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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Colombati, Leonardo

7 Novembre 2007

Perceber
Rio

“Perceber”

Sironi, pagg. 512. Euro 17

È il libro di esordio di Colombati annunciato e atteso con interesse da qualche tempo. Se n’è parlato come di un romanzo rivelazione. Più di quello di Alessandro Piperno, “Con le peggiori intenzioni”, che ha avuto un successo di vendite assai lusinghiero.

Vediamo. Si è detto che Colombati, il quale per scrivere il suo romanzo ci ha messo undici anni, ne ha provate di tutte in piena libertà, guidato e affascinato solo dal piacere di raccontare. È così?

Una scrittura immaginifica, lussureggiante, dove i quadri si susseguono vorticosamente, ci avvolge nel suo turbinio. È questa la prima sensazione che si prova nell’immergerci in “Perceber”. Ci sembra di avere a che fare con personaggi fatti d’aria, che di volta in volta si colorano del nero della Yourcenar de “L’opera in nero”, o dello scintillio dei dipinti di Toulouse-Lautrec. Si intuisce da subito che non sarà facile per chi legge seguire la rotta di questa nave in balia della tempesta. Una nave grande quanto un galeone spagnolo. Una nave che non ha ammainato le vele per godersi tutto intero il vento della fantasia.

Tra il caos che governa “L’incanto del lotto 49” di Thomas Pynchon e la metafora e il sogno che impregnano “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez, Colombati tenta di rappresentare un’esperienza narrativa tutta sua, in cui mescola e marca nei colori le sue molte sensibilità: da quelle stilistiche a quelle culturali, dall’egocentrismo al gioco cerebrale ed anche voluttuoso, dall’ironia sulle assurdità del mondo, alla pietà verso la condizione umana e soprattutto verso le ossessioni che trasformano, specie nei deliri del sesso, gli uomini in mostri.

Perceber è un paesino spagnolo, della Murcia, fondato nel XIII secolo da un ebreo in fuga, scampato alla strage degli Albigesi perpetrata dai Cristiani, Asher ben David, un cabalista. In questo paese, situato in riva al mare, si verifica un caso strano: i suoi abitanti parlano ininterrottamente: “tutti parlano senza smettere mai.” Si tratta di un caso oggetto di molti studi, ma davvero misterioso. Colombati inserisce questa annotazione sulla stranezza di Perceber in una Roma moderna e caotica, rappresentata a partire dai giorni del Giubileo dell’anno 2000.

Gli occhi che osservano, le parole che dipingono il movimento sono, in principio, quelli di due ebrei, Giovanni Migliore, “giornalista free-lance nonché direttore responsabile del settimanale «L’Eco del Mondo »” e suo zio, il Professor Pompilio Bologna, “titolare della Cattedra di Filologia ebraica all’Università La Sapienza”. Dal racconto dello zio, che trova un nipote distratto e annoiato, ha inizio la nostra conoscenza di Perceber, il “paese dove non esiste il Silenzio!” Non solo, ma “Nulla è Bianco!” Infatti, il bianco viene definito come il “Colore Assente”.

È una storia, questa, che affiora continuamente nel romanzo, divenendone la rotta che ci consentirà di far salire a bordo i numerosi personaggi ed episodi che incontreremo nel lungo viaggio.

Il giovane Asher – il fondatore di Perceber – sposa una ragazza un po’ selvaggia e impaurita, Rachele; con le sue arti e i suoi unguenti comincia a guarire i malati del luogo, che accorrono sempre più numerosi presso di lui, la cui fama va diffondendosi. Così che presto si radunano intorno a lui dei discepoli, i quali edificano accanto alla sua casa capanne per dimorarvi e restargli vicino: “Perceber era nata.” Anche il Gadda de “La cognizione del dolore” trova qui qualche reminiscenza. In realtà, il nome di Perceber le sarà dato nel XVI secolo per una storia di prostituzione legata al bordello tenuto da una ex badessa, Anna Schillings, venuta dalla Germania con “cinque valchirie”, alle quali si aggiunsero nel tempo altre “ragazze di tutti”. Il tono di Colombati è molto divertito, e il dialogo tra lo zio, che racconta, e il nipote ha momenti assai piacevoli, tanto che, quando avremo terminato la lettura del romanzo, ci si convincerà che la scrittura come creazione ludica, giocosa, ha trovato in questo autore un convinto e naturale interprete. Le finalità della narrazione sono già dichiarate in questo dialogo in cui prende a disegnarsi proprio il luogo, Perceber, che dà il titolo al romanzo, non a caso definito “eroicomico”. Badate: mentre i due dialogano (“dialogo per una voce sola”), Migliore ha mal di pancia e va alla toilette; ciò dà all’autore l’occasione di scrivere: “il fulcro della Città Eterna sembra coincidere, metro più metro meno, con la tazza del cesso sulla quale Giovanni Migliore sta contorcendo le proprie budella in preda al cagotto”. In questa spassosa immagine, proprio attraverso la tazza, si stabilisce una esilarante (ed irriverente) correlazione tra Roma, la Città Eterna, così solenne, e Perceber, cittadina piccola e sperduta, che però si è introdotta nella mitologia del giovane in forza del racconto stupefacente dello zio. Attraverso la tazza, insomma, possiamo immaginarci una congiunzione tra il presente di Roma (presso la Stazione Termini “Il piazzale è obnubilato dalle esalazioni dei tubi di scappamento.”) e l’antico di Perceber. Un’operazione di questa natura, di confronto, ossia, anche stilistico, tra passato e presente, fu tentata con successo da Maurizio Maggiani ne “Il coraggio del pettirosso”.

La storia inizia a snodarsi in un giorno di lugli dell’anno 2000, il 5, in piena estate, nel corso di “una passeggiata fatale”. In realtà, noi ci troveremo di fronte a numerosi flashback che contribuiranno a dare del tempo una dimensione assai relativa, se non addirittura insignificante e nulla. Colombati arricchisce di una nota l’inizio di ogni episodio, con la quale intende dare conto di alcune ragioni tra esoteriche, religiose, mitologiche e cabalistiche relative alla struttura del romanzo, così come annunciato nell’introduzione, delle quali, come lui stesso avverte, si può fare a meno. Ed infatti, esse richiedono una conoscenza specialistica che tanto chi scrive quanto il lettore medio non hanno, e se ne potrebbe restare invischiati e confusi.

