Da oggi iniziano le nuove sfide9 Dicembre 2013 di Elisabetta Gualmini Renzi si è preso il Pd. Ne ha conquistato la leadership in un modo e in tempi assolutamente inusitati rispetto all’intera storia dei partiti dell’Italia repubblicana. Si tratta di un evento dirompente nell’Italia delle classi politiche inamovibili e aggrappate con le unghie alle rendite di posizione. Nell’Italia in cui nessuno va mai a casa. Basti pensare ai leader del Pci segretari a vita, ad Andreotti che era sottosegretario alla presidenza del consiglio nel 1947 e primo ministro nel 1990 (43 anni dopo!), o alla longevità politica di Berlusconi. Questa volta qualcuno ha perso. Senza ombra di dubbio. Un cambiamento simile è stato possibile solo grazie alla particolare democrazia interna che si è dato il Pd nella fase fondativa: alle primarie, in senso lato, che prima hanno consentito al “ragazzo” di emergere come sindaco di Firenze, poi di affermarsi come leader nazionale nella sfida a Bersani e infine di insediarsi alla guida del partito. Per un lungo tratto, contro tutto l’establishment interno. Il partito aperto ha aiutato Renzi e Renzi ha aiutato il partito aperto. Ha “conquistato” (nella doppia accezione) il Pd grazie all’enorme partecipazione del popolo degli elettori che ha travalicato di gran lunga il popolo degli iscritti. Gente di tutte le età pazientemente in coda ai gazebo, che vuole dire la sua, anche se ha ben poco in comune con i militanti delle sezioni e dei circoli, prevalentemente anziani. I quali, circoli, a loro volta, dimostrano quanto siano, soprattutto in alcune aree, troppo chiusi per essere rappresentativi anche solo della base elettorale più identificata. La media dell’età non sarà in linea con quella della popolazione, ma ieri si è abbassata parecchio rispetto al “primo turno”. Negli anni drammatici della sfiducia totale nella politica, di una credibilità dei partiti ormai sotto i piedi, oltre due milioni di persone si sono messe in fila per scegliere il segretario di un partito che si candida anche a governare il paese. Ma ora il punto è questo. Renzi si è preso la leadership del Pd, ma per fare cosa? Ora inizia la partita vera. Perché le resistenze saranno fortissime. Il primo scoglio lo ha posto la Corte Costituzionale con una (discutibile) sentenza che ha imposto il ritorno a un sistema elettorale puramente proporzionale (addirittura con le preferenze in circoscrizioni enormi), facendo tabula rasa di 20 anni di bipolarismo. E in parlamento sono già apparse varie tentazioni di approfittarne, assecondate dall’incapacità dei partiti dopo anni e anni di cambiare la legge elettorale. Ora ne va del destino del nostro paese, nel caso in cui rimanesse un sistema proporzionale, saremmo condannati alla ingovernabilità. Renzi che da oggi è a capo del partito più grande in Italia e del partito più forte nel governo non può aspettare nemmeno un giorno. L’unica soluzione, più che spostare la discussione alla Camera, è trovare subito al Senato una maggioranza per ripristinare il sistema elettorale precedente. Quello voluto dalla quasi totalità dei molti cittadini che votarono il referendum Segni del 1993 e che in più di un milione avevano chiesto di far rivivere firmando per il referendum nel 2011 che un’altra sentenza della Corte Costituzionale ha impedito si svolgesse. Ma lo deve fare ora, subito, adesso! Prima al Senato (dove il Pd non ha la maggioranza), cercando gli accordi necessari con chi ci sta e poi alla Camera (dove il testo potrebbe andare liscio). Senza traccheggiare, andando subito a segno. Questa è la prima vera partita in cui non sarà in gioco solo la sua personale traiettoria: fin qui Renzi di strada ne ha fatta, la bicicletta del partito aperto che ha trovato sembrava fatta apposta per