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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Dickens, Charles

7 Novembre 2007

Casa desolata
Tempi difficili
Grandi speranze
Il circolo Pickwick
David Copperfield
Oliver Twist

“Casa desolata”

Einaudi, pagg. 826. Euro 14,46 (Trad. Angela Negro)

È un gran dispiacere per me non aver scritto in passato le mie annotazioni sui capolavori di questo autentico maestro della narrativa, che mi affascinarono così tanto e che hanno fatto di questo straordinario artista uno dei miei preferiti, insieme a pochissimi altri, tra i quali Hardy e Zola.

Avrei oggi tanta voglia di scrivere su “Il circolo Pickwick” (1837); “Oliver Twist” (1838); “David Copperfield” (1850), ma non ho più il tempo di ripercorrere quelle letture avvincenti, che restano conservate nella parte più preziosa della mia anima.

Ma sono nel contempo felice che ancora mi restino altre sue opere significative da leggere, così da poterlo incontrare di nuovo, e oggi tocca a “Casa desolata” che Dickens cominciò a pubblicare a puntate nel 1852, e raccolse in volume l’anno successivo.

Una Londra “sporca” e avvolta da una nebbia che tutto nasconde, con le strade inzaccherate di fango fa da prologo ad una dichiarazione di Dickens che rivela da subito le sue inequivocabili intenzioni: “Mai la nebbia sarà tanto fitta, né il fango e la mota così alti da poter eguagliare lo stato di brancolamento e di confusione in cui si trova oggi al cospetto del cielo e della terra la Corte di Giustizia del Lord Cancelliere, scelleratissima e decrepita peccatrice.”

L’autore si riferisce ai molti casi di ingiustizia compiuti dalla Corte, ed in particolare ne prende di mira uno, che riguarda la causa Jarndyce contro Jarndyce, ed è subito virulento il suo atto di accusa, con un tono tanto diverso da quello che abbiamo conosciuto nei suoi capolavori già citati. La sua totale sfiducia nei meccanismi della giustizia, infatti, non è ignota ad un lettore di Dickens, giacché sin dagli esordi, nel suo romanzo che gli diede vasta notorietà: “Il circolo Pickwick”, egli a un certo punto scrive: “Non c’è magistrato in carica che, per ogni provvedimento che prende, non prenda anche due cantonate.” (traduzione di Lodovico Terzi). La lungaggine di questa causa, che ha visto coinvolte successioni di avvocati e di Lord Cancellieri, e perfino la morte di molti protagonisti, l’ha fatta diventare una barzelletta di cui ci si serve per rimandare sine die una promessa o un impegno: Lo farò, non appena sarà terminata la causa Jarndyce contro Jarndyce, è diventato un modo di dire assai diffuso in quel tempo. Notate la forza di questa ironia, che si riferisce proprio alla lungaggine della causa: “Il piccolo attore, o convenuto, al quale fu promesso un cavallo a dondolo, quando si fosse conclusa la causa Jarndyce contro Jarndyce, è cresciuto, è diventato padrone di un cavallo vero e se n’è andato al galoppo all’altro mondo.” L’ironia, di cui si è dato qui solo un primo esempio, diviene lo strumento con il quale Dickens si propone di raggiungere il suo scopo, che è anche quello di dimostrare quanto le lungaggini della giustizia possono incidere sul destino delle persone coinvolte: “Troppe volte ho visto quel processo provocare conseguenze nefaste. Se due angeli vi fossero coinvolti, anche la loro natura cambierebbe.”

Per capire di che si tratta, Dickens comincia a narrare i fatti raccontandoci di una bambina infelice, Esther Summerson, che non ha mai conosciuto i genitori, di cui sente la mancanza, e vive con una madrina, la zia “di fatto”, Miss Barbary, assai severa che non la fa mai uscire di casa, salvo che per andare al collegio, che frequenta come “esterna”, ma le impedisce di contrarre qualsiasi amicizia con le altre compagne. Tutte le volte che la invitano a casa loro, la madrina scrive una “fredda” lettera per declinare l’invito, e quando giungono i compleanni della bimba, non invita nessuno, al contrario di quanto fanno le altre. Un giorno, in occasione di un suo compleanno, su richiesta di Esther, le dirà queste misteriose e tragiche parole: “Tua madre, Esther, fu la tua disgrazia, e tu la sua.”, così che la bambina assume il proposito “che mi sarei sforzata, come meglio avrei potuto, di riparare l’errore commesso nel nascere”; e anche: “capii di occupare un posto che sarebbe dovuto essere vuoto.” L’infelicità, quindi, torna a far vibrare, come ne “Le avventure di Oliver Twist” e in “David Copperfield”, le corde di questo autore, che l’assume come inevitabile connotato della vita; anzi, egli parte spesso dalle situazioni peggiori, giacché il suo scopo è quello di gettare una luce di speranza e di ottimismo, laddove sembra che l’esistenza sia irreparabilmente chiusa nella tristezza e nell’oscurità. Difficile trovare personaggi veramente cattivi in Dickens, poiché, anche se lo sembrano, la luce della speranza che si accende sugli sventurati delle sue storie, in qualche modo raggiunge sempre anche loro.

Esther, infatti, dopo la morte improvvisa della severa madrina, vede comparire nella sua casa di Windsor un signore elegante, al quale piaceva “ascoltare soprattutto il suono della propria voce”, l’avvocato Mr Kenge “il Conservatore”, dello studio Kenge e Carboy, che le propone (lo aveva già fatto quando era in vita la madrina, ma invano) di trasferirsi presso un ricco e generoso possidente, Mr Jarndyce, che non le farà mancare nulla. L’atmosfera del “David Copperfield” è già presente sin dal principio in questo romanzo, di cui, questa volta, protagonista e narratrice in prima persona è una donna. Trasferitasi a Greenleaf, un istituto accudito da Miss Donny, nei pressi di Reading, frequentato da “dodici allieve”, comincia la sua nuova vita, e le pare “che avessi quasi sognato più che vissuto la vita precedente con la mia madrina.” Mr Jarndyce, celibe, vive nello Herfordshire, nei pressi di St Albans, in una casa, situata in cima ad una collina, che ha il nome che dà il titolo al romanzo: “Casa Desolata” e Esther è stata educata a Greenleaf, dove è rimasta sei anni, per prendersi cura di Ada Clare, cugina di Mr Jarndyce, una ragazza diciassettenne che, nella famosa causa Jarndyce contro Jarndyce, viene affidata, insieme con il cugino Richard Carstone, di diciannove anni, proprio a Mr Jarndyce. Dickens ci fa sapere che entrambi i giovani cugini erano belli.