Mentre lo zio è tutto immerso nel passato di Perceber, il nipote vive un conflitto interiore in cui passato e presente acquistano, nella loro contrapposizione, un significato metaforico in grado di percorrere l’intera gamma della sua complessa personalità. Cosicché, mentre il professore imperterrito narra la storia di Perceber (il cui nome, ricordiamo, storpiato dal portoghese, è legato ad un atto sessuale compiuto nel bordello), Migliore resta turbato dal Gay-Pride che si svolge nei pressi della Stazione Termini, dove sono giunti nel frattempo (ritroveremo il turbamento sessuale in un altro personaggio, il pediatra Luigi Dodo). Lo zio sale sul treno e promette di riprendere la storia di Perceber, arrivata al racconto della morte per stregoneria di Isolde, la figlia della ex badessa, e poi, più tardi, della figlia di Isolde, che ha lo stesso nome della nonna, Anna. Anche Roma, pur soffocata e frastornata dalla modernità, rivolge ogni tanto lo sguardo al suo passato e Colombati resuscita Lucrezia, Pasquino, Marforio, Giordano Bruno, ai quali dà la parola in un verseggiare romanesco che ci riporta indietro nel tempo. Ma solo per poco, poiché già dal giorno dopo, 6 luglio, torna Giovanni Migliore a mostrarci la Roma di oggi. Colombati si trasforma così in un singolare cronista, come lo è Migliore, e attraversa una Roma brulicante, chiassosa, notturna, viziosa, pasticciona, divertente, malinconica. Fa capolino anche Laurence Sterne di “Vita e opinioni di Tristram Shandy”, ossia quello Sterne che fece della piena libertà di scrivere un culto geniale. La lezione di Sterne occuperà un posto sempre più rilevante nella narrazione. Giovanni Migliore è un uomo d’avventura, il cui vasto mondo da esplorare è rappresentato dal caos che affligge la modernità; egli vi si inoltra, vi si immerge, avendo come principale strumento l’ironia (si veda in particolare l’orgia sessuale descritta nell’episodio 35). Ci viene da domandarci se Migliore e Colombati possano essere la stessa persona. Sì e no. Sì, secondo la data di nascita del protagonista, che “era giunto alla conclusione di essere nato in un giorno di primavera del 1970”; no, se rendiamo a Giovanni la sua autonoma personalità assalita e compromessa in continuazione dai riflettori che si accendono intorno a lui e su di lui uno dopo l’altro, offrendogli non tutta, ma squarci improvvisi di una realtà che nasce, prende forma e si sviluppa, così come accadeva in Sterne, dalla scrittura. Sebbene Roma pulsi vitale come nel film omonimo di Federico Fellini, noi ci troviamo di fronte ad una Roma tracciata dalle sorgenti della parola, pronta a cadere e a svanire nel nulla ove l’autore ne invocasse e decretasse il silenzio. Va ricordato che Perceber è un luogo mitico, dove la parola governa gli uomini, i quali non cessano mai di parlare. Abbiamo davanti, dunque, una realtà dove i muri, le strade, le piazze, le chiese, le fontane, gli individui, l’aria, i colori sono il risultato della parola; caduchi se cade la parola. Troveremo scritto, quasi al termine del romanzo (episodio 32): “il mondo è stato creato nominandolo.” Della parola è sovrano, despota, soltanto l’autore, cosicché la Roma di Giovanni Migliore non potrebbe esistere al di fuori e al di là di questo particolare romanzo. Una Roma né antica né rinascimentale, ma, per la magia della scrittura, una Roma che si adorna di inflorescenze quando gotiche, con trifore e pinnacoli, quando barocche: “S’avverte al Piccolo Aventino l’immediata dissoluzione di due o tre gradi centigradi. Nuvole di Temperatura digradante hanno introitato l’atmosfera stuzzicando i peli degli avambracci, un festino di gatti mammoni ristagna tra i pilastri di San Saba e sui sarcofagi del portico. Ghermito il fondo lustrente del cielo con le sue zampe di Mostro, un grande Uccello blu come la Notte spicca il volo dalla cima della Piramide davanti Porta San Paolo, poi plana sul campanile, mentre le ore rimbalzano con ossessiva monotonia all’interno delle nostre Scatole Craniche, producendo attese e rimorsi a forma di angiomi parito-occipitali e a nulla valgono, in fin dei conti, i tentativi di ridurre le pulsazioni delle arterie temporali…” Vi si nasconde, a ben guardare, una visionarietà alla Blake e anche di Campana, avidamente assorbita da una prosa in movimento, non importa verso quale direzione, come se l’autore, lui pure in completa libertà, le avesse assegnato il compito di condurre verso l’ignoto, verso il mistero, un forziere da troppo tempo racchiuso nella sua anima: “Sulla Spiaggia finale il vento ha scritto frasi senza pentimenti, mentre la mano punitrice assume il peso della schiuma.” Perceber, questa grande nave, che è partita da uno sconosciuto porto della Murcia in un lontano Medioevo, non solo sta incontrando lungo la rotta imbarcazioni piene di uomini, leggeri come l’aria, quasi ectoplasmi in cerca di identità, che anelano di infiggere i loro piccoli sogni dentro un sogno più grande, ma incontra lungo gli stretti passaggi, vuoi dei mitici continenti vuoi dei vicoli della Città Eterna, il suadente canto delle sirene sempre più ingannevoli e incantatrici: “le cime che sbattono sugli alberi come tamburi, l’accartocciarsi delle vele, mentre cammina coi suoi Morti, nei samba e nelle milongas che muoiono nella baia; tra Orde incappucciate che sciamano su infinite pianure, nella ricomposizione di cento paesaggi che aderiscono e poi scoppiano tra gli spruzzi dei cento mari diversi.” Che cos’è la modernità, infatti, rispetto all’antico? Non è, quello di Giovanni, il viaggio rinnovato di Ulisse?: “Dov’è il mio destino?/dove i miei giorni vissuti?dove/il mio tempo?” Colombati ha definitivamente fatto la sua scelta. Il lettore dovrà andarsela a cercare quella grande nave che attraversa il mondo e Roma. Egli la lascia intravvedere, poi la nasconde, poi la camuffa, la trasforma, quasi la immerge nelle acque più profonde; a malapena se ne scorgono, a volte, le vele. Un pastiche, un collage, che si appiccica impetuoso al bastimento, gonfiandolo di forme, di bisbigli, di deliri e di colori. Un delirio alla Lautremont, infatti, pare incunearsi nella struttura del romanzo, mostrando ai nostri occhi una Roma ipnotica e deformata, con la quale dobbiamo fare i conti come sotto i miasmi di una ubriacatura. Un effetto quasi psichedelico, conturbante, contagia la nostra fantasia, s’impossessa di noi, ci fa muovere in una Roma osservata con occhi che stanno guardando – ben al di là del sogno – un qualcosa di sconosciuto, di nascosto che per la prima volta viene alla luce, destato dai sensi occulti e dolorosi che ci tormentano. Come quelli del Vecchio, Antonio Baldini, con la sua lunga barba e il suo aspetto in grado di spaventare una bambina, figlio adottivo (nacque da una prostituta) dell’ingegnere che costruì la stazione Ostiense e lo zoo di Roma, presso il quale si reca ogni giorno come assistente volontario. Il suo è un mondo immerso nella tristezza e nella solitudine: “La mia solitudine dipende forse dal fatto che il mondo è così vasto e senza confini? Tutti hanno troppa strada da fare, ogni giorno – anch’io – per potersi fermare ad accogliere una nuova amicizia.” Colombati non manca di lasciare qua e là i segni di una umanità che, pur nata dispersa ai quattro venti, non si è ancora assuefatta al caos e alla sconfitta. Poco dopo, il vecchio Antonio Baldini dirà: “sono stato scelto per dimostrare che l’Amore esiste.” Ed è sempre a lui che l’autore consegna queste parole molto significative: “Tutti ormai sanno che il mondo si spinge esattamente fin dove arrivano le Parole e che non esiste niente che non sia nominato… Però… però sono qui a dirvi che il Vocabolario è un mondo chiuso e misterioso, nient’affatto identico all’Universo, checché ne dicano i filosofi.” Significa, ossia, aprirsi alla speranza, nonostante ciò che le parole creano. Il romanzo, dunque, ci mostra il mondo delle parole, il quale è diverso dalla realtà, ma è diverso anche da ciò che noi chiamiamo, con una parola sterminata: Universo. L’Universo non è solo l’infinito, ma l’imponderabile, il non detto, il nascosto, l’impossibile. Come taluni personaggi di questo romanzo che compaiono e spariscono, e ricompaiono, proprio come fantasmi evocati e riconducibili ad un unico protagonista: l’uomo solitario, spaventato e smarrito nell’Universo. Si deve dire che il romanzo fa del disordine e del caos, come pure della libertà, del gioco e della visionarietà, degli elementi in continua, irrefrenabile, spumeggiante, ebollizione.