lui. Ora ci sarà ancora parecchio da pedalare e la strada sarà in salita, ma la missione potrebbe non essere impossibile. Achille Occhetto: «D’Alema è stato nemico del Pd » C’era anche Achille Occhetto fra i quasi 3 milioni di elettori che domenica 8 dicembre hanno votato alle primarie per scegliere il nuovo segretario del Pd. «Tempo fa ho dichiarato che mi sarei trovato in grande difficoltà a votare per il leader di un partito che ritengo debba essere rifondato dalle radici », dice contattato da Lettera43.it. «HO SCELTO CIVATI MA APPREZZO RENZI ». «Dopo il dibattito fra i candidati ho visto emergere la voglia di cambiamento e l’esigenza di mettere in campo una situazione politica nuova dopo i rischi che si sono aperti a margine della sentenza della Corte Costituzionale », aggiunge l’ultimo segretario del Pci. Per questo «ho scelto Civati, che interpreta questa volontà più a sinistra rispetto a Renzi, che pure apprezzo ». DOMANDA. Crede che con Renzi il Partito democratico cambierà realmente? Legge elettorale, Brunetta: “Con Berlusconi e Renzi si fa in una settimana” Ufficializzato il leader del Partito Democratico, è ora di rimettere mano alla legge elettorale. Il capogruppo di Forza Italia alla Camera, intervistato da SkyTg24, fa notare infatti che anche Matteo Renzi vuole il bipolarismo, proprio come il Cavaliere e il leader del Movimento 5 Stelle. “Bipolarismo sarà”, conclude Brunetta, ritornando poi sulla questione degli abusivi a Montecitorio: “Questo Parlamento non esiste più, non ha più il premio di maggioranza”, ha ribadito, “Facciamo la legge e andiamo al voto il prima possibile”. E’ Napolitano il grande sconfitto delle primarie Pd: addio alle larghe intese Il grande sconfitto delle primarie del Pd è Napolitano: il 70% dei consesi a Renzi sono un colpo di grazia per il sistema che Re Giorgio ha messo su. Con Matteo Renzi segretario del Pd, non solo ha subito un epocale colpo di spugna il gruppo dirigente di Sant’Andrea delle Fratte, ma naufragano miseramente i sogni del presidente della Repubblica che con le larghe intese voleva arrivare alla fine naturale della legislatura. Il rottamatore, fa notare il Fatto, farà infatti di tutto per tenersi a distanza dal Quirinale e smarcare un partito da due anni, cioè dal novembre 2011 del governo Monti, sotto schiaffo dal capo dello Stato. Il gioco dei poteri morti – Il coccodrillo per le larghe intese di Napolitano lo ha scritto anche Colin Ward (special guest: Pippo il Patriota) su Dagospia. “La guerra tra il Principino Matteo e il vecchio Re Giorgio è inevitabile e spiega molti imbarazzi di oggi da parte dei Poteri Marci e delle loro protesi di carta stampata, combattuti tra l’esigenza di non giocarsi i favori di Napo Orso Capo e l’innata vocazione a salire sul carro del vincitore. Al gioco dei poteri morti, Re Giorgio è il vero, grande sconfitto di ieri perché il primo partito italiano non è più in mano a gente disposta a baciargli la pantofola”. In ogni caso non servirà aspettare più di tanto. Su legge elettorale e “bipolarismo”, che poi vuol dire liberarsi il prima possibile di questo governino inciucista e di Corte, si vedrà subito quanto è cazzuto il rottamatore. La prima volta dal 2007 – Sulla fiducia di mercoledì Napolitano può dormire sonni tranquilli, ma non è detto che Renzi accetterà di starsene buono fino al 2015. Su questo punto il neo segretario Pd è stato chiaro: “Il governo dura se fa le cose”. Da parte sua Napolitano, dopo una notte di riflessione, questa mattina ha telefonato al rottamatore per complimentarsi della sua vittoria alle primarie e per ricordagli “l’importante impegno che lo attende”. Un impegno davvero importante considerando che per la prima volta dal 2007 il Pd ha un segretario che non intende allinearsi ai