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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Compagnone, Luigi

7 Novembre 2007

Città di mare con abitanti

“Città di mare con abitanti”

Avagliano Editore, pagg. 198. Euro 8,26

Nei ritratti di una città complessa e variopinta come Napoli si alternano visioni reali a quelle immaginifiche, se non addirittura surreali, che costituiscono il nucleo principale della raccolta e valgono forse di più delle prime, essendo il risultato di un pensiero che deve penetrare e capire oltre l’apparenza “nel tentativo di appurare se e in quale misura noi possiamo nutrirci delle sue vene per tradurre la sua ombra”. Una specie di forza centrifuga che si forma e agisce nel momento in cui si osserva la vita quale appare. Non è un caso che spesso nei racconti è stando affacciati a una finestra con i “gomiti sul davanzale” e “il viso incorniciato tra le mani” che si snodano i pensieri sulla realtà. Come pure è il sogno che spesso fa da filtro per leggere e capire. Non c’è una Napoli oleografica, lucida di stampa, dunque, ma una città che vive dentro i suoi abitanti (di lei vediamo solo una anodina Piazza Grande e il Caffè delle Rose).

È questa simbiosi che l’autore vuole sorprendere e svelare: “Ahi, tutta questa scena è così falsa da essere vera”. Con tale intento nascono “La ripresa” o “Il mostro” o certe frasi de “La strada”. Sono ritratti ed episodi minimi, alcuni dei quali densi di significato e suggestivi come “La pioggia”, “Il fantasma”, “La triglia”, “La museruola”, “Il panino” (certamente questi tra i migliori, insieme con altri che seguiranno); intessuti di ironia e di paradossi come “La pistola”, “Il salotto”, “L’incendiario”, “Le anime morte”, “Il defunto” e così via; altri arricchiti di un nonsenso che apre squarci insondabili come “Le facce”, “Il testamento”, “La sparatoria”, “L’anestesia”, “Il gelato”. Sono i primi esempi che incontriamo, ma il passo resta sempre il medesimo e i personaggi cambiano nome ma sono diventati ormai il prodotto omogeneo di un humus abituato a dare gli stessi frutti ripetuti nel tempo. L’eccessiva frammentarietà, però, delle storie, che sono il risultato indubbiamente di spunti via via garantiti da un’osservazione attenta, arguta e raffinata, nel momento in cui, così numerose, sono raccolte in un volume, rischia di nuocere alla visione d’insieme e anche di confondere, sebbene con il cantastorie cieco Antonio Calabra si cerchi di dare ad esse una qualche congiunzione: e alcuni racconti hanno infatti il ritmo di una ballata, di un canto, come “Serenamente”, “La grossa Yvonne”, “La vista del male”. Mentre si apprezza quasi sempre, infatti, il singolo racconto, alcuni dei quali notevoli (da segnalare, fulminante per brevità, ma tra i più belli: “Antoí±ito el Granadino”, come pure “L’idillio”, “Gli sposi”, “Il cappotto”, “La visita”, “Il principe” e altri già citati, ma su tutti, forse “La sfera”, che vale da sola il libro, e fa rimpiangere che non si sia pervenuti ad una selezione più accorta), la presenza di certe cadute, come ad esempio ne “I re”, “La sfida”, “Le agnizioni”, “I miraggi”, “Teatrino”, “La carica”, induce a pensare ad una confusa miscellanea che stenta a far riconoscere al lettore un punto di raccordo valido a dare un significato evidente ed univoco alla raccolta. Si tratta, comunque, di una originale e raffinata lettura di Napoli, “ridente cittadina”, che qui appare meno invadente, più riservata e soprattutto surreale, che è la novità più ragguardevole del libro. Se vogliamo, è la stessa lettura fattane da Giuseppe Marotta, ma con strumenti narrativi agli antipodi, che si avvalgono, nel caso di Compagnone, di sensitivi filtri avvezzi a setacciare nei pertugi brulicanti della realtà più nascosta e inconscia e apparentemente – solo apparentemente – inverosimile.


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Bart