Colombati continua a raccogliere personaggi sul suo galeone. Su qualcuno, non solo su Giovanni, si sofferma per carpirne una qualche utilità. Dopo il caso del vecchio Antonio Baldini, che gira per Roma in sella ad un altrettanto vecchio motorino Benelli per fare una nuova e originale mappatura della città, ora è il turno del pediatra Luigi Dodo, che, afflitto da “Pedofilia Immaginaria”, si infatua delle sue piccole pazienti (“ho iniziato a sentirmi terrorizzato – terrorizzato e attratto – ogni volta che incontro qualcuno con meno di dodici anni”), Matilde e Dorina in particolare. Vedremo che nel romanzo ci saranno molte apparizioni. Che funzione finiscono per avere? Nessuna, e allo stesso tempo tutte se orientiamo lo sguardo a Perceber e seguiamo la rotta della nave che ha attraversato, dopo il Medioevo, tutti i secoli seguenti fino a noi, fino alla guerra, alle persecuzioni, alla Torah e all’Olocausto, e oggi al disordine e al caos della società. Colombati fa un esercizio di scrittura, un assemblaggio di scene e situazioni, al servizio dei quali pone una irriverente ilarità, una ironia scaltra e ridanciana, pescando tra le molte azioni umane sparse nell’Universo. Le tinge tutte del suo colore. Sulla diversità degli atteggiamenti e dei sentimenti, egli sparge un velo che le uniforma, le cataloga e le assegna ad un’unica specie, l’uomo, il solo tra quelle viventi a cui può essere rivolto il rimprovero per ciò che accade: “non c’è nulla di più Sacro dell’utile e più Vano della vita.” Il romanzo si configura come uno di quei disegni moderni in cui l’artista ha radunato piccoli informi oggetti nati chi sa dove e così differenti l’uno dall’altro (cartine, bastoncini, plastica, stoffa, e così via) che lì per lì, quando l’occhio si posa su ciascuno di essi singolarmente, dànno il senso di una grande confusione, ma che, osservati nell’insieme, assumono nuovi colori e significati. Colombati non fa altro che trasferire da una realtà statica fatta di piccole cose ad una realtà più complessa e dinamica, nuova e diversa. Quell’attraversamento nel mare magnum del tempo non serve che a issare le reti che furono calate negli abissi di un passato miticamente lontano. È Dodo a offrirci un’altra delle chiavi di lettura: “mi rendo conto che qualcosa di quest’esperienza dal Mondo dei Sogni dev’essere colato nella Realtà.”

Di nuovo Baldini in scena: continua a percorrere Roma in sella alla sua moto. È di lui, chiamato anche Barbalunga, che si serve Colombati, più che di Giovanni, per entrare nel cuore di Roma, soprattutto della Roma moderna, invasa da extracomunitari e da assordanti rumori. Vi ricordate della tazza della toilette posta al centro di Roma, sulla quale andò a vomitare Giovanni Migliore mentre lo zio, il Professor Bologna, gli narrava la storia di Perceber? Ebbene, ora si scopre, lo scopre proprio Baldini, che esiste una Porta Magica che mette in contatto la Città Eterna con la non troppo lontana, dunque, cittadina della Murcia. Baldini ha avuto uno zio, Anselmo, fratello del padre, che ha combattuto in Spagna prima coi nazionalisti, poi con le “Brigate internazionali” ed infine è finito nella Murcia, e proprio a Perceber, “un luogo dove tutti parlavano senza poter smettere mai!” Il collegamento è ripristinato attraverso questo personaggio, dunque, Antonio Baldini, che è venuto a sapere dell’esistenza della straordinaria cittadina dal racconto di suo zio, allo stesso modo che, prima, ne era venuto a conoscenza, dal racconto dello zio Professor Bologna, Giovanni Migliore. Apprendiamo così che, come avviene nel “Quinto evangelio” di Mario Pomilio, esiste un libro “antichissimo, formato da tre serie di sette fogli, il settimo dei quali sempre Bianco.”, che nessuno riesce a decifrare, e che sta passando di mano in mano. Lo zio Anselmo ha saputo della sua esistenza dall’ultimo possessore, un certo Ubaldo degli Ubaldi, al quale a sua volta lo aveva trasferito Antonio Barruhlo, che un giorno fatale, mentre viveva a Perceber, era diventato muto.

Assistiamo a un incidente in via Trastevere e un certo Romolo Carpi ha avuto una gamba tranciata da un tram; ebbene, un fatto analogo accadde a Perceber nel luglio del 1637, allorché “un carretto carico di grano si rovesciò nei pressi di Castellí³n de la Plana; una ruota ricadde sulla gamba di un giovane contadino di nome Miguel Juan Pellicer, fratturando la tibia.” La gamba di Pellicer va in cancrena e viene amputata. La parte amputata viene “sepolta nel cimitero ospedaliero.” Il moncone gli duole, così prende ad ungerlo “con l’olio usato per accendere le lampade della cappella di Nostra Signora della Speranza.”, finché un giorno non si sveglia con due gambe. La parte amputata si è, infatti, di nuovo attaccata alla gamba rimasta, e nel cimitero, dove era stata sepolta, non c’è più. Si parla di miracolo, ma lo zio Anselmo, “forse imbeccato dallo spagnolo, riteneva che l’unguento con cui Pellicer si spalmava il moncone fosse tutt’altro che l’olio della santa lampada…”, ossia, era certo che il miracolo si doveva “alla cerchia dei cabalisti eterodossi che si rifaceva all’insegnamento di Asher”, il fondatore di Perceber, celebre fabbricante di unguenti miracolosi, il cui segreto è contenuto nell’indecifrabile libro passato nelle mani dello zio Anselmo, che aveva tentato inutilmente di carpirne il segreto. Racconta Baldini che suo padre, fratello di Anselmo, un pomeriggio: “dette in escandescenze quando scoprì che il fetore che da due giorni aveva invaso lo stabile proveniva dalla cantina, più esattamente da un recipiente in cui lo zio aveva mescolato tre bottiglie di Valpolicella con sterco di cavallo.” Baldini ha anche raccolto, non dimentichiamo, in un incontro-scontro con il cinese Du Xiang, un astuccio in cui è contenuta quella che si ritiene la formula magica presente anche nel libro misterioso. È a lui, ancora una volta, che vengono affidate queste altre parole significative, rivolte a Algieba, la moglie defunta: “Roma non si sa mai che faccia abbia. Più in là, da una finestra aperta s’udiva la telecronaca di Italia-Francia, con quei nomi francesi così tenacemente protestati. E io non riuscivo nemmeno a soffrire troppo, perché io ero morto. E domani sarei stato via di nuovo, lontano da quel vento ferrigno, lontano dai tuoi gesti, dimenticato dal ricordo di me stesso, distante da ogni luogo che si chiamasse Roma.” È, Baldini, il personaggio che per la prima volta tenta di dare al viaggio Perceber-Roma un suo significato che vada al di là del gioco e del divertimento: la ricerca, ansiosa, sperata, ossia, di una cosmogonia che, nell’estinguerci come individui, ci immerge nella dimenticanza, la sola in grado di offrire, attraverso il nulla, una nuova esistenza. Giovanni Migliore, Luigi Dodo, Antonio Baldini (che non a caso ad un certo punto – episodio 19 – si spaccerà con il nome di Aldo Enrico Tambolo, il guardiano del museo di orologi che si è incontrato, invece, con Luigi Dodo nell’episodio 13; e Migliore, nell’episodio 26, pensa eroticamente a Dodo, al quale dedica in seguito altri pensieri, e Dodo, nell’episodio 31, fa lo stesso, finché non s’incontreranno nell’episodio 34), altro non sono che tre aspirazioni diverse di un unico desiderio: il cambiamento che si dà nel momento in cui ogni minima cosa è resuscitata, riportata alla luce, non sfuggita, ma bruciata sopra il fuoco della verità. Ciò che ci pare superfluo, inutile, minimo, indifferente, è un ingranaggio vitale ed essenziale del viaggio, senza l’analisi del quale non può darsi alcun mutamento: “Il tuo dovere è, anche oggi, la tua giustificazione; non ne sei esonerato.” Da questo momento le tre figure si alterneranno assai velocemente, soprattutto quelle di Migliore e di Baldini. Ma attenzione, a volte i momenti dell’azione sono cronologicamente molto distanti, come se il tempo, pur restando presente nella logica dei comportamenti umani, avesse perso la sua consueta fisionomia, dopo uno spappolamento (“implosione del Tempo”) provocato da strumenti di analisi del tutto nuovi e sconosciuti. Migliore, Baldini e Dodo sono i periscopi principali con cui Colombati fa il suo giro per il mondo. Non solo per Roma, si badi, in quanto le minuzie che vengono colte quando l’occhio si pone davanti al periscopio appartengono ad un genere di cui solo l’umanità intera detiene il monopolio: “la città non è un luogo, ma un percorso nel tempo”.