dicktat del Colle. O almeno così dice. Travaglio: “Grillo usa il manganello con i giornalisti? Lo fanno tutti…” Un manuale su come usare “il manganello”. Marco Travaglio regala una breve guida a Beppe Grillo su come bastonare per bene i giornalisti non allineati col M5S. Marco Manetta nel suo editoriale sul Fatto Quotidiano parla delle liste di proscrizione volute dal leader dell’M5S per quanto riguarda i cronisti che “quotidianamente” parlano male dei pentastellati. Dopo gli attacchi di Beppe alla giornalista de l’Unità, Maria Novella Oppo, Travaglio si trova in una posizione scomoda: deve difendere Beppe, ma anche la sua categoria, quella dei giornalisti. Travaglio allora con un escamotage prima dfende la Oppo affermando che “i leader politici dovrebbero sempre astenersi dall’attaccare i giornalisti”, ma subito dopo comincia una sorta di “peana” per il grande leader Beppe. La tesi di Travaglio è semplice: Grillo ha ragione a lamentarsi dei giornalisti sgraditi perchhè di certo i quotidiani non sono schierati col M5S. Una tesi dunque che giustifica le “manganellate” metaforiche di Beppe ai giornalisti. Così per salvare Grillo, Travaglio sputtana i soliti nemici del Fatto. “Grillo usa il manganello contro i giornalisti? Beh e allora cosa bisogna dire di Alfano che chiedeva la testa di Sallusti, oppure dei giornalisti de L’Unità che chiedevano la testa di un cronista e hanno ottenuto quella del direttore Padellaro. La verità è che i giornali raccontano solo menzogne e bugie ed è giusto criticarli quando sbagliano”, scrive Travaglio. Poi l’affondo: “Cosa dovrei dire io che sono stato attaccato dal viceministro De Luca? La Boldrini e Letta dov’erano?”. Insomma il punto per Travaglio è chiaro se tutti “usano il manganello”, perchè non può farlo Grillo? Il peso del successo La vittoria a valanga di Matteo Renzi è una benedizione per il Pd. Appena otto mesi fa quel partito si era liquefatto nel voto sul capo dello Stato, dopo aver perso un’elezione che poteva solo vincere. Era insomma allo sbando. Il governo Letta l’ha tenuto in vita con l’ossigeno; un nuovo leader, scelto da una base elettorale ancora una volta molto ampia e con un grande distacco, può ora rimetterlo in piedi. Renzi ha cominciato a vincere quando ha perso le primarie di un anno fa, perché il disastro politico che ne è seguito ha persuaso anche i più scettici elettori del Pd che rischiare con lui è sempre meglio che perdere di sicuro con gli altri. Il voto di ieri ha così dimostrato che il Pd è scalabile, anche da un uomo nuovo che viene dalla periferia, anche senza accordi preventivi, anche senza peli sulla lingua. Si tratta di una qualità democratica di cui oggi nessun altro partito dispone, e che speriamo contagi presto il futuro centrodestra (sul Movimento di Grillo, almeno da questo punto di vista, c’è poco da sperare). Ma il successo di Renzi apre una pagina nuova anche nella storia della sinistra italiana. Se è vero infatti che il Pd aveva già avuto un segretario non ex comunista (Franceschini) e perfino un segretario ex socialista (Epifani), quello che è stato eletto ieri è il primo segretario che non è post di niente, nemmeno della Dc. È dunque l’incarnazione di una generazione X, giunta alla politica quando il Muro era già caduto e la Prima Repubblica già finita. La Bad Godesberg, che al riformismo italiano è sempre mancata sul piano dei programmi e delle idee, si è forse realizzata con un salto antropologico e una rottura genealogica. Renzi ha insomma già cambiato il Pd. Cambierà anche l’Italia, come ripetutamente promette? Qui l’esperienza impone cautela, perché l’ultimo ventennio della sinistra italiana è lastricato di grandi speranze presto fallite. Ma il vero formidabile ostacolo che dovrà affrontare è la complessità