La narrazione quieta e piacevole intesse il suo ordito con la sicurezza e l’incantato stupore delle merlettaie che s’incontrano, sedute all’aperto davanti all’uscio di casa, nelle piazze e nelle strade delle città e dei borghi fiamminghi. Dai quei numerosi e fitti legnetti accuratamente disposti, noi non ci aspetteremmo mai che ne sortisse il miracolo di un ricamo incomparabile, famoso nel mondo; così le parole di Dickens si susseguono l’una all’altra dandoci la piacevole sensazione di percorrere lo stesso viaggio della meraviglia, costellato di personaggi che compaiono all’improvviso, subito attraendoci con la loro vivacità, siano essi buoni o cattivi. Mrs Jellyby è un Micawber in gonnella, ad esempio, con le sue convinte e risolute manie: “Mrs Jellybye aveva dei bei capelli, ma era troppo presa dai suoi doveri africani per pettinarseli.” La mania da cui era presa questa “donna molto piccola e grassottella, dai quaranta ai cinquanta, con dei begli occhi, benché avesse la curiosa abitudine di guardare lontano” come se “non potesse vedere più vicino dell’Africa”, era quella di interessarsi, infatti, “alla coltivazione intensiva del caffè… all’educazione degli indigeni… e a un sagace trasferimento della nostra popolazione eccedente sulle rive dei fiumi africani.” Questa donna dà il La ad una serie di caratterizzazioni, di maggiore o minore importanza, ma tutte puntualmente riuscite – come sempre accade in questo autore – che affolleranno il romanzo, consentendoci di gustarne piacevolmente la lettura. Si pensi a Miss Flite, la vecchietta ritenuta matta, che ha una collezione di uccelli dai nomi davvero pertinenti, attraverso la quale lo scrittore lancia i suoi continui strali ironici, ma anche inquietanti (si veda nel capitolo trentacinquesimo), verso la Corte di Giustizia del Lord Cancelliere, come fa del resto attraverso Mr Gridley, con maggior furore, tuttavia, (dirà questi, a proposito di Miss Flite: “C’è un legame di molti anni di sofferenza fra noi due, il solo legame da me avuto in terra che la Corte del Lord Cancelliere non abbia spezzato.”), o all’irruento e generoso Lawrence Boythorn, o al giovane praticante dello studio Jarndyce e Carboy, William Guppy, la cui madre era “una vecchietta con una grande cuffia, un naso piuttosto rosso e un occhio malfermo”, l’avvocato Tulkinghorn “con i suoi opachi pantaloni neri legati coi nastri alle ginocchia”, il disgraziato Jo, detto Pellaccia, attraverso il quale Dickens lancia, nel capitolo quarantasettesimo, un terribile atto di accusa contro la società inglese: “lo insozza il patrio sudiciume, lo divorano i parassiti nostrani, lo tormentano le patrie piaghe, lo coprono gli stracci comuni: l’ignoranza natia, prodotta dal suolo e dal clima inglesi, spinge la sua natura immortale al di sotto delle bestie.”, il padre di Prince “della scuola di ballo” (che diventerà il fidanzato di Caddy): Mr Turveydrop, che agiva ridicolmente in tutto e per tutto “come un modello di portamento”, i seriosi ma divertenti coniugi Badger, la tredicenne Charley (“vidi due lacrime solcarle in silenzio il viso”), che accudisce i fratellini Tom e Emma, rimasti orfani, che ci darà il segno, nel capitolo ventitreesimo, di quei buoni sentimenti cari a Dickens, il “verboso” (superbamente straripante nel capitolo venticinquesimo) e gran mangiatore (“bastimento divoratore”) reverendo Mr Chadband, i vecchi e litigiosi coniugi Smallweed (lei, “una testa di legno fradicio”, “pronta ad essere atterrata come un birillo”), il timido cartolaio Mr Snagsby e l’autoritaria e sospettosa mogliettina, “ombra della sua ombra”, i coniugi Bagnet, protagonisti di un prodigioso capitolo quarantanovesimo (in cui si apprende, tra l’altro, che quando Matthew Bagnet ogni anno va al mercato a comprare due polli per festeggiare il compleanno della moglie, donna energica e risoluta, come si vedrà specialmente nel capitolo cinquantacinquesimo, “immancabilmente è ingannato dal venditore e riceve due dei più vecchi abitanti di tutti i pollai d’Europa”), l’avvocato Vholes, “nel quale sembrava ci fosse qualcosa del vampiro”, il cui studio “è di proporzioni così minuscole che un impiegato può aprire la porta senza alzarsi dallo sgabello”, e “si toccava le pustole della faccia come se fossero decorazioni, e parlava con voce cavernosa e senza alcuna flessione di tono”, e così via, in una affollata galleria di personaggi descritti a tutto tondo che ha pochi riscontri in altri narratori. Una delle qualità di Dickens, infatti, è quella di riuscire a non far sentire mai solo il lettore, anzi colmando sempre, ove fosse presente, l’eventuale sensazione di solitudine e di vuoto dentro e intorno a lui. Presso Mrs Jellyby, la cui casa è un vero disastro riguardo all’ordine e alla pulizia, c’è anche una ragazza, chiamata Caddy, ed è sua figlia, insieme con una vera e propria nidiata di fratellini scalmanati (“i miei fratellini erano tanti indiani.”), tra cui Peepy, forse il più piccolo di tutti e vivacissimo. Dickens ce la fa subito notare e vedete come con un breve tratto ce la descrive anche interiormente: “Ma ciò che ci colpì maggiormente fu una ragazza affaticata e dall’aspetto malaticcio, ma niente affatto brutta, seduta alla scrivania che mordeva la piuma della penna e ci fissava.”

Pure gli ambienti sono descritti con la stessa efficacia, basti pensare al magazzino KrooK, soprannominato “La Corte”, vicino al tribunale, dove si trovano raccolte le cose vecchie e dimesse più sconclusionate, tra cui, significativamente e non a caso, delle ossa che “ammucchiate tutte insieme e ben lucide e ripulite, potevano essere tutte di clienti spolpati.” Lo stesso Krook, conosciuto col nomignolo di “Lord Cancelliere” (dirà: “Scaviamo entrambi nel fango.”), “pareva dal petto in su una vecchia radice sotto la neve.” e aveva “una grande passione per la ruggine, la muffa e le ragnatele.”; o alle decrepite catapecchie di Tom-All-Alone’s, conosciute anche come le “case della febbre”, dove vive Jo, che “hanno allevato una folla di tristi esistenze che gironzolano, dentro e fuori le aperture dei muri e delle tavole, e si rannicchiano a dormire come vermi dove gocciola la pioggia”. Pochi come lui sono riusciti a penetrare nel cuore più segreto degli uomini e della città di Londra. Sentite che cosa fanno i terribili figli di Mrs Jellyby, “I piccoli Jellyby”, allorché Esther sale in carrozza per raggiungere Casa Desolata: “si arrampicarono dietro alla carrozza e poi caddero. Mentre ci allontanavamo, con grande apprensione, li vedemmo sparsi nella strada davanti a Thavies Inn.”

Quando incontriamo, in casa di John Jarndyce, il suo amico dottor Harold Skimpole, rimasto, nonostante il matrimonio e tanti figli (“i suoi figli maschi erano scappati di casa”), un bambino “perché doveva confessare di soffrire di due delle più vecchie infermità del mondo: l’una era di non avere alcuna idea del tempo, l’altra di non avere alcuna idea del denaro.” e “In questa famiglia siamo tutti bambini e io sono il più piccolo”, ci viene in mente il signor Dick, l’innocente amico della vecchia zia di David Copperfield, la signorina Trotwood, ma anche, ancora una volta, il Micawber già menzionato, il quale, ricorderete, non riusciva a stare lontano dai debiti. Vorrei aggiungere che Skimpole è qualcosa di più della fusione di questi due personaggi: in lui si nasconde la beffarda costituzione della natura umana quando ci lascia perplessi nella scelta tra furbizia e spontaneità. Saremo attratti per molto tempo da questo personaggio, sospinti dalla curiosità di scoprire chi egli veramente sia, il che avverrà puntualmente. La rotondità e la sottigliezza dello stile di Dickens ci affascinano, dunque, a tal punto che, sebbene nei personaggi possiamo trovare talvolta gli ingredienti di una ricetta già gustata in altri suoi romanzi, egli continua a renderli piacevoli e li rinnova con l’arte spontanea e sapiente della sua scrittura. È difficile riuscire ad imitare uno scrittore di questa bravura. Faccio qualche esempio tra i tanti. Prendiamo il momento in cui il candido Mr Skimpole viene visitato dall’uomo “in soprabito bianco, con i capelli lisci e radi”, che altri non è che un esattore che pretende da lui il pagamento di un debito. Quando Mr Skimpole gli domanda se non abbia pensato, venendo a trovarlo per condurlo in carcere, che lo avrebbe privato del piacere di “veder splendere il sole, sentir soffiare il vento, veder le luci e le ombre avvicendarsi, udire gli uccelli, coristi della grande cattedrale della Natura.”, Dickens fa dare all’esigente esattore la seguente risposta: “Certo… che… no! – disse Coavinses, la cui asprezza nel negare quell’idea era così intensa che poté darle un’espressione adeguata soltanto inserendo un lungo intervallo tra ciascuna parola e accompagnando l’ultima con una scossa che avrebbe potuto slogargli il collo.” Credo che tale esempio dia esattamente il senso della facilità, della morbidezza, della spontaneità creativa di questo artista. Egli ha saputo rendere, a mio modo di vedere, con semplicità e naturalezza una descrizione difficilissima. Allo stesso modo che fa in quest’altro esempio, che riguarda l’avvocato Vholes che nel suo studio è a colloquio (un colloquio davvero esemplare, quello del capitolo trentanovesimo) con il suo assistito, l’inesperto e troppo illuso Richard: “Vholes, con le braccia sulla scrivania, portando tranquillamente la punta delle cinque dita della destra incontro alla punta delle cinque dita della sinistra e poi separandole di nuovo, guarda lento e fisso il cliente”. Nel capitolo quarantacinquesimo è sempre lui che compie quest’altro gesto descritto in modo così semplice ed efficace: “Mr Vholes mise il guanto morto, che sembrava non contenesse una mano, sulle mie dita e poi sulle dita del mio tutore, e si portò via la sua lunga ombra sottile.” O questa, che riguarda “lo scuro e freddo” e anche: “nerastro passero londinese”, avvocato Tulkinghorn, “fuligginoso e stinto”: “Mentre con una mano afferra un polso gonfio di vene e lo tiene dietro la schiena, cammina su è giù in silenzio.” Sia attraverso Tulkinghorn, che soprattutto attraverso Vholes (si veda anche il capitolo cinquantunesimo quando questi riceve nel suo studio Mr Woodcourt), Dickens non risparmia alcune ironiche frecciate alla classe forense (dirà George, cui accenneremo più avanti, una specie di “figliol prodigo”, il quale, vedrete, ci riserverà nel finale una sorpresa – a Jarndyce: “La loro razza mi è antipatica”, rinunciando a servirsene). O quest’altra descrizione che si riferisce al domestico Thomas e si legge nel capitolo quarantesimo: “si liscia la testa lucida dalla nuca alle tempie”. Questa, invece, è la descrizione di due monete che rotolano sul pavimento: “rotolano in un angolo e si fermano pian piano sul pavimento, dopo aver girato su se stesse.” L’avvio del capitolo cinquantanovesimo dà ancora una volta l’idea della assoluta padronanza di Dickens della propria scrittura, che modella a suo piacimento, con l’estro e la bravura di un autentico fantasista: Esther è sulla carrozza con l’ispettore Bucket. Hanno viaggiato giorno e notte ed ora fanno ritorno a Londra; osservate con quale originalità viene descritto il passaggio della carrozza dalla campagna alla città: “Erano le tre di mattina quando le case alla periferia di Londra iniziarono finalmente a escludere la campagna e a chiuderci nelle vie.” Gli esempi, che paiono qui numerosi, non sono tuttavia che una piccola parte di quanti se ne potrebbero portare, a dimostrazione di un talento davvero rarissimo. Non si parli poi della capacità di presentarci un numero impressionante di percorsi narrativi, i quali tutti magistralmente convergono infine verso il percorso principale. Spesso i capitoli iniziano con l’introduzione di nuovi personaggi e di nuove storie che si vanno sistemando nella nostra fantasia allo stesso modo dei cerchi di un abile giocoliere, e nel mentre ci domandiamo che cosa essi significhino nella tessitura della trama, Dickens ci fa intravvedere che quei cerchi gettati in aria in mille direzioni, presto finiranno per congiungersi e divenire un cerchio soltanto, segno di una maestria che non viene solo dall’esperienza, ma da una dote di giocoliere e narratore innata.