È, tuttavia, nel momento in cui vive la fase di accostamento a Perceber, che il romanzo si colma, come per magia, di significati, e il lettore avverte l’afflato di questa ricerca a dir poco speciale, nascosta sotto una mascheratura dall’apparenza tutta astrologica, mitologica, cabalistica ed esoterica. La scritta in latino che compare nel foglio rinvenuto nell’astuccio potrebbe contenere addirittura una formula segreta per scoprire la Porta Magica, ossia la porta “che consente il passaggio da Roma a Perceber, e dunque da un mondo all’altro.”

Colombati si mostra dotato di una sensibilità e di una scrittura ad ampio spettro; gli argomenti che tratta sono innumerevoli, che vanno dai fatti di cronaca, anche macabri, alla politica; dalla cabala alla mistica ebraica, alla scienza, alla letteratura, alla storia, alla musica, alla religione, e così via, sui quali mostra di possedere una preparazione puntigliosa, offrendoci un bagaglio notevole di note e di riferimenti che potrebbero costituire un volume a sé, oltre che suggerire percorsi di lettura multipli e tutti, forse, insufficienti a comprendere un’opera dalla vitalità, poliedricità e complessità inusitate. Prima che si arrivi alla metà di questo articolato percorso, Colombati ha già assestato il timone ed è entrato dentro le coordinate di una rotta sicura, voluta e determinata, tanto che gli episodi che seguono si fanno intriganti e pregni di quella sensualità semantica, di quel piacere avido della parola, dai quali trasuda l’anelito di una cosmogonia, di un canto corale, che si stanno configurando come vicini e possibili: “La Rinuncia. Quel desiderio crescente – l’unico che gli pare non ingannevole – di compiere il Transito per giungere alla Fine.” Gli episodi diventano, così, tanti cerchi, tanti gironi danteschi, dentro i quali Colombati ci aiuta a figgere gli occhi per vedere e capire: “Ogni raro passante è un’Ombra marrone cioccolato a guardia di qualche mistero. […]… è anch’egli una Presenza esoterica, un Fantasma romano rinchiuso in un Cerchio di Devastazione.”

Quando ricompare Dodo, affetto da pedofilia, specie nei confronti delle due sorelline Matilde e Dorina, non ci è difficile ricordare che tra lui e Migliore ci sono stati già alcuni contatti al momento dell’incidente a Romolo Carpi, l’uomo che ha avuta la gamba tranciata dal tram. Se si pensi, poi, all’incontro al museo tra Dodo e il guardiano Tambolo, e a Baldini che parla di Tambolo come se fosse stato lui ad incontrarlo al museo, il collegamento tra i tre personaggi al timone del romanzo è presto fatto, come se fossero osservatori diversi ma riconducibili ad una medesima entità. E anche i passeggeri fugaci di questa mastodontica nave, che sono comparsi qua è là, di nuovo si fanno intorno ai protagonisti in un quadro d’insieme che è sempre più difficile scindere: Eulalia, ad esempio, Aurelio, Fregoli e la sua lanterna magica, Tommaso, Ginepra, Ubaldo degli Ubaldi, Alonso Barrulho, il Professor Bologna, il fratellino handicappato Elio, Valentina, la grancevola parlante, Tambolo.

La scritta in latino rinvenuta nell’astuccio fa correre grossi pericoli a Baldini, che viene catturato e torturato da Du Xiang, che gli stava dando la caccia. In realtà, Du Xiang credeva che quel foglietto nascondesse ben altro segreto, perciò Baldini viene lasciato libero. Che non nasconda, invece, quella scritta, la chiave per aprire la Porta Magica? Colombati non fa nulla per rendere il suo codice di scrittura accessibile. Pare che voglia suggerire anche qui la necessità di rinvenire tra il rigoglio delle parole, quelle in grado di spalancare, come la scritta in latino, la Porta Magica. Leggete il superbo quanto immaginifico episodio 23, allorché (siamo indietreggiati al 1787) “il signor Horace-Bénédict de Saussure” osserva dal Monte Bianco nientemeno che l’Europa. È un momento in cui la creatività dell’autore ha quell’impennata dalla quale si avverte che il mondo tracciato dalle parole sta diventando qualcosa di aereo, d’impalpabile, altro da ciò che appare, e questo nonostante che il suo sguardo riesca a penetrare nel Nostitztheater di Praga dove Mozart dirige il “Don Giovanni”, alla presenza della crema della città e di un celebre libertino, Casanova: “C’è anche uno sconosciuto signore che nell’accavallare le gambe mostra, con una civetteria davvero sconveniente per la sua non più giovane età, le luccicanti fibbie di strass delle sue giarrettiere, sulle calze di seta nera.” Andando ancora a ritroso, al maggio del 1772, incontriamo il Marchese de Sade che fa visita al bordello di Perceber. È sempre l’osservatore salito sul Monte Bianco che scruta l’orizzonte, e il suo occhio, dunque, si sposta mobilmente sia nello spazio che nel tempo. Non è un caso che si soffermi a Perceber. Qui hanno avuto inizio in un tempo ancora più lontano molti degli avvenimenti che si ripercuotono sui nostri protagonisti. Si apprende di un’altra particolarità di Perceber. La rivela Ubaldo degli Ubaldi allo zio Anselmo: “La verità era che da Perceber non si riusciva ad evadere: come avrai notato, i nativi non riescono a oltrepassare le Porte della città…” Ma non è finita qui: a Perceber non si usano i numeri arabi, ma quelli romani. Non si conosce lo zero.