quasi disperata del rebus italiano. Per risolverlo, a partire dal tassello centrale della legge elettorale, servirà una grande capacità di alleanze e di persuasione: la chiarezza della direzione di marcia non dovrà mai trasformarsi in arroganza. E bisognerà resistere alle sirene dell’opposizione, che lo spingono ad affrettare bottini elettorali destinati a risultare poi inutili per governare. Questa, soprattutto, è la svolta cui Renzi è chiamato. Fino a ieri la sua forza è consistita nell’essere all’opposizione di tutto: del passato, della nomenklatura, dell’establishment . Da stamattina è invece il capo del maggior partito di governo, chiamato a realizzare, e presto, le cose tanto predicate. Sarà capace il sindaco di Firenze, nei due giorni alla settimana che intende passare a Roma, di trasformarsi in un uomo di governo? Per come è messo il nostro Paese, bisogna augurarselo. Brunetta: “Parlamento delegittimato, da Letta trucco per prendere tempo fino a 2015″ “Noi crediamo che politicamente, e molto probabilmente anche giuridicamente, questo Parlamento sia delegittimato, perché la Corte costituzionale ha cassato il premio di maggioranza”. Così Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati, ai microfoni di SkyTg24. “Siccome in Parlamento oggi ci sono 148 deputati figli del premio di maggioranza, che danno il supporto al governo Letta, senza questi 148, a parte Sel che è all’opposizione, ma circa 130 danno il supporto al governo Letta, fuori questi 130 del Pd a favore del governo Letta, il governo Letta non c’è più”. “Per questa ragione noi diciamo che il governo Letta deve andarsene. Non so cosa potrà dire Enrico Letta mercoledì quando chiederà la fiducia alle Camere. Su quale presupposto? Con quale maggioranza? Per fare che cosa? Con quale orizzonte temporale?”. “Cosa vuole, che questo governo, che questo Parlamento possa fare le riforme costituzionali? Possa fare il monocameralismo? Possa fare la riduzione del numero dei parlamentari? Possa ridurre, tagliare o eliminare i costi della politica? Questo Parlamento? Io credo proprio di no, penso che questo rilancio sulle riforme costituzionali di cui parlerà Letta sia un trucco per prendere tempo, per arrivare al 2015. Ma chi gli può credere? Parlerà di semestre europeo, ma che credibilità può avere Letta di fronte a un Renzi rispetto all’Europa? Ormai il padrone del suo partito, il Partito democratico, attualmente il partito di maggioranza relativa, non è né Letta né Bersani, suo dante causa, ma è Renzi, e quindi deve cambiare il governo e si deve andare alle elezioni al più presto con una nuova legge elettorale maggioritaria”. “Mi dispiace per Quagliariello che aveva brindato alla sentenza della Corte perché pensava che rimanesse un proporzionale puro, ma non sarà così”, conclude Brunetta. Napolitano fa la vittima ma pretese da Cossiga le dimissioni dal Colle «Il precipitare della grave questione costituita dai comportamenti sempre più abnormi e inquietanti del presidente della Repubblica non è che l’ultimo anello della spirale involutiva che sta stringendo il Paese ». A scrivere queste dure parole contro il Quirinale è Giorgio Napolitano, nel 1991, sulla Repubblica diretta da Eugenio Scalfari. Proprio l’attuale capo dello Stato, ora nel mirino dell’opposizione (M5S, Lega e Forza Italia) per il suo eccessivo ruolo politico (un presidenzialismo di fatto, quasi «una monarchia » per i più critici), mise sotto accusa, da leader della componente «migliorista » Pds, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, con rilievi molto simili a quelli che Napolitano oggi respinge come attacchi irresponsabili e ingiuriosi. Cossiga, il «picconatore », rispose per le rime a tutti, compresa la corrente di Napolitano, definiti «politici