Tra Esther, nuova governante di quella casa, e Mr Jarndyce si instaura un rapporto di fiducia e affettivo che ricorda quello tra Jane Eyre e il duca di Rochester, nel celebre romanzo di Charlotte Brönte, che è di appena sei anni prima: 1847; ebbene, questo legame, abile o involontario che sia, contribuisce ad accrescere l’interesse per questa storia, collocandola nel filone romantico di un Ottocento inglese che ha avuto, oltre a Dickens e alle sorelle Brönte, un altro straordinario maestro in Thomas Hardy. La tragica figura di Lady Dedlock ha più di un punto in comune, infatti, con il personaggio di Fanny di “Via dalla pazza folla”, del 1874. Se Charlotte Brönte pare entrare in questo romanzo con le figure di Esther e del generoso John Jarndyce, vi si affaccia anche la sorella Emily, l’autrice dell’altrettanto celebre “Cime tempestose”, uscito anch’esso nel 1847, attraverso la figura della governante, la signora Dean, che racconta come nelle notti di pioggia appaiano nella brughiera i fantasmi dei due amanti Cathy e Heathcliff, allo stesso modo che succede qui, allorché la vecchia governante di Chesney Wold, Mrs Rouncewell, racconta ai visitatori della residenza dei Dedlock, situata nel Lincolnshire, nel capitolo intitolato “La passeggiata dello spettro”, la storia del fantasma che vive in quella casa.

Ed è così attraente e persuasivo il filo che unisce tra loro i grandi artisti, inconsapevolmente o meno, che non è difficile trovare echi di Dickens nel così diverso e complesso, e maiuscolo, Fëdor Dostoevskij, allorché quest’ultimo descrive, nel romanzo “I fratelli Karamazov”, che viene pubblicato nel dicembre del 1880, due mesi prima della morte del suo autore, avvenuta il 28 gennaio 1881, l’episodio dell’insulto che Dmitrij rivolge all’ex capitano Snegirëv, per riparare il quale AlëÅ¡a va a trovarlo nella sua stamberga. Lo squallido quadro d’insieme che si apre alla vista di AlëÅ¡a, si collega nell’ispirazione a quello che troviamo in questo romanzo di Dickens nel momento in cui la chiassosa e vanesia Mrs Pardiggle si reca alla “casa del mattonaio” per far visita alla famiglia tanto povera e degradata, nonché sventurata, di Jenny, che tiene in braccio, in una annichilita disperazione, il figlio morto, e alla quale cercheranno di portare aiuto Esther e Ada. E il robivecchi Krook che troviamo ubriaco nel capitolo ventesimo, nel gesto di accarezzare la bottiglia (“se la prende in braccio come una cara nipotina accarezzandola teneramente”) non si ritrova, nel bel film di John Ford: “Ombre rosse”, del 1939, nella figura del dottore ubriacone (magistralmente interpretato da Thomas Mitchell) che sulla diligenza fa la corte al mingherlino e spaurito rappresentante di liquori? Anche il personaggio dell’ispettore Bucket, che “ne sa una più del diavolo”, il quale fuma la pipa, suona “il piffero”, cerca presso la bottega di Mr Bagnet un “violoncello” per un suo amico e ha “un viso attento, che è la sua caratteristica”, uno dei primi della letteratura inglese, che incontriamo per la prima volta nel ventiduesimo capitolo, quello in cui ritroviamo la giovane sventurata Jenny, avrà molti proseliti, il più famoso dei quali, con il vezzo anche lui della pipa, della musica e del travestimento, sarà Sherlock Holmes. Ma ricorda anche, per la sua tenacia e perseveranza, il Javert de “I miserabili”, del 1862). Per la moglie di Bucket, invece, che conosceremo meglio nel capitolo cinquantaquattresimo, non possiamo fare a meno di pensare alla moglie dell’altrettanto noto commissario Maigret, creato dalla fantasia di Georges Simenon. E l’ironia di Dickens nei confronti della classe medica (se si fa eccezione per Mr Woodcourt), così palesemente espressa nel capitolo trentatreesimo, non è la stessa che ritroveremo nel capolavoro di Collodi, “Le avventure di Pinocchio” (1883), allorché, chiamati dalla Fata “dai capelli turchini”, i tre medici: “un Corvo, una Civetta e un grillo-parlante”, visitano il celebre burattino ammalato? E chissà che l’espressione corrente di “falchi e colombe” non abbia un qualche debito con questa frase di Dickens: “non fa la guerra come i falchi, ma viene a noi come una colomba.” Nel capitolo cinquantanovesimo si legge, nel momento in cui Esther sta per raggiungere Lady Dedlock: “mi sembrava […] che le cose irreali fossero più concrete delle reali”, che sarà, ad un secolo di distanza, il tema principale di uno dei nostri più grandi romanzieri viventi, Carlo Sgorlon. Quante ricchezze e quante anticipazioni, dunque, in questo formidabile narratore!