Ubaldo degli Ubaldi narra ad Anselmo anche la storia dell’ermafrodito albino (che ricorda un film di Fellini, “Fellini-Satyricon”, del 1969), sul quale Baldini si domanderà: “L’ermafrodita dentro la sua cella è il Nulla che si mostra per un istante soltanto, prima di scomparire?”; e quella del giudice Benjamin Morhoni, un americano che aveva vissuto il crollo di Wall Street del 1929, e che era sparito con un amico, Stan Poulderville, in direzione del deserto. Qualche tempo dopo erano stati rinvenuti “due teschi e qualche osso spazzato dal vento.” Ma qualcuno “si ostinò nel credere che Bejamin Mohroni continuasse a vivere, scomposto nella materia, in un mare di germogli secchi.” In realtà, dopo un viaggio caotico, Bejamin è giunto da solo a Perceber, dove – sono già trascorsi alcuni anni – incontra anche l’amico Stan “con l’orlo dei calzoni roso dal sale.” A Perceber ha conosciuto Alonso Barruhlo. È Alonso che, non visto, assiste all’incontro presso il porto dei due vecchi amici e alla loro morte, giacché nel momento che si riconoscono i loro corpi cessano di parlare, di pensare e di vivere, mentre “i marinai li sfioravano e li passavano da parte a parte senza accorgersi della loro presenza”.

Quando Anselmo fa ritorno a Roma porta con sé ciò che ha ricevuto in dono da Ubaldo degli Ubaldi, morto “riverso sulla sua macchina da proiezione, mentre sullo schermo migliaia di graffi sottili come capelli sfarfallavano su uno sfondo scandalosamente bianco”: un libro antico che porta la data del 1355, la data, ossia, di quando venne acquistato per “due scellini” da “un francese di nome Flanel”, e sulla cui ultima pagina Alonso ha lasciato scritto il suo testamento spirituale, datato 12 febbraio 1936: racconta che si è librato nel cielo “fino a giungere al sole. Ci sono montato sopra con un balzo, mi sono messo comodo con le gambe penzoloni, e vi ho guardato. Senza vedervi. Non c’era nemmeno il mio povero corpo, accovacciato davanti al mare ad ammirare l’alba. Nulla mi è parso esserci davvero. Così ho capito che tutto ciò che mi circonda, adesso, non ha un nome: è un nome, solo il sostantivo che gli attribuisce la nostra lingua, la profondità che gli dà il nostro occhio. Mentre non esiste niente, nemmeno noi, neanche le parole.” Ci si domanda se non sia questa la rotta definitiva del galeone su cui viaggiano i nostri personaggi, se non sia stata Perceber stessa ad indicarla, ossia, dopo che la realtà è stata assorbita dalla parola, ecco che anche la parola, così presente ed invasiva nella cittadina della Murcia, non solo si trasforma in silenzio negli ultimi cinque giorni di vita di Alonso, ma il suo destino è l’annullamento, la scomparsa persino del suo esserci stata. Parlando di Perceber, Migliore lo definisce il luogo “dove il silenzio, così come il bianco e lo zero, erano il simbolo del vuoto e se anche un solo atomo di questo nulla si fosse manifestato avrebbe attratto a sé tutta la materia come un potentissimo buco nero.”

Questo romanzo si rivela una vera e propria Summa, tanto numerosi sono i riferimenti densi ciascuno di un proprio significato. Tuttavia, la rotta principale è ormai segnata. Ci si dirige verso un orizzonte dietro il quale, viste e attraversate le innumerevoli presenze della realtà, ci attende il buco nero del nulla. Dirà Baldini: “L’intuizione di Barruhlo era giusta, in fondo. Basta osservare il mondo con un’attenzione appena appena più sostenuta e il mondo silenziosamente si sfila, e non rimane più niente.”

Migliore e Baldini s’incontrano. Migliore sta facendo un servizio sull’incidente di via Trastevere, che è costata la gamba a Romolo Carpi. Ha intervistato già molti testimoni. Ora è il turno di Baldini. Mentre parlano, camminano per Roma. La città viene di nuovo messa a fuoco con le sue ambiguità, ma ciò che interessa è che ad un certo punto, e per la prima volta in vita sua, Migliore dichiara la propria omosessualità (“Sono un omosessuale ebreo”) proprio a Baldini, ossia a un personaggio che riflette, e forse riassume (Baldini appare come il più significativo dei tre protagonisti) una parte di sé. È, infatti, Baldini a fargli notare, alla fine di un complicato ragionamento: “E se uno è uguale a due, allora io e lei, che a suo dire abbiamo due opinioni diverse, la pensiamo, come io credo, proprio allo stesso modo.”

Migliore deve incontrare, ora, Luigi Dodo, sempre per quell’inchiesta. Fissa un appuntamento. Siamo arrivati all’episodio 31, in cui Dodo, prima di incontrare Migliore, si guarda allo specchio, e pensa alla piccola Valentina, la figlia di Demetra, verso la quale sente di avere un’attrazione erotica, che va a sostituire quella che nutriva per una delle due gemelline, Dorina. Si pensi che, nell’episodio 6, è Migliore, subito dopo l’incidente a Romolo Carpi, a notare e ad osservare Valentina, supponendola addirittura sua figlia (si veda, a questo proposito l’episodio 31, in cui Dorina e Valentina diventano infine la stessa persona, e l’episodio 34). Questa messa a fuoco di Dodo – che comunque aveva, come Migliore, assistito all’incidente – su Valentina, in luogo di Migliore, mostra, se ce ne fosse ancora bisogno, l’interscambiabilità dei tre protagonisti maggiori del romanzo. Non v’è dubbio che Colombati aspira a ricondurre ad una sola le numerose personalità (quindi, non solo quelle dei personaggi principali) che compaiono nel romanzo, come se provenissero da uno stesso pensiero che si interpreta, si analizza, si confessa, e con ciò ritrova in se stesso, dentro una specie di agorafobia indotta da una temporalità e da una spazialità che tendono all’infinito, le ragioni del proprio esistere, e il desiderio del proprio annientamento.

La ricerca che lo zio di Migliore, il Professor Bologna, fa sui libri antichi, intorno ad un probabile segreto che sta racchiuso nell’Universo e che i sapienti hanno tramandato nascosto tra le parole, non fa che dare al romanzo il segno di un viaggio inscritto nelle ragioni stesse della Creazione, e, pertanto, intriso di quel mistero che sposta sempre più in avanti l’orizzonte del suo compimento. Un viaggio che non ha fine, dunque, una rinascita che è solo possibile, forse, attraversando il Nulla.

“Rio” (2007)

Rizzoli, pagg. 359. Euro 17

Dopo “Perceber” (Sironi, 2005), ecco uscire da Rizzoli nel 2007 questo “Rio” che ancora una volta, come il precedente, divide la critica su due fronti diametralmente opposti. Chi lodò ieri la struttura innovativa e complessa di “Perceber”, oggi grida che “Rio” ha abbandonato quel percorso per affrontarne uno più legato alla tradizione e, tutto sommato, semplicistico. Gli altri dicono il contrario.