vegetariani » perché, chiedendo le dimissioni senza mettere la faccia sull’impeachment, non erano «né carne né pesce ». Ancora più violento l’attacco di Cossiga a Repubblica, che appoggiava la linea Pds e ospitò gli interventi di Napolitano sulle «inevitabili dimissioni » di Cossiga. Proprio in risposta all’articolo di Napolitano, Cossiga scrisse che Repubblica si dimostrava «la newsletter di una lobby politico affaristica responsabile di una pericolosa intossicazione della vita politica italiana ». Un mese dopo, come ricostruisce Marco Travaglio in Viva il Re! (Chiarelettere), Napolitano si allinea alla posizione del Pds, che prevede tre vie d’uscita dal caso Cossiga: impeachment, dimissioni, astensione del presidente della Repubblica da «interventi impropri ». Non servirà fare molto, perché Cossiga si dimetterà poco dopo, due mesi prima della scadenza naturale del settennato. Con la soddisfazione di Napolitano, candidato del Pds al Quirinale, che però toccherà a Oscar Luigi Scalfaro. Nonostante lo scontro duro sulle sue dimissioni, Cossiga manterrà un buon rapporto con Napolitano negli anni successivi. Al punto che sarà proprio lui a «raccomandare » Alfano a Napolitano come ministro della Giustizia nel 2008, come ci rivela il cossighiano Naccarato: «Nell’aprile 2008, quando Berlusconi cercava affannosamente un Guardasigilli, Alfano chiese a Cossiga di essere ricevuto. Venne, Cossiga lo ascoltò a lungo, lo studiò. E il giorno dopo chiamò Napolitano, chiedendogli il favore di ricevere Alfano, raccomandandoglielo. Gli disse anche: “Vedrai che questo giovane potrà porre fine alla leadership di Berlusconi ”. Bè, pochi giorni dopo Napolitano firmò la nomina del ministro Alfano ». Metamorfosi di un sindaco aspirante premier Dopo Togliatti, Berlinguer, D’Alema, Veltroni e Bersani gli ex comunisti hanno il loro primo segretario democristiano. Matteo Renzi, vincitore facile delle primarie, è un democristiano doc anche se ha poco a che fare col soporifero democristiano Romano Prodi, che fu solo premier col centrosinistra quando Matteo nel ’96 lo sostenne in Valdarno salvo impallinarlo, decenni più tardi, nella corsa al Quirinale. Il baby democristiano cresciuto a La Pira e boy scout ha invece tantissimo dello scoppiettante modello berlusconiano: bella presenza in tv, parlantina accattivante, battuta pronta, trascorsi alla Ruota della fortuna con Mike, copertine di Vanity Fair, comparsate con la De Filippi, comizi in movimento alla Steve Jobs e sogni marzulleschi («un giorno lascerò la politica, mi piacerebbe fare il conduttore tv »). Anche per questo Renzi è stato a lungo avversato dallo zoccolo duro diesse e dalla schizzinosa élite che dopo averlo abbattuto alle precedenti primarie ha faticato a perdonargli il pranzo di Arcore, le amicizie nei poteri forti finanziari, gli sprechi fiorentini e persino la scivolosa chiamata in correità del tesoriere della Margherita Lusi. Il disprezzo di classe, tipico di certi ambienti, s’è trasformato però in passione sfrenata non appena il partito di Repubblica l’ha sdoganato nello scontro impari coi due sfidanti carneadi. La sberla incassata con Bersani gli ha fatto capire tante cose. La più importante è che per aggiudicarsi la rivincita avrebbe dovuto strizzare meno l’occhio a destra e dire più cose di sinistra, anche estreme e giacobine. Così ha fatto. E la metamorfosi di Matteo, accompagnata dalle lotte agli sprechi e alla rottamazione di una parte delle classe dirigente, s’è compiuta consacrandolo pur in assenza di un programma economico chiaro e di una visione politica a lunga scadenza. Tutti sanno che Renzi non ha alcuna intenzione di star fermo due anni a vedere Letta e l’effetto che fa. Il pasticcio della legge elettorale gli ha stravolto i piani ma lui al voto