Le nuvole, il vento e il sole riescono a diventare personaggi in Dickens, quasi folletti curiosi che sbirciano tra i vetri delle finestre ad illuminare ed animare le cose fredde e gelide: “Il freddo sole invernale osserva i fragili boschi e guarda con compiacenza il vento tagliente sparpagliare le foglie e asciugare il muschio. Entra nel parco dietro le nuvole e tutto il giorno le insegue senza raggiungerle mai. Si affaccia alle finestre e posa sui vecchi ritratti fasci e macchie di luce mai sognati dai pittori.”; “il vento mormora piano attraverso la lunga sala, come se stesse respirando con ritmo regolare.” E ancora: “le cornacchie negli alti nidi sugli olmi del viale pare si mettano subito a discutere sugli occupanti della carrozza”. O anche: “dove i due occhi delle imposte lo fissano mentre dorme come se fossero meravigliati.” E: “La mattina invernale che guarda con occhi scialbi e con viso scavato il quartiere di Leicester Square, trova i suoi abitanti restii a lasciare il letto.”; oppure i “boschi imbronciati nel vedere il sacrificio degli alberi.”; “una casa immensa con la vista sugli alberi che sospirano, torcono le braccia, chinano la testa e gettano le loro lacrime sui vetri delle finestre con monotona tristezza.” Ciò si armonizza delicatamente con il senso di ironia che fa da cornice a gran parte della storia, una ironia leggera ma pungente, delicata ma severa, di cui abbiamo un divertente campionario nel capitolo dodicesimo, dedicato ad un sontuoso ricevimento a Chesney Wold, la residenza dei raffinati, presuntuosi e potenti coniugi Dedlock. Come anche nel capitolo diciannovesimo, laddove si legge: “Il foro d’Inghilterra è in giro per il mondo.”; e nel capitolo quarantottesimo: “Sir Leicester si è addormentato per il bene del paese sulla relazione di una commissione parlamentare.” L’uso del tempo presente aiuta a rendere assai sensibile ed avvertita una tale ironia.

Naturalmente la storia intanto sta crescendo e tra i cugini Ada e Richard nasce l’amore, di cui si sentono custodi tanto la narratrice Esther (che in famiglia sarà chiamata affettuosamente anche con alcuni nomignoli: Donna Durden, Minerva, Miss Trot), quanto Mr Jarndyce. Ma Richard, personaggio davvero ben riuscito ai fini proposti in quest’opera di denuncia, è un eccessivo ottimista e anche un incorreggibile indeciso e incostante. Dà poca importanza alle cose ed è portato ad avere fiducia in tutto e a non vedere problemi nella sua esistenza. Conta molto sull’esito della famosa causa che riguarda sia lui che Ada, poiché probabilmente li farà diventare ricchi e quindi, secondo il suo punto di vista, li terrà lontani da angustie e preoccupazioni. Non la pensa così Mr Jarndyce, che naturalmente conosce il mondo assai meglio del giovane Richard. Dickens sa che è giunto il momento di cominciare a creare delle connessioni e delle attese. Quale sarà il destino di Richard? Ada resterà legata a lui? E tra l’onesto e generoso Jarndyce e Esther quale sentimento prevarrà? E il medico Woodcourt, così buono e generoso e così affine a Esther, ha un qualche interesse per lei? Ma non basta. Un giorno che si recano tutti a far visita a Mr Boythorn, ecco che Esther, durante la messa domenicale, alzando gli occhi è colpita dalla bellezza di Lady Dedlock, che poteva “interessare e attrarre chiunque, se per lei ne valeva la pena.” Le pare che quel viso non sia del tutto sconosciuto, eppure è la prima volta che vede la nobildonna. Qualcosa in lei le ricorda la severa madrina. Non si preoccupa, Dickens, di farci intuire il seguito, poiché sa che il suo punto di forza non sta tanto nella trama, ma nella sua scrittura, ed egli ci invita a scoprire e a riconoscere la sua abilità a mantenere desto il nostro interesse, posto che il percorso narrativo da compiere è ancora molto lungo. Sembra quasi che voglia dimostrare che una volta che ci ha presi nella corrente della sua scrittura, il suo potere di incantatore è talmente seducente che non si ha più la forza di resistergli. Quando fa muovere i suoi personaggi, infatti, disegna scene di vita così vivide, siano esse tristi o divertenti, che tutto ci balza agli occhi come cosa viva. Penso, per fare solo qualche esempio, alla piacevole descrizione di Tony Jobling (poi assumerà per qualche tempo il nome fittizio di Mr Weevle), l’amico scombinato di Mr Guppy, di cui riporto solo una piccola parte: “Ha il cappello che mostra agli orli uno speciale aspetto scintillante, come se fosse stato la passeggiata preferita delle chiocciole”, o anche alla conversazione in trattoria tra i tre amici: Guppy, Jobling e Smallweed, detto anche Passerotto, che ha circa quindici anni “ma grazie a un cappello assai alto può essere avvistato da una notevole distanza.” (mi piace far rilevare che questo “folletto”, come lo chiama Dickens, si chiama in realtà Bartholomew, “noto presso il focolare domestico con l’appellativo di Bart”, ha una sorella gemella di nome Judy, e tutta la sua razza non ha fatto altro, nel corso dei secoli, che assomigliare “in modo sorprendente a vecchie scimmie un po’ depresse.” Poiché Bartolomeo è anche il mio nome, e Bart il mio diminutivo, non faccio altro, anch’io, dopo questa lettura che un po’ mi riguarda, dunque, che mirarmi con un certo timore allo specchio!); oppure alla conversazione tra il povero Jo, il poliziotto che vuole arrestarlo e Mr Snagsby, con gli interventi di Mrs Snagsby che sta ritta sul pianerottolo delle scale, e Mr Guppy, che è di passaggio; e mai sono scene superflue, poiché hanno sempre una precisa funzione nella tessitura della trama. In questa occasione, per esempio, Jo, senza rendersene conto, smuove la curiosità di tutti, allorché racconta che il denaro in tasca gli deriva da una signora molto distinta che, giunta in quei paraggi, ha chiesto alcune informazioni. Chi potrà essere questa signora? Anche se ce lo possiamo immaginare, il piacere ricavato dalla conversazione è impagabile, e quando osserviamo che quel Guppy, apparentemente di passaggio, raccoglie, invece, una importante confidenza di Mrs Snagsby, che servirà ad intrecciare la trama, non possiamo che compiacerci della disinvolta e divertita abilità del narratore. Imperdibile e indimenticabile, poi, il capitolo dedicato alla bizzarra famiglia Smallweed, il cui “venerabile” capofamiglia, nonno Joshua, “una sanguisuga”, incontreremo più volte.

Le sue descrizioni sono così precise e piacevoli che un pittore o un regista ci si potrebbe cimentare come innanzi alla veduta di un paesaggio o di un ambiente naturali. Gli esempi già fatti potrebbero bastare a rendere l’idea di una qualità rara e feconda, ma ci piace segnalare al lettore di andarsi a guardare anche la gustosa descrizione della doccia all’aperto che si fa, nel capitolo ventiseiesimo, George, l’ex soldato di cavalleria che gestisce, aiutato da “un ometto zoppo” e “troppo brutto”, Phil Squod, “che da bambino fu trovato in un rigagnolo”, un indebitato “Tiro al Bersaglio”, e ora dà lezioni di scherma a Richard. Questo personaggio sarà tra quelli che ci riserverà le maggiori e inattese sorprese. Si ha l’impressione che nello scrivere “Casa Desolata”, Dickens abbia ritrovato la vena ironica e la grazia narrativa con le quali costruì quel suo capolavoro che è “Il circolo Pickwick”, e ciò si manifesta sempre di più a mano a mano che si procede nella lettura: non v’è dubbio che Dickens si compiaccia di questo ritorno, si lasci ammirare, e si diletti ad esibire una specie di ruota sfolgorante come fa il pavone. Non c’è un solo filo intessuto dall’abilità di Dickens – e sono davvero tanti – che vada perduto né un capitolo, e si pensi che il libro è assai voluminoso, che non abbia la grazia del capolavoro. Egli indugia sui suoi percorsi e li accarezza con la sapienza, l’amore e la virtù di un raro creatore. “Casa desolata”, meno conosciuto dei più noti “Il circolo Pickwick”, “Le avventure di Oliver Twist” e “David Copperfield”, in realtà non ha niente da invidiar loro, ed è senza alcun dubbio da inserire tra i suoi capolavori in assoluto.

Lo scontro tra le due classi sociali che dominano la società di quel tempo, non solo inglese, è perfettamente reso (capitolo ventottesimo) nel colloquio tra Sir Leicester Dedlock, potente esponente della nobiltà, e il figlio della sua governante, Mr Rouncewell, “il padrone delle ferriere”, che si è fatta una posizione dal nulla e si presenta a Chesney Wold con l’autorità e l’orgoglio che gli deriva dalla sua nuova ricchezza per chiedere la mano della domestica Rosa, la “più bella del villaggio”, per conto di suo figlio, e si permette di porre la condizione che la cosa potrà essere fattibile, una volta ricevuto il consenso della ragazza, solo se questa abbandoni la casa dei Dedlock. Anche una donna femminista è presente nella fantasia di Dickens; si tratta di Miss Wisk, la quale non aveva alcun dubbio “che l’idea che la missione della donna si limitasse all’angusta sfera della casa era una presunzione oltraggiosa del suo tiranno, l’uomo.”