Il 2 marzo 2007, a pochi giorni dall’uscita del nuovo romanzo, che andrà nelle librerie il 7 marzo, Colombati confessava, con un lungo articolo pubblicato sulla rivista web “vibrisse”, curata dallo scrittore Giulio Mozzi, la sua spasmodica attesa e i suoi timori: “Dalle nove di questa mattina ho trascorso il mio tempo nell’attesa che arrivasse un corriere espresso. Finalmente, cinque minuti fa, la busta che aspettavo è planata sulla mia scrivania. Dentro c’è la copia-pilota del mio nuovo romanzo. Un romanzo che finalmente è un libro. Me lo rigiro tra le mani, lo sfoglio, lo richiudo, riprendo a guardarlo. Mi pare un bellissimo oggetto.

Ricordo l’emozione di quando vidi per la prima volta Perceber, la mia “opera prima”. Era il 5 maggio 2005. Pensavo che ormai questo momento (il momento in cui la “cosa” prende la sua forma definitiva) non mi avrebbe fatto più la stessa impressione. Sbagliavo. È come due anni fa.

È anche un momento triste. Se è vera la frusta metafora che i propri libri sono come dei figli, so che anche questo secondogenito non potrò “frequentarlo”. Ho vissuto “incinto” di Rio – per dirla con Henry Miller -, l’ho partorito e devo subito abbandonarlo. Non lo leggerò mai più.

Adesso comincia il momento del Terrore: che diranno? in quanti lo compreranno? chi sarà il primo a dire che mi sono svenduto sull’altare della grande editoria? saprò gestire il successo? e l’insuccesso? mi sarà data una terza opportunità?

Ma soprattutto: sarò in grado di scrivere ancora? Questa è la vera domanda. Perché la verità è che il primo libro, mi ha divertito farlo; era un fatto privato, un dopolavoro. Ma questo no, nessun divertimento – solo tanta fatica, e ansia, e dubbi, e troppe sigarette, troppi malditesta…

Scrive Milan Kundera: “La gloria degli artisti è la più mostruosa di tutte, perché implica l’idea di immortalità. Ed è una trappola diabolica, poiché la pretesa grottescamente megalomane di sopravvivere alla propria morte è indissolubilmente legata alla probità dell’artista. Ogni romanzo creato con vera passione aspira in maniera del tutto naturale al valore estetico duraturo, cioè al valore in grado di sopravvivere al suo autore. Scrivere senza ambizione è puro cinismo. (…) È la maledizione del romanziere: la sua onestà è legata al palo infame della sua megalomania”.

Anche stavolta, così come mi era successo con Perceber, sono notti che non dormo. Sogno ad occhi aperti il più clamoroso dei trionfi oppure il più sonoro dei fiaschi. La vanità – così presente in me, come (credo) in ognuno che esponga una sua opera al pubblico giudizio – la vanità, dicevo, è un vestito così scomodo da indossare! La sua stoffa è fatta anche di invidia, di risentimenti, e di una irrefrenabile paura.

La mia – ricorrente – è quella di essermi perso. Sono ancora la stessa persona di due anni fa? Se rispondo di sì, qualcosa, da qualche parte, inizia a far male – e penso ad esempio a certe vecchie amicizie che ho un po’ troppo sacrificato a vantaggio di quelle nuove (più à la page, più “da scrittore”). E poi com’è che non riesco più a leggere un romanzo di un autore italiano contemporaneo? Li trovo tutti orribili, tutti “inferiori”; e quando mi capita di riconoscerne uno buono, lo chiudo subito, per paura di scoprire di non essere io poi tutta ‘sta gran cosa.

Scusatemi, davvero, voi che state leggendo e vi domanderete perchè io sia qui ad importunarvi con questa specie di diario privato esposto con superbia al pubblico. Ma vibrisse è anche un po’ casa mia, e mi sembra di rivolgermi (oltre che a qualche amico vero) a persone in qualche modo conosciute, anche se in realtà sono solo nomi – e pseudonimi – che ciclicamente ritornano: mi sembrano così familiari…

Ieri passeggiavo in centro, a Roma. Dovevo andare a un appuntamento. All’improvviso mi sono reso conto che tutto ciò che il mio occhio e il mio orecchio stavano registrando veniva immagazzinato da quella parte del cervello in cui le sinapsi fanno andare in corto circuito vanità e creatività: stavo osservando il mondo come se fosse un buon soggetto di cui scrivere.

In futuro, questa strana e fastidiosa mediazione tra l’esterno e l’interno si farà sempre più presente? È così che succede? Ma io non voglio! Ho bisogno di riposare; di godermi lo spettacolo e non di metterlo incessantemente in scena.

Adesso basta. Chiudo il computer, prendo il cappotto e vado a casa per mostrare a mia moglie quant’è bello il mio secondo libro. Un po’ come si fa con un orologio nuovo.”

Non aveva tutti i torti, visti gli articoli che sono subito piovuti sul suo romanzo, a favore e contro. Questi ultimi soprattutto sono stati duri e ingenerosi.

Una bella scrittura ci introduce nella storia presentandoci il protagonista principale, che è lo stesso narratore, “rampollo di una famiglia di palazzinari arricchiti”, il quale si è recato a Londra per fare pratica presso uno dei più importanti studi legali del Regno Unito, il “Norton Rose in Camomile Street.” Frequenta un locale per nudisti molto famoso, il “Rio Center” appunto, da cui il titolo del romanzo, “aperto da mezzanotte all’alba”. Il Centro offre ogni confort, a partire dal bar, dove a servire i clienti c’è una biondina niente male rigorosamente nuda, alle saune, al bagno turco, alle vasche idromassaggio dove si vive una promiscuità curiosa e pettegola tra uomini e donne, quasi tutti di una certa età. È il primo quadro di insieme che incontriamo, importante perché ci offre un frammento interpretativo del romanzo. Un po’ come avviene ne “L’immortalità” di Milan Kundera, con quella scena iniziale dell’anziana donna che esce dalla piscina, la cui visione accompagnerà e impronterà di sé il romanzo. Colombati, in una Londra scelta molto probabilmente, oltre che per la sua storia e per il suo dinamismo, per l’indubbio fascino rievocativo che reca con sé (“una città che ha una gran voglia di essere un villaggio.”), ci ha condotto lì a fissare con lui, attraverso gli occhi del suo personaggio, una specie di vanità appassita e decadente che avvolge e s’insinua nell’uomo dei nostri tempi, senza che questi abbia “la benché minima percezione del disastro”: “quella fauna, appunto, è variamente brutta.” Non è difficile rintracciarvi i tratti moderni di un dandismo alla Oscar Wilde, che qui si avvertono ancora di più marcati da un vuoto e da uno scetticismo che si sono fatti universali: “cosa dobbiamo fare, dunque, della nostra vita? Qual è il nostro destino su questa Terra?”

