifico Konec Srpna di Jan Schmidt) Antonin Sychra, che â— quan ­to giustamente â— ha osservato (parlando di Forma e contenuto dal punto di vista della semantica integrata): « non capisco perché Pasolini parta dal presupposto che solo la ‘ singola qualità espressiva ‘ dei segni può es ­sere considerata come estetica, mentre l’atto di selezionare dei segni iconici adeguati da un continuum di oggetti reali avrebbe natura puramente linguistica. Anche quando selezio ­na segni iconici l’artista non crea un linguag ­gio… bensì crea un’opera d’arte ». Osserva ­zione quanto mai accettabile, come quella rivolta a Metz: « non posso essere d’accordo con Metz quando sopravvaluta le connotazioni rispetto all’espressività del film come arte: denotazione e connotazione sono solo due di ­versi aspetti della stessa cosa ». Se l’elemento connotativo â— e in altri termini metaforico, traslato, retorico, â— è spesso uno dei più efficaci mezzi di « poetizzare » un discorso, ciò non significa che, per fare dell’arte sia indispensabile abolire il rapporto denotativo, sostituire il denotatum con il connotatum.

Un ulteriore appunto alla linguistica pasoliniana è stato sollevato da Umberto Eco che nella sua relazione Sulle articolazioni del codi ­ce cinematografico ha giustamente precisato (basandosi soprattutto sul volume Messages et Signaux di Luis Prieto di cui ha ampia ­mente riassunto la teoria), come non si possa considerare il cinema una « lingua dell’azio ­ne » per cui la sua semiologia si proporrebbe come « una semiologia della realtà » artico ­labile in monemi e in « cinèmi », intesi quali oggetti stessi e atti della realtà; ma come, per contro, « la natura ritratta dal cinema sia con ­venzione e cultura. Tanto è vero che di questa lingua dell’azione esiste già una semiologica e si chiama la cinesica »; e qui Eco si rife ­risce a quella dottrina ampiamente sviluppata negli USA sotto il nome di kinesics che ap ­punto analizza e cataloga la gestualità umana e tenta di individuarne i singoli elementi si ­gnificanti. Eco ha inoltre efficacemente pro ­vato come non si possano identificare le unità minimali filmiche (i presunti « cinèmi » pasoliniani) con i fonemi, in quanto questi ultimi come è ben noto â— non costituiscono « porzioni del significato scomposto », quale il morfema, ma equivalgono praticamente a quelli che Aristotele definiva « stoiheia », os ­sia unità fonetiche non ulteriormente divisi ­bili, ma non come i cinèmi di Pasolini ancora cariche di significato. E finalmente â— ma non mi è possibile qui riassumere la ricchezza dei motivi trattati â— come nel cinema si debba in definitiva discorrere d’una terza articolazione proprio per la presenza in esso di tre distinti livelli significanti. [La tratta ­zione analitica di questo punto, estremamente complesso e non riassumible, si trova in una raccolta di lezioni universitarie â— Semiologia delle comunicazioni visive â— che Eco sta per pubblicare per uso degli studenti. Nel pros ­simo numero di Quindici se ne darà un ampio resoconto, n.d.r.].

E ancora un’ultima osservazione sopra un problema che non è stato discusso dai parte ­cipanti alla tavola rotonda ma di cui s’è avver ­tita la sorda presenza: quello del « tempo filmico ».

Non starò a riandare le dispute attorno a tempo filmico e afilmico, diegetico e filmofanico, psicologico e fisiologico; sta di fatto che, durante la settimana pesarese, abbiamo assistito a diversi episodi di « tempo sconfi ­nato » (film che non finivano mai pur du ­rando solo un paio d’ore: non coincidenza del tempo psicologico â— anzi crono-psicolo ­gico â— col tempo filmico), ma anche â— ed è questo l’elemento nuovo â— ad alcuni ten ­tativi di immobilizzare a bella posta il tempo o                 viceversa così da ottenere, attraverso la alterata esposizione dell’immagine, un effetto di sconcertamento o di penosa aspettazione o d’irritata sorpresa. Esempi: la lentezza del ­la chiusura d’una bocca, o al contrario la velocità del catch o del circo (First Fight di Beer, Circus Notebook di Mekas), la lentezza della cavalcata nel film di Leonardi, la len ­tezza di alcuni film di Wharhol (qui, per altro, non presentati ma assai citati e « pre ­senti » nella persona stessa dell’artista che funge da attore in Match Girl di Meyer). Cosa deriviamo da queste esperienze di tempi coartati e di tempi vischiosamente dilatati? Che il tempo filmico è indubbiamente soggetto alla legge generale dell’informazione: quanto più inattesa la sequenza, tanto più intensa l’informazione che se ne ricava, tanto più veloce scorre il tempo psicologico; mentre, tanto meno inattesa la sequenza, tanto minore l’informazione, tanto più lento lo scorrere del tempo.

Il che corrisponde abbastanza a quanto accade nella musica dove una determinata soluzione è più o meno prevista con relativa accelerazione o rallentamento del tempo dell’Erlebnis.

Ho fatto quest’ultima osservazione perché mi è sembrato che all’ipermontaggio godardiano all’ipo-montaggio wharholiano si stia appunto assistendo ad un particolare impegno conferito al fattore cronologico, che dopotutto è tra i parametri privilegiati del cinema.

Certo: i tempi filmici a Pesaro sono stati forse troppo densi per permettere al nostro « tempo psicologico » (o addirittura psico-patologico) di adeguarvisi: ci auguriamo che un prossimo incontro ci offra maggior respiro per poter centellinare gli aspetti positivi e negativi della semiotica filmica.

 


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Bart