Il praticante dello studio Kenge e Carboy, Mr Guppy, intanto, ha fatto tesoro della rivelazione di Jo, quando questi giustificò, al poliziotto che lo aveva arrestato, la presenza nelle sue misere tasche di una sovrana ricevuta da una misteriosa signora, e comincia a sbrogliare la matassa che avvolge il mistero della nascita di Esther, della quale si è, solo fino ad un certo punto però, invaghito e che, pur non contraccambiato, spera di sposare. Ma ad Esther una anziana donna, Mrs Woodcourt, ha fatto questa previsione: “lei sposerà un uomo molto ricco e degno, assai più vecchio di lei, forse di venticinque anni. E sarà una moglie eccellente, molto amata e felice.” Mrs Woodcourt è la madre di Allan Woodcourt, il medico che dedica la sua vita ad alleviare le sofferenze altrui. Anche Esther sta realizzando il suo sogno di essere di aiuto al prossimo, mettendo la dura esperienza avuta da bambina al servizio dei più miserevoli, ed avverte sempre di più una tale affinità con lui. Pur vivendo in un ambiente agiato, presso il generoso Mr Jarndyce, non si stanca mai di proiettare la sua buona indole sul prossimo e Dickens getta, attraverso di lei soprattutto, la luce consolatoria della Provvidenza su quella parte di umanità che non ha più né nome né speranza. In questo romanzo la congiunzione dapprima tra lei e il suo tutore, entrambi dotati della virtù dell’amore, ai quali si aggiunge poi Mr Voodcourt, non fa che rafforzare il suo intento. Le sventurate Liz, Jenny, Charley (“sicuramente venuta al mondo per accudire i deboli e gli ammalati”), il vagabondo Jo, il “troppo brutto” Phil, sono tristi ma mai disperati, la solidarietà che li unisce e li conforta trova in Esther una nuova e robusta sorgente di speranza, e la malattia che la colpirà contribuirà a dare ancora di più a tutti la misura della sua forza. Il pathos di cui il romanzo va caricandosi deve essere visto, dunque, come la manifestazione di un prodigio nascosto nella natura umana, tale da poter assicurare, se lo vogliamo, il superamento delle miserie che attanagliano e affliggono il mondo. Le quali non sono poche né indistruttibili. Ci sono delle lettere compromettenti in giro, che farebbero gola a molti, soprattutto a Mr Guppy, che ne vorrebbe trarre vantaggi personali. Sono in mano ad uno dei nostri personaggi e proprio quando Guppy è sicuro di poterne disporre, la storia si tramuta in un giallo. Sono davvero sparite quelle lettere? Sono state distrutte? Sono passate di mano? E a chi?

Giunti a questo punto, vorrei toccare un argomento che fu caro ai detrattori di DicKens, ossia che la sua scrittura fosse superficiale e adatta ai giovani, anzi ai giovanissimi, più che agli adulti. Solo negli ultimi anni si è modificata, credo ormai in tutti, questa errata convinzione. Infatti, Dickens ha il merito, l’alta qualità personale, un dono insomma, di riuscire a scrivere con molta semplicità e a rendere comprensibili pensieri assai più profondi di quanto appaia dalla semplice lettura. Di esempi se ne potrebbero fare a iosa, ma uno che calza a pennello è questo, che si trova nel capitolo trentacinquesimo dedicato alla malattia di Esther: “Non mi ero mai accorta prima come la vita fosse breve e in quale piccolo spazio la mente potesse chiuderla.” Alla ovvietà apparente della prima parte della frase, si contrappone il potente rilievo della forza smisurata della nostra mente, capace di contenere non solo un’esistenza breve, ma in così piccolo spazio racchiudere addirittura l’infinito. Si evidenzia in questo modo così semplice una delle più sofisticate meraviglie della creazione. Notate ora con quanta facilità renda un concetto che a tanti avrebbe richiesto un numero ben più consistente di parole. L’esempio, lo troviamo nel capitolo quarantatreesimo: “La sorte mi è stata così propizia che posso narrare poco di me che non sia una storia di bontà e di generosità degli altri.” Non si tratta soltanto di facilità e semplicità, dunque, ma anche di acuta e raffinata intelligenza.

La causa Jarndyce contro Jarndyce è una di quelle che ha a che fare con un testamento complesso, anzi due testamenti entrambi contestati (tutto ciò ci riserberà una sorpresa), e una cospicua eredità (ma “la maggior parte delle spese erodono il patrimonio in contestazione”), intorno ai quali ruotano gli interessi di molti, tra cui quelli di Richard, di Ada e dello stesso tutore. È una causa non solo interminabile, che ha portato alla morte, come si è già detto, di alcuni dei primi attori, ma è anche maledetta, giacché ha un potere di attrazione tale che riesce a mutare la personalità di un individuo. Queste cose le ha dette Mr Flite a Esther durante la sua malattia, e Esther le vede confermate nel mutamento che sta subendo Richard, il quale si è buttato anima e corpo sulla causa (“mi ci dedico completamente, ne faccio lo scopo della mia vita”) e comincia a conoscerne tutti i segreti e i cavilli fino al punto che si insinua in lui il sospetto che tutto quell’amore che il loro tutore dimostra nei suoi confronti e nei confronti di Ada non sia altro che un’abile messinscena, giacché anch’egli è “parte interessata e può essere per lui un vantaggio se io non so nulla della causa e non me ne interesso”. Dickens scova, così, da aggiungere agli altri provocati dalla Corte del Lord Cancelliere, un altro motivo di interesse alla sua storia; infatti ci domandiamo chi abbia ragione dei due, e gettiamo un piccola ombra sul John Jarndyce, finora considerato “un modello di verità, sincerità e bontà.” Tutto ciò si insinua in noi con un perfetto lavoro di cesellatura paziente e al contempo doviziosa, allo stesso modo che ci sta succedendo con l’altro personaggio già ricordato: Mr Skimpole, la scoperta della cui vera natura, anche in questo caso, ci incuriosisce.

Pensate che Dickens ci ha già rivelato il segreto della nascita di Esther, sappiamo chi sono i suoi genitori, e tuttavia non è diminuito per niente, come si vede, il nostro interesse nella lettura, anzi, la sorte, per esempio, della madre, ossia se e come riuscirà a portare anche lei questo segreto di avere una figlia e se esso avrà delle conseguenze terribili, ci attanaglia esattamente come prima eravamo attratti dal mistero che circondava la nascita di Esther. È pieno di matrioske incantevoli il racconto di Dickens, non v’è alcun dubbio.

Il capitolo quarantottesimo, in cui si svolge il colloquio a quattr’occhi tra l’avvocato Mr Tulkinghorn e Lady Dedlock, è mirabile. Sono i due personaggi chiave del segreto che incombe sulla storia, da essi dipendono il suo sviluppo e le conseguenze sui diretti interessati. La scelta che fa Dickens è superba, da vero maestro del giallo, e mi viene in mente proprio Alfred Hitchock, che esattamente un secolo dopo, nel 1954, compose quello straordinario capolavoro che è “La finestra sul cortile”, che ha molte affinità stilistiche con il capitolo dickensiano. Dickens, infatti, dopo che i due interlocutori si sono separati, li segue uno alla volta e ne disegna lo stato d’animo, che è di attesa, ma un’attesa che non è la stessa per entrambi. Per Tulkinghorn – il quale lungo la strada che lo conduce a casa “Gode della fiducia della calce e di ogni mattone. Gli alti camini gli telegrafano i segreti familiari” – “non c’è una voce nel raggio di un miglio che gli bisbigli: ‘Non andare a casa!'” E quando è a casa non c’è “nulla che gli dia l’ultimo avvertimento: ‘Non venire qui!'”. Invece Lady Dedlock trova le “vaste sale” della sua casa “troppo soffocanti e opprimenti” e “decide di andare a passeggiare sola in un giardino poco lontano.”; “questa donna si avvolge in un mantello ed esce al chiarore della luna.” Le due immagini, e i pensieri che vi si racchiudono, si trovano improvvisamente a specchiarsi in noi in parallelo, in virtù di una sottile abilità stilistica non gridata ma proprio per questo impressionante. Quando entrambi guardano il cielo, la luna è il loro punto di contatto, come pure la notte, straordinariamente tranquilla. Lo sparo che echeggia è il solo rumore nel silenzio, prima che, trascorsi “tenebra, alba, aurora, giorno”, ogni altra cosa torni a muoversi, a correre e a gemere.