Filippo Runeberg è il nome dell’anziano scrittore che incontra nella vasca idromassaggio, tanto famoso che “per qualche tempo usò le banconote come segnalibro.” Corpulento, bizzarro e dandy, incline alle donne e all’alcool, “A chi lo incontrava per strada poteva sembrare un gigante che percorreva la terra pieno di antica maestà.” È la grande occasione che il protagonista cercava: emergere, diventare famoso: non un avvocaticchio, dunque, anche se era considerato una promessa, ma un personaggio di successo. Ora, Runeberg, se fosse riuscito a farselo amico, lo avrebbe potuto aiutare. Così decide di spacciarsi anche lui per uno scrittore, ancora però alle prime armi. Colombati punteggia la sua scrittura di riferimenti culturali che qualche critico ha interpretato come uno sfoggio di erudizione non proprio necessario. Se ricordate, uno sfoggio simile era già presente nella sua prima opera, “Perceber”, ma qui ha un compito, a mio avviso, più pregnante; infatti, contribuisce a disegnare l’ambiente in cui si muove la storia. Ne è elemento fondante, costitutivo, imprescindibile. Sono proprio i ricorrenti riferimenti culturali che mantengono intatta quell’atmosfera di dandismo alla Oscar Wilde che ho ricordato più sopra. Essi si trasformano, alla fine, in ricami molto appariscenti che taluni personaggi si portano addosso a corredo di un abito che deve esprimere assai di più del tessuto e dei colori che lo compongono. Runeberg, ad esempio, “gaudente globetrotter dell’italianità più chic”, sarebbe un personaggio spento se su di lui e intorno a lui la scrittura creatrice non imbastisse i suoi ricami culturali.

Diametralmente opposto, dotato di un ruvido dinamismo, anche lui alto e massiccio con un grosso sigaro perennemente in bocca, è, invece, Mr. Muss, l’amministratore delegato della Colson Group plc, dove il protagonista si trova a lavorare, per intercessione del ricco padre, dopo l’anno di tirocinio nello studio legale Norton Rose. Preso a ben volere, gli vengono promessi, a soli ventisei anni di età, mare e monti purché si aggiudichi l’appalto di una grossa commessa Enel. Allo scopo, gli sarà aperto un ufficio a Roma, di cui sarà il responsabile, e avrà carta bianca.

Nello scorrere il filo della memoria (sono trascorsi dieci anni dalla sua permanenza a Londra, ora è sposato e ha un figlio di tre anni, fa il costruttore edile, avendo preso il posto dell’anziano e malato genitore), il protagonista apre squarci della sua vita in cui l’autore sembra applicare uno stile più affabulatorio e sovente perfino brioso, come è il caso dell’episodio che riguarda il padre disturbato nella sua sessualità dagli impulsi del telecomando del vicino di casa, tale da confermarci nella prima sensazione ricevuta, che ci troviamo, ossia, davanti ad un testo aperto, la cui sola regola evidente è quella di assecondare i flussi della memoria. Si veda anche la storia del brigantino Amazon narrata dal vecchio capitano irlandese Kilkenny. O il ricordo delle vacanze trascorse a Forte dei Marmi, a quel tempo frequentata da nomi altisonanti della cultura, della finanza, dell’industria e della nobiltà. O il ritratto di quella specie di cantante che si esibisce con la sua orchestrina in Leicester Square, con il nome di Lord Cornelius Plum. Le riflessioni, le argomentazioni che il protagonista fa di volta in volta (“Posso dire di essere un uomo per tutte le mezze stagioni.”) non sono altro, dunque, che il risultato della memoria lontana che, sgravatasi dei segni del tempo trascorso, si è rivestita con i colori grigi (“La pace è quando non c’è la guerra. Ma quando qualcuno muove guerra contro di te, che tu risponda o no, la pace non c’è più.”) e con gli enigmi del tempo presente: “NON SO PERCHÉ ULTIMAMENTE io trascorra parecchie ore del mio tempo a riaprire l’album dove ho conservato le istantanee dei miei due anni londinesi: il mio presunto Momento di Gloria.” E più avanti: “come se il passato potesse esistere solo nel ricordo e venisse modificato incessantemente nel presente con un atto di memoria.”

Tutte quelle istantanee ruotano intorno alla figura centrale di Filippo Runeberg, il grande scrittore, di padre italiano (Rendine di cognome) e di madre svedese (appunto Runeberg): “Ci sono stati giorni in cui ogni cosa vista, letta, fiutata o ricordata s’intrecciava a Runeberg nella mia immaginazione.” La Londra, infatti, che acquista a poco a poco una dimensione pervicace e inquietante non è la Londra delle strade e dei palazzi, ma quella che si nutre delle luci e delle ombre che emanano da Runeberg e da ciò che ruota attorno a lui. Runeberg, “l’esponente più autorevole della sinistra culturale revisionista, l’uomo che secondo i duri e puri aveva barattato il sol dell’avvenire con le più fulgide luci della ribalta.”, diventa il sottile e ispirato modello in compagnia del quale il protagonista senza nome espelle una specie di complesso edipico trasformandolo in una esotica e lussuriosa avventura, nella quale il mondo di Runeberg ha gran parte (si pensi all’amore breve e sensuale tra la nipote di questi, l’estroversa Lea, e il protagonista): “avevo capito che ero lì al Rio Center per confondere tutte quelle imperfette nudità femminili con le troie che mio padre s’era scopato per odio verso mia madre, e dunque verso di me.” Di Runeberg, ad un certo punto il protagonista scrive: “quell’uomo era privo d’inconscio; sarebbe risultato refrattario a qualunque trattamento psicoanalitico. Com’era possibile? Come diavolo ci era riuscito?”

Il romanzo si rivela, perciò, sempre di più come un universo in cui l’esperienza londinese si traduce in una summa di narrazioni che si portano dietro i fantasmi di un passato e di una condizione interiore che ancora non riescono a liberarsi, e, forse, non sono ancora liberati nel momento in cui il protagonista tenta per l’ultima volta di affrancarsene mettendo sulla carta i frammenti di una memoria plasmata ormai irrimediabilmente dall’insoddisfazione e dall’inquietudine. La stessa malcelata insofferenza nei confronti delle chiacchiere salottiere dei soliti intellettuali che passano il tempo a nascondere dietro le parole una inconsistenza pericolosa, è il risvolto psicologico di una formazione difficile, zeppa di contraddizioni e di incertezze.

Di uno scrittorucolo arrogante che si confronta in una trasmissione televisiva con Runeberg, dice: “Credeva di essere scandaloso: non capiva che le sue provocazioni erano conformismi della più bell’acqua.”

Al contrario, Richard Muss, il capo del colosso Colson presso cui il protagonista lavora, rappresenta il riferimento antagonista, meno romantico e più concreto: “L’uomo che – si mormorava – a dieci anni faceva i compiti in classe di tutti i compagni per dieci centesimi l’uno.” Un vero e proprio pescecane, compra aziende su aziende in una diversificazione dei campi di intervento che ne fa un manager invidiato, un americano a Londra che vuole prendersi la sua rivincita su quel “complesso d’inferiorità” che ogni americano patisce nei confronti dell’Europa. Muss nutre della simpatia per il nostro, e lo fa assistere qualche volta a discussioni e a trattative d’affari importanti. Una simpatia ricambiata largamente: “Amavo quell’uomo. Aveva cinquantasei anni, ma lo stress e la cattiva alimentazione lo facevano sembrare prossimo ai settanta.”

E subito dopo: “Se mi avesse chiesto di troncare la mia relazione con Lea e di prendere Filippo Runeberg a calci nel culo, lo avrei fatto.”

Il romanzo fa delle figure maschili gli indicatori delle incertezze ed oscillazioni che fanno capo al processo di maturazione del protagonista. Le donne, invece, sono lampi fugaci in cui si riversano e si bruciano solo piccole molecole destinate a soccombere in una lotta aspra di sopravvivenza. Racconta il protagonista: “eccomi seduto davanti a un tavolo su cui ho disposto le fotografie di mio padre, di Mr. Muss e di Filippo Runeberg”.