anticipato ci punterà lo stesso. Se per farlo dovrà accordarsi con Berlusconi, amen. L’importante è il fine. Sui mezzi troverà una giustificazione qualsiasi a chi ieri s’è messo in fila sentendosi di sinistra e finalmente rappresentato. Riforma elettorale, le parole che ingannano Continuano le scosse di terremoto dopo la sentenza anti-Porcellum della Corte costituzionale. Il Parlamento è stato umiliato, la politica è tramortita. Letta sa che deve agire: il suo governo morirà se non si farà una nuova legge elettorale, ma morirà anche se questa riforma dovesse spaccare la maggioranza. Renzi aveva preso l’impegno di presentare una sua proposta dettagliata prima delle primarie: non l’ha mantenuto. Ci si accapiglia sulla Camera dalla quale avviare l’iter legislativo, ma in tutta evidenza è una questione tattica che poco ha a che vedere con la sostanza dei problemi. Grillo intanto ha aperto al Mattarellum: più che costruire un’intesa, vuole creare l’incidente per far naufragare la legislatura. E Berlusconi ora gli fa sponda: a partire dall’attacco al Capo dello Stato, anche l’opposizione di Forza Italia sta assumendo sempre più i caratteri di un’opposizione di sistema. Tanto per cominciare, non ha senso invocare il bipolarismo come se fosse possibile imporlo per legge ai cittadini. Nel febbraio scorso, a fronte di un meccanismo ultra-maggioritario (tanto da essere stato giudicato illegittimo dalla Consulta), tre partiti hanno raccolto consensi pressoché analoghi: qualcuno pensa che si possa cancellare con un tratto di penna uno di questi tre partiti o coartare la libertà degli elettori? Il bipolarismo appartiene a categorie politologiche. Il problema di una riforma elettorale utile all’Italia è un altro: dare un’impronta maggioritaria, in modo che il partito più votato sia favorito nel dar vita a un governo efficace e coerente sul piano programmatico. E, a questo punto, si deve fare un altro discorso controcorrente. Tanto più si vuole spingere il sistema verso effetti maggioritari, quanto più la selezione dei parlamentari deve essere affidata ai collegi uninominali (vedi Gran Bretagna e Francia). Se invece si decidesse di mantenere la competizione tra liste, le forzature al criterio di proporzionalità dovrebbero essere necessariamente più contenute. Non si può giocare con il voto degli elettori, come se non contenesse un vincolo per la rappresentanza. La riforma post-Porcellum non può nascere da mere convenienze dei leader pro-tempore oppure da assunti ideologici. Con il buon senso possiamo imboccare la strada del doppio turno di collegio, oppure di un sistema misto con prevalenza di seggi assegnati con l’uninominale-maggioritario, possiamo rafforzare la rappresentanza dei partiti maggiori eliminando il recupero nazionale dei resti, possiamo rendere più rigide le soglie di sbarramento. Resteremmo invece nella patologia del Porcellum, se affidassimo ancora alle coalizioni il compito di aggirare i vincoli logici e giuridici dei candidati e dei partiti. Questa è una malattia che ha sfiancato la credibilità del Parlamento e distrutto la reputazione dei partiti: le coalizioni preventive e il pacchetto-premio in seggi sono stati un’autentica truffa. I partiti si mettevano insieme prima del voto e si dividevano dopo. Così il trasformismo ha travolto tutto. Le coalizioni preventive – presentate come un potere concesso ai cittadini – erano in realtà il pretesto per introdurre un presidenzialismo di fatto. Ma ora, dopo la sentenza della Corte, va svelato l’imbroglio: chi vuole eleggere direttamente il governo e il suo capo, lo dica apertamente. Meglio il presidenzialismo vero che un sistema parlamentare stritolato. In ogni caso non c’è democrazia al mondo in cui non competono i partiti: e forse è arrivato