Dickens ci induce abilmente e ingannevolmente a sospettare chi possa essere il colpevole, ma, ancora una volta, il punto non è questo, visto che i colpi di scena si susseguono uno dietro l’altro, anche dopo che avremo saputo il nome del colpevole. È la meraviglia della sua scrittura, ancora una volta, a tenerci legati alla storia. L’ispettore Bucket, ospite in casa di Sir Leicester, che ha messo una grossa ricompensa a favore di chi scoprirà l’assassino, nel capitolo cinquantatreesimo si intrattiene con uno dei valletti della casa in una conversazione così piacevole e tanto piena di grazia, diciamo pure scaltra e di soave leggerezza insieme, che non si può non provare un senso di ammirazione per una freschezza che riesce a mantenersi intatta lungo tutto il romanzo. Poiché non è da meno, con una suspence che ci sorprenderà, quella tra l’ispettore Bucket e Sir Leicester, del capitolo successivo, allorché l’ispettore rivela al baronetto il nome dell’assassino, arrivati al termine della splendida lettura (si veda quel bellissimo passaggio tra il capitolo cinquantaseiesimo e il successivo e quell’inseguimento in carrozza, contenuto in quest’ultimo e di cui non voglio dire di più, con le strade coperte di neve), non possiamo esimerci da questa definitiva constatazione: che la misura e il tono narrativi di Dickens non hanno mai fatto, non fanno e non faranno fino alla fine una sola stonatura, misurati, perfetti e adeguati sempre. Anche nelle ultime fasi della storia, allorché molti nodi si sciolgono e i buoni sentimenti prevalgono su tutto, pure sulla malinconia che scende sulla bella dimora di Sir Leicester – al contrario di quanto sta accadendo a Casa Desolata, al punto che appaiono come disvelati e scoperti i veri volti delle due residenze – tutto avviene con un controllo della forma assai ammirevole. Sì, uno splendido capolavoro.

“Tempi difficili”

Garzanti, pagg. 314. Euro 7,50 (Trad. Gianna Lonza)

Sembra che l’immaginazione, in questo romanzo, che segue di un anno, il 1854, “Casa Desolata”, sia bersaglio di alcuni moderni insegnanti che vogliono “tagliare la gola alle Grazie”, ossia, sostituirla con la concretezza, ovvero con i “Fatti”. Così stanno facendo davanti ad una scolaresca Thomas Gradgrind e un funzionario governativo, inviato apposta a propagare i nuovi metodi di educazione scolastica. “Non devi mai immaginare!” tuonerà questi alla piccola Sissy Jupe, e subito dopo, rivolto a tutti: “Dovete sempre farvi guidare e governare dai fatti”; “Ecco la molla che azionava il misterioso congegno meccanico capace di educare la ragione, senza piegarsi a coltivare sentimenti e affetti.” L’ironia di Dickens, questa volta è messa al servizio dei metodi usati nella scuola inglese per insegnare ai ragazzi. Thomas Gradgrind è il proprietario della scuola ed ha affidato il compito dell’educazione e della istruzione al maestro M’Choakumchild, il quale “Era uscito di recente dalla stessa fabbrica che, usando identici metodi e ispirandosi agli stessi principi, aveva plasmato, oltre a lui, altri centoquaranta maestri, come se si fosse trattato di gambe di pianoforte.” Questo tipo di educazione fa però le prime crepe, perfino nei confronti dei cinque figli di Thomas, uno dei quali, dallo stesso nome, viene scovato dal padre a spiare, insieme con la sorella Louisa, attraverso il tendone del Circo Equestre Sleary, in una scena che, qualche anno dopo, troveremo somigliante nel romanzo “Professor Unrat” (conosciuto, in seguito all’omonimo celebre film di Joseph von Sternberg, del 1930, come “L’angelo azzurro”) di Heinrich Mann, che è del 1905, allorché il severo e burbero insegnante entra nel locale dove si esibisce la cantante Rosa Fröhlich per sorprendervi e punire i suoi allievi.

Dickens, rispetto al tema che vuole trattare e indicato nel titolo, ricorre ad una figura che non manca mai in ogni tempo, un innocuo smargiasso che da povero è diventato ricco, e non fa altro che cantare la sue lodi, ricordando quanto fosse nato povero e sventurato. Questo personaggio, che ci accompagnerà per tutto il romanzo, si chiama Josiah Bounderby, “banchiere, commerciante, industriale e chissà che altro ancora.”; “Un uomo che era uno schiacciasassi dell’umiltà.”; “Sono nato con un’infiammazione ai polmoni e, credo, un’infiammazione a tutto quanto può infiammarsi”. Sottolinea ciò alla signora Gradgrind, giacché poc’anzi le aveva raccontato di essere nato in una fossa piena di “Due spanne d’acqua.” La fine ironia di Dickens, e meglio ancora, il suo sorriso di fronte a certe situazioni della vita, già si mostra in tutto il suo splendore. Notate: in questa scena la signora Gradgrind, “un mucchietto sparuto di scialli, fragile di corpo e di mente, pallida, con gli occhi rossi, da sempre intenta a prendere medicine del tutto prive di effetto”, è incapace di arginare l’oratoria del ricco banchiere, e se ne sta del tutto ammutolita; ogni suo tentativo di intervenire, viene subissato da un mare di parole dell’altro, che tuona: “non devo ringraziare nessuno, solo me stesso.” In quel mentre entra il marito, uomo energico, “uomo concreto. Un uomo di fatti e calcoli. Un uomo che parte dal principio che due più due fa quattro e basta; un uomo che non si lascia convincere a concedere niente di più.”, e tiene con sé i due figli scovati a spiare il circo. La moglie li rimprovera e sentite che cosa dice: “Mi fate rimpiangere di aver messo su famiglia, ve lo assicuro. Magari non ne avessi una, mi vien voglia di dire! In tal caso, mi piacerebbe proprio sapere cosa avreste fatto!” E, più avanti: “se almeno non avessi mai avuto una famiglia! Allora avreste capito cosa vuol dire stare senza di me”. Questi rimproveri ed altri simili, così sprovveduti, che mettono in risalto da soli tutta la personalità della donna, valgono il romanzo.

Ciò che sta capitando ai figli del pratico Mr Gradgrind è che si è insinuato in loro il germe di “una immaginazione oziosa”.

Dickens non ha mai amato la scienza e i tempi difficili sono proprio quelli che egli sta vivendo, e nei quali è stata dichiarata guerra alla fantasia, all’immaginazione, di cui proprio lui è uno dei più autorevoli cultori e rappresentanti.

Si domanda sgomento Gradgrind: “E se Louisa e Thomas avessero letto qualcosa? E se, malgrado tutte le precauzioni, qualche inutile libro di racconti fosse entrato in casa?”. La causa scatenante di questa contaminazione pericolosa è una ragazzina, Cecilia (Sissy) Jupe, chiamata anche la “ragazza numero venti”, che si è iscritta alla scuola del “signor Gradgrind”, e il cui genitore è nientemeno che un clown del circo Sleary. Si deve espellere subito questa ragazzina, sostiene Bounderby quando viene a sapere il mestiere del padre, e il padrone della scuola naturalmente è d’accordo con lui. Così decidono di passare all’azione. Abbiamo sottolineato questa buffa scena perché questi personaggi così indaffarati e un po’ goffi ricordano per simpatia, se non per gli obiettivi, che restano diversi, Samuel Pickwick, il protagonista de “Il Circolo Pickwick”, il romanzo capolavoro di Dickens.