In particolare Runeberg viene anche ad assumere sempre di più un significato che supera la sua stessa figura di personaggio, divenendo a poco a poco uno strumento di cui si serve il protagonista per attraversare percorsi dialettici che spaziano su molti campi, dalla guerra, alla politica, alla letteratura, all’alta borghesia, al carrierismo, al compromesso, all’ipocrisia, fino a svelarci che una cugina di Runeberg, Else, “ballerina e coreografa”, “nella primavera del 1943 sposerà un promettente regista teatrale che aveva incontrato durante la tournée organizzata per La morte di Kaspar. I due piccioncini si stabilirono in un delizioso appartamento ad Abrahamsberg, ma lui fuggì appena una settimana dopo le nozze, per poi tornare in tempo per il Natale e ingravidare la moglie: nel ’44 nascerà una bimba di nome Lena, ma quello stesso anno ci sarà anche il divorzio, a causa di un’altra ballerina, Ellen Lundstrom, che si era accaparrata il giovane talento. Fu così che Else smise il cognome di un marito buono per una sola stagione: e il cognome era Bergman – il nome è inutile farlo.” Anche Ellen non ebbe miglior sorte, giacché sappiamo che Ingmar Bergman nel 1951 inizierà una relazione con la giornalista Gun Hagberg che diverrà successivamente sua moglie. Non sarà l’ultima, tuttavia.

C’è un quarto uomo che si inserisce, comparendo fugacemente, ma non a caso, Jim Baker, “cinquantaduenne occhialuta leggenda”, che aveva inventato un cavo in fibra ottica in grado di sbaragliare la concorrenza. Questo geniaccio conduce una vita semplice, perfino in azienda ha a disposizione una stanza assai umile: “Mi veniva mostrata, in quello stanzino a vetri, la possibilità di essere felice senza soldi, senza potere, senza gloria: un fatto assolutamente nuovo e straordinario per me.”

La realtà si presenta, quindi, con il solito ghigno di sfida che ti aspetta al varco, pronta a giustificarsi davanti ai tuoi personalissimi errori, beffarda e cinica nella sua certezza di avere sempre una risposta affilata come una lama. Il protagonista del romanzo non può che essere, così, l’unico responsabile di se stesso e del suo destino. Poiché tutto gli è possibile, poiché tutto gli è apparecchiato innanzi, la scelta può risultare anche un atto irreversibile e definitivo, in cui rintracciare “il germe della mia nullità”.

Un po’ come accade quando, a Roma per i funerali di Runeberg, rivede la sua ex fidanzata Klaudia (che poi sposerà, non a caso): allorché si lasciano dopo un incontro vuoto, deludente, nel mentre la vede scomparire “dietro a un portone, scoprii che la distruzione s’era già impossessata di varie parti del suo viso.” In realtà, è per se stesso che il protagonista ha timore. La marcescenza insita nella grandezza e nel dandismo impertinente di Runeberg, lo ha irrimediabilmente contagiato ed il suo sguardo porta all’esterno, ormai, i riflessi contradditori e spaventosi di una malattia che nient’altro è che la propria lenta e già consapevole consunzione: “Ero attratto dal peggio delle cose e delle persone, spinto da un evidente desiderio di non essere più vivo.” Guardandosi allo specchio, scopre che il suo volto “disidratato era quello di un uomo di dieci anni più vecchio”. Lo stesso gli accade di vedere nei lineamenti di Lea: “una donna che sembrava invecchiata di vent’anni”.

Ora permettetemi una divagazione. Quando si arriva a pagina 250, al termine della terza parte del romanzo, che è diviso in quattro parti più l’epilogo, si cita il paese del Galles che ha il nome più lungo del mondo. Ebbene, mi ha sorpreso la singolare coincidenza che, contrariamente a quanto avevo fatto ultimamente per altri libri, per questo di Colombati, senza che ne sapessi niente, ho usato il segnalibro di pelle che acquistai proprio in quel piccolo paese, di circa 2.500 abitanti, visitato una ventina di anni fa, e che reca impresso a caratteri dorati quel nome lunghissimo, una specie di curioso scioglilingua inventato nel XIX secolo per attrarre i turisti. Ricordo il cavalcaferrrovia, su cui salii con mia moglie e i miei figli, la piccola piazzetta con i negozi, e a destra, guardando la ferrovia, la grande insegna che porta scritto il lungo nome del paese, con sotto la traduzione in inglese.

Dunque, tornando al romanzo, Colombati vi narra la storia di una consunzione, e più ancora la storia di una decomposizione, in qualche modo alla maniera di ciò che accade nel capolavoro di Oscar Wilde, “Il ritratto di Dorian Gray”. Ciò che al principio del suo viaggio a Londra appare al protagonista come la vigorosa pulsione di una vita in crescita che lo attende con la promessa di una liberazione dall’insopportabile peso di un padre odiato e dispotico, a poco a poco si rivela come il germe marcescente in forza del quale tutto si corrompe, a partire dagli stessi genitori, dalle sue ex, dal suo idolo Runeberg e da tutto il mondo che gira attorno non solo a quest’ultimo, bensì anche all’ormai contagiato protagonista che, incontrata al Rio Center una delle amanti di Runeberg, Mrs Rebecca Hillier, la vede dileguarsi “verso il bagno turco e presto non riuscii più a distinguerla dall’ammasso di carne in più o meno avanzati stati di decomposizione che straripava dalla sala delle vasche.” Rebecca gli dirà più avanti, a proposito del Rio Center: “Qui dentro mi sento sicura perché non c’è alcuna idea. Soltanto carne. Esiste solo il presente.” Sono da poco tornati entrambi dal piano di sopra, dove la donna gli ha mostrato il segreto di quel locale, dove Runeberg è morto: una specie di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini, e forse qualcosa di più: un “nirvana che voglia farci perdere in un grande Tutto.”, “come se quella disordinata teoria di corpi che si allacciavano e si scioglievano in un ordine apparentemente casuale andasse a comporre un quadro che, se fosse stato possibile ammirare con un solo colpo d’occhio, avrebbe esaurito una volta per tutte le intere possibilità del desiderio e della disperazione umani.”

Sembra quasi di assistere, in quest’ultima parte, ad una dissoluzione liberatoria attraverso un percorso che, con toni meno violenti e fulminanti, si accende dei colori visionari di un Rimbaud che si trovi a rivivere la sua “Stagione all’Inferno”. La sfera, quasi un Satana dantesco, che Rebecca mostra al protagonista, finisce per essere il nostro presente mostruoso, che è e resterà anche il nostro passato.

Tutto ciò accadeva dieci anni prima. Splendori e miserie, illusioni e sconfitte (“Cosa mi ha dato l’illusione di essere così diverso da lui?” dirà, pensando al padre) restano impresse nella memoria, che è e sarà per ogni uomo (e non solo per il protagonista) il prezioso e segreto strumento rivelatore della reale natura della nostra vita, la quale ci da ad intendere di disegnare per ciascuno di noi un percorso rettilineo che ci spinge sempre in avanti, proprio mentre perfidamente ci conduce per mano a disegnare una circonferenza che ci riporta immancabilmente al nostro principio: “Si è chiuso il cerchio, direi. Sono come mio padre.”


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Bart