il momento di dire che, senza i partiti, la democrazia muore (e dunque l’attuazione dell’art 49, la riforma dei regolamenti parlamentari, una nuova legge sul finanziamento pubblico sono complementari alla riforma elettorale). Cimini a La Zanzara: “Berlusconi e Ruby? Indagato perché politico. In Tribunale a Milano anche le toghe fanno sesso” Il bunga bunga al Tribunale di Milano. “Anche oggi lì si fa sesso. Come negli ospedali, succede di tutto. Sono luoghi di grande sofferenza. E nei luoghi di sofferenza quelle cose lì si fanno. Lo fanno anche i magistrati, tutti. Sono uomini e l’uomo non è di legno. Ma è normale, di che cosa vi scandalizzate?”. Parola di Frank Cimini, storico cronista di giudiziaria (il manifesto, il Mattino) andato in pensione dopo 35 anni di onorato servizio, gomito a gomito con le toghe milanesi. Intervistato da Giuseppe Cruciani e David Parenzo a La Zanzara, su Radio24, il vulcanico Frank non si è trattenuto spifferando qualche retroscena piccante sulle aule del Palazzaccio milanese e non rinunciando a un giudizio piuttosto caustico sul grande “nemico” dei magistrati meneghini, quel Silvio Berlusconi finito spesso al centro delle loro indagini per questioni di soldi e di sesso. “Processo Ruby? Un obbrobrio” – Naturalmente, al di là di condanne, prescrizioni e assoluzioni, il processo più chiacchierato, mediaticamente dirompente e non ancora concluso è quello Ruby. “Una volta ho detto a Bruti Liberati che quello di Ruby era un processo per un pelo di fica”, spiega Cimini. “Come dice un mio amico magistrato, l’80% delle inchieste contro Berlusconi sono fondate ma poi c’è un 20% di iniziative giudiziarie che dimostrano che c’è l’accanimento”, attacca l’ex cronista. “La condanna penale per Mediaset e la condanna in sede civile per Mondadori sono sacrosante – precisa – ma il processo Ruby è un obbrobrio. Se non ci fosse stato Berlusconi di mezzo, quell’indagine sulla prostituzione minorile non l’avrebbero neanche fatta”. Detto che, secondo il barbuto e scapigliato Frank, “in un Paese normale un capo di governo che fa quella telefonata in Questura deve sparire dalla vita pubblica per sempre”, “il reato penale non c’è, come non c’è quello di prostituzione minorile”. “Berlusconi ha ragione ma dice str…” – E allora, perché Berlusconi c’ha rimesso le penne politicamente, senza contare che in primo grado è stato condananto a 7 anni di carcere e interdizione perpetua dai pubblici uffici? Forse proprio perché il Cavaliere nel 1993/94 scelse di scendere in campo. “Tutti i grandi imprenditori coinvolti da Mani pulite – spiega Cimini – alla fine sono stati salvati dalle Procure, non solo da quella di Milano, a scapito dei politici. L’unico grande imprenditore italiano su cui sono stati fatti degli approfondimenti di indagine per usare un eufemismo è Berlusconi, ma perché si è messo a fare politica. Però altri che facevano politica non in prima persona, come la Fiat e De Benedetti, se la sono cavata alla grande. I loro giornali hanno appoggiato Mani pulite perché c’era un do ut des. Perché i loro editori che non erano e non sono certo editori puri, avevano degli scheletri nell’armadio su cui non si è indagato”. Ha quindi ragione, l’ex premier, quando parla di persecuzione delle toghe ai suoi danni? “Magistratura Democratica odia Berlusconi, su questo lui ha ragione – conclude l’ospite de La Zanzara -. Però su Md vicina alle Brigate Rosse Berlusconi dice delle grandissime stronzate perché non conosce la storia. La stragrande maggioranza di Magistratura democratica ai tempi del terrorismo era forcaiola. Quindi Berlusconi non sa nulla. E’ un ignorante”. Su “Dagospia il servizio diretto sull’intervista di Frank Cimini, qui. Letto 2268 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||