La scuola si trova nella grigia e emblematica cittadina di Coketown, che “era un trionfo di fatti; non c’era la benché minima traccia di fantasia lì, non più di quanto ce ne fosse nella signora Gradgrind.” e non a caso “si stendeva avvolta in un suo speciale alone del tutto impenetrabile ai raggi del sole. Si capiva che lì dentro c’era una città, solo perché si capiva che in quel paesaggio non poteva esserci una macchia così tetra e scura senza che sotto ci fosse una città.” Tutti gli abitanti sembrano uguali l’uno all’altro, fanno le stesse cose e le fanno alle stesse ore e così via, “e ogni anno era la replica di quello passato e di quello a venire.” Non è difficile individuare qui, e altrove (si pensi al capitolo IX intitolato “Senza via d’uscita” e all’avvio del libro secondo con il capitolo I), lo scavo di una denuncia che poco più tardi troverà nel film “Tempi moderni” di Charlie Chaplin, del 1936, un altro e altrettanto efficace interprete.

Il mondo del circo può essere considerato una delle più felici manifestazioni della fantasia e dell’immaginazione. Non per niente ha affascinato uno dei nostri registi più estrosi e visionari, Federico Fellini, che al circo ha attribuito sempre un particolare ed entusiastico rilievo, fino a dedicargli un cortometraggio-inchiesta, “I clowns”, del 1970, a tal punto che si può dire che perfino alcuni personaggi dei suoi film in cui il circo non appare protagonista sembrano risentire, nel loro aspetto e nel loro comportamento, di questo suo grande amore.

Dickens sceglie di estrarre da questa vita errabonda e magnetizzante, proprio la piccola Sissy Jupe, il cui padre, si scopre, è da poco fuggito, abbandonandola. Decidono di prendersi cura di lei nientemeno che coloro i quali erano andati a cercarla per espellerla dalla scuola, soprattutto Gradgrind, il quale dichiara alla ragazza, alla condizione che rinunci alla vita del circo, di essere disposto “a prendermi cura di te, Jupe, a darti un’istruzione, a provvedere a te.” Una ragazza, dunque, fino ad allora vissuta in un mondo quasi favoloso, si trasferisce con le sue poche cose – quasi simbolo della sua nudità – in un mondo completamente diverso e opposto, dove ciò che conta non è certo la fantasia, ma sono i fatti. Dopo l’enunciato iniziale: la modernità, ossia, che rifiuta l’immaginazione, Dickens vuole, perciò, giocare una specie di partita, alla quale ci chiama ad assistere, dove nel mazzo della modernità scientifica viene inserito il jolly di una ragazza nella quale germoglia ancora intatto il fiore spontaneo e naturale della fantasia.

Con il sorriso sulle labbra, Dickens sferra uno degli attacchi più violenti all’intera società, non quindi solo ad una parte di essa, prendendo di mira le idee e le ideologie moderne che, sull’onda delle scoperte scientifiche che si andavano acquisendo, eleggevano la ragione e la scienza a strumento di una mutazione dell’uomo, nel tentativo di sopprimere in lui l’immaginazione, ovvero la fantasia. Tornerà severa e pungente la denuncia sociale nell’onesta, e vedrete quanto sfortunata, figura del tessitore Stephen Blackpool, ricamata anche attraverso la sua sgrammaticatura, che sarà oggetto di scherno e di discriminazione da parte dei compagni di lavoro per la sua rinuncia alla lotta in seguito ad una promessa fatta a Rachael, la donna che ama, e il suo angoscioso conseguente smarrimento: “Qui c’è imbroglio, là c’è paura.”; “Prima muoio, meglio è.” Dirà al suo datore di lavoro, lo smargiasso Bounderby, che lo ha mandato a chiamare una volta saputa la sua decisione di non partecipare alla protesta degli altri lavoratori: “Dio non voglia che proprio io, che li conosco e sono con loro da tutta la vita, che ci sono stato seduto con loro a chiacchierare, che ho mangiato e bevuto con loro e che ci voglio bene, che io non dico la verità, quando la verità gli fa onore, non importa quel che mi hanno fatto.” Il capitolo intitolato “Lavoratori e padroni”, in cui ha spicco la personalità dignitosa e semplice di Stephen Blackpool, diventa fondamentale per una lezione di umiltà e di buon senso che ingrandisce e mette a fuoco l’ingiustizia patita dalle classi più povere.

Le resistenze della povera Sissy, che non riesce a capire niente di ciò che le insegnano e viene giudicata “lenta ad imparare”, e il suo desiderio di andarsene dalla scuola perché la considerano una stupida, assurgono qui a simbolo di uno scontento e di un tentativo di ribellione della parte più creativa e esaltante, secondo Dickens, della natura umana. Un’operazione inversa sta accadendo, invece, in Louisa, che è curiosa del passato di Sissy, e ricerca, anche se con diffidenza, le sue confidenze. Permeata della rigida educazione ricevuta dal padre, basata solo sui fatti, l’arrivo del circo e la vicinanza di Sissy, che è stata accolta nella sua casa, paiono suscitare in lei il risveglio di un qualcosa che se ne stava nascosto. È Louisa, dunque, che si sta spostando nella direzione di Sissy, mentre la forza dell’immaginazione che si cerca di reprimere in Sissy, in realtà, nel momento che pare essere di irreversibile mortificazione, proietta sull’altra i bagliori del suo fascino e del suo mistero. Si chiede, infatti, Dickens “quale tessuto avrebbe ricavato il più grande e antico di tutti i tessitori, da quella fibra che, filata, era già divenuta una donna. Ma la sua fabbrica è un luogo segreto, il suo lavoro silenzioso, le sue mani mute.” Louisa, tuttavia, non è ancora pronta, percepisce ma non è consapevole. Il colloquio con il padre, che le comunica una proposta di matrimonio da parte di Bounderby, fa affiorare il suo malessere e forse anche il suo risentimento, che non si trasformano ancora in consapevolezza e ribellione.

Perfino Gradgrind, “uno dei tanti rappresentanti della tavola pitagorica”, “era troppo affezionato a Sissy per disprezzarla” e “In qualche modo si era fatta strada in lui l’idea che qualcosa, in quella ragazza, non potesse essere espresso secondo le consuete classificazioni.”

Dickens pare affezionato a talune figure che ricorrono, infatti, nei suoi romanzi; una di queste è rappresentata dal personaggio che in qualche modo è parassita di un benestante quasi sempre generoso, al quale personaggio l’autore imprime sempre un rilievo fondamentale. In “Casa Desolata” incontriamo l’ambiguo Mr Skimpole; qui, il suo ruolo è svolto dalla signora Sparsit che vive, lusingata ed esibita per il suo “garbo aristocratico”, alle spalle del ricco Bounderby. Essi, infatti, sembrano fare da corollario alla sua idea di società egoista, corrotta e ipocrita, tutte le volte che la denuncia dei suoi mali è violenta come accade in questo romanzo, nel quale Dickens non risparmia dure critiche alla classe industriale, colpevole di sfruttamento della povera gente e sempre pronta a lesinare su tutto, infischiandosene se le loro “macchine” facevano “a pezzi la gente” e le loro ciminiere sprigionavano nell’aria “tutto quel fumo.” Anche l’acqua fa le spese di questa dissennata industrializzazione (“mani incapaci e sordide”): il fiume, infatti, “era nero e denso per gli scarichi”.

Certamente non la pensa così il banchiere Bounderby che non esita a dire a James Harthouse – prototipo del gentiluomo annoiato di tutto (“Ho una vasta esperienza della noia”) e in cerca di qualcuno a cui poter spillare denaro -: “guardate il nostro fumo. Per noi è una gioia degli occhi e una festa del cuore.”

Ma questo nuovo personaggio, assai esperto della vita e astuto (“Sono sufficientemente privo di scrupoli.”), comparso all’improvviso per cercare un impiego presso Bounderby, si accorge subito che in quella casa c’è qualcosa di strano. Nonostante la ricchezza, essa si presenta “Triste e fredda, sgradevolmente e caparbiamente sontuosa” e “Non un solo indizio in quella stanza che attestasse la presenza di una donna.” La donna che vive in quella casa è la giovane Louisa Gradgrind, che ha sposato su insistenza del padre, proprio il più anziano Bounderby. Educata a quel modo rigido che abbiamo conosciuto, volto solo alla cognizione di fatti e contrario alle suggestioni dell’immaginazione, Louisa, “la ragazza più straordinaria” che Harthouse avesse mai visto, conduce una vita metodica e senza emozioni. C’è una sola eccezione, di cui Harthouse subito si avvede; ossia, l’affetto che prova per il fratello Tom, “il marmocchio”, come lo definirà Harthouse nel momento in cui lo incontra per la prima volta e intuisce che può sfruttare la sua dabbenaggine, conseguenza di quella severa disciplina che ha soffocato l’immaginazione “fin dalla culla”. Così, mentre abbiamo visto che il candore di Cecilia ha fatto più di una breccia nella famiglia di Gradgrind, al punto che si nutre dell’affetto per lei, ora assistiamo ad un evento di segno contrario: un uomo di mondo, dotato di tutto fuorché di candore, vuol trarre profitto da quella apparente imperturbabilità, avendone già intuito le numerose incrinature e compreso la provvidenziale fragilità. Nei confronti di Tom era già “consapevole di essere una specie di accattivante demonio che, per farsi consegnare l’anima su semplice richiesta, non doveva fare altro che librarsi su di lui.” Capisce al volo che attraverso l’ingenuo ragazzo può arrivare alla graziosa sorella, la quale – dice Tom – “Farebbe qualunque cosa per me.”

Come in “Casa Desolata” abbiamo incontrato la vecchia e curiosa Miss Flite, qui facciamo conoscenza con una “strana” vecchia, la signora Pegler, che gironzola intorno alla casa di Bounderby e che viene in città “regolarmente, ogni anno, per girare le strade e guardare i signori.”

Stephen, il giorno che viene licenziato dalla fabbrica, la incontra con Rachael, la donna che lui ama e che non può sposare giacché è già sposato ad una ubriacona, dallo “spirito malvagio che devastava la sua vita” e scopre che la vecchia ha paura di incontrare Bounderby. Allo stesso modo che in “Casa desolata”, Dickens ci lascia intuire chi in realtà possa essere questa vecchia, e il lettore viene preso dal ricordo di un’altro romanzo, di qualche anno dopo, 1886, scritto da Thomas Hardy e intitolato “Vita e morte del Sindaco di Casterbridge”. In entrambi, vedrete, in Bounderby e in Henchard, ossia, si nasconde, con esiti diversi però, un segreto. Ancora una volta Dickens conosce come sedurci e, aperto un qualsiasi suo romanzo, scopriamo che egli non si preoccupa affatto di farci intuire o anticiparci alcune soluzioni, e ciò in forza di quella sua magica scrittura con cui sa di riuscire ad incatenarci. Parrà curioso, e questo è solo un piccolo esempio, ma una delle forze di attrazione che agiscono sulla mia sensibilità di lettore è il giocoso impiego dell’ironia con la quale Dickens circonda anche i fatti più tristi, lasciandoci intendere che in questa nostra esistenza tribolata c’è sempre un modo per poter sopportare la vita e sorridere. Ogni volta che cadiamo sotto il maglio della sofferenza e della rabbia, Dickens non vi indugia più del necessario, e passa oltre mettendo in campo personaggi e situazioni che illuminano la poliedrica varietà della nostra curiosa e qualche volta esilarante e ridicola specie umana. In questo romanzo, troviamo lo sventurato capro espiatorio Stephen Blackpool, ma non mancano la signora Sparsit (dall’andatura “sommamente decorosa”; e tuttavia “Riusciva a schizzare dall’ultimo piano all’ingresso a velocità incredibile, senza per questo mostrarsi ansimante o avere un solo capello fuori posto.”) e lo stesso Bounderby. Accanto all’esasperazione di Tom, noi troviamo il lavorio insistente e furbesco di James Harthouse.

Il giovane astuto e brillante Harthouse, infatti, non solo continua a coltivare l’amicizia di Tom, il fratello scapestrato di Louisa, ma frequenta sempre più assiduamente casa Bounderby. Vuole conquistare il cuore della ragazza attraverso il fratello, di cui si dichiara consigliere e protettore: “correggere questo lato del carattere di vostro fratello è quanto mi propongo.” In Louisa, fa notare Dickens, è nascosta “l’indomita propensione a credere in una umanità più nobile e più grande”, “radicata nel suo animo prima che il suo eminentemente pratico padre cominciasse a plasmarlo”. Harthouse non ha bisogno di particolari sensibilità per accorgersi di questa attitudine che pone la donna in continua lotta con se stessa, e intende sfruttarla a suo vantaggio. Vengono in mente personaggi simili incontrati in quegli anni nei romanzi di Stendhal, Balzac, e più tardi in Maupassant, tutti autori francesi che trovano nello scrittore di Oltremanica una corrispondenza molto interessante e suggestiva. E se proprio vogliamo continuare questa relazione tra le due sponde della Manica, non vi sembra che il goffo e tutto sommato innocuo Bounderby, nei suoi rapporti con la moglie somigli un po’ al signor Bovary? Notate che i due romanzi escono praticamente negli stessi anni. Se Emma e Louisa sono lontane tra di loro, non altrettanto si può dire per i loro mariti, che, occupati a tempo pieno nelle loro professioni, poco badano a ciò che accade nell’animo della propria moglie, se si eccettui che la reazione di Bounderby è molto diversa da quella di Charles Bovary e in tono con il suo irruento carattere (dirà al padre di Louisa: “Quando qualcuno comincia a trovarmi caro, in genere scopro che ha intenzione di farmela.”). Louisa, nella inquietudine dei suoi sentimenti, che scopre per la prima volta, e nei suoi scrupoli, fa pensare, invece, alla principessa di Clèves, protagonista dell’omonimo romanzo di Madame de La Fayette. Il numero dei personaggi che si muovono in questo romanzo è molto ridotto rispetto agli altri più noti. Non dico che si possano contare sulle dita delle due mani, ma ci siamo molto vicino. Coketown prima e poi la famiglia Bounderby sono le principali, per non dire uniche, messe a fuoco attraverso le quali Dickens formula la sua denuncia. Il magnate Bounderby giganteggia su tutti e la sua figura è continuamente osservata e via via rifinita dallo scrittore in quanto espressione violenta ed esplosiva di ciò che di contorto e tragico può sorgere da una cittadina come Coketown, che ha bandito fuori dai suoi confini l’estro e la creatività della fantasia, nonché, aggiungiamo, dei sentimenti. Scriverà più avanti l’autore, a proposito dei sogni e dei sentimenti: “Quanto sarebbero sagge le stirpi di Adamo a scaldarsi più spesso al sole di questo giardino, abbandonandovisi con fiducia, semplicità di cuore, purificati dello spirito del mondo!”

C’è un furto nella banca di Bounderby. Su chi credete che cadano i sospetti? Cadono sull’onesto Blackpool che, licenziato dal lavoro, se n’è andato via dal paese, e allora si pensa, poiché era stato visto nei paraggi della banca insieme con la misteriosa vecchia, che siano stati loro a combinarlo. Stolidità e ipocrisia a piene mani sono il risultato, dunque, di una mentalità gretta e arida frutto di una educazione quale quella che la modernità scientifica sta impartendo all’uomo, che può condurre perfino ad una stolida e quasi indifferente e impietrita tragicità. Il fatto che Dickens ci lasci subito intuire chi in realtà sia il colpevole, ci consente di seguire l’orrendo percorso della calunnia e della menzogna che ci guiderà infine, come una nemesi, al disvelamento del segreto di Bounderby ed ad una specie di umiliante contrappasso nei suoi confronti.

È soprattutto Louisa, però, che sta facendo le spese di questa realtà artificiale e assurda. La corte insistente di Harthouse le smuove dentro sentimenti prima sconosciuti, già avvertiti indistintamente quando aveva conosciuto Cecilia (Sissy), la cui benefica influenza, ora che è a servizio nella casa del padre, si sta riversando su Jane, la sorella più piccola di Sissy. Harthouse si muove con l’abilità e l’accortezza dell’uomo di mondo che si trova di fronte ad una giovane inesperta e sprovveduta. La vedova Sparsit, un po’ ipocrita e un po’ gelosa, che si è vista soffiare da Louisa la possibilità di sposare lei il banchiere Bounderby, ha orecchie e occhi attenti a ciò che sta succedendo tra i due, e si compiace della scala che sempre di più sta scendendo Louisa verso l’abisso e la vergogna. Quando i due cominciano ad incontrarsi segretamente si fa in quattro per scovare dove, al fine di spiarli. Insieme con Bounderby, questo personaggio femminile assume sempre più rilievo e sposta gli strali della denuncia sociale (chiamerà i politici, tra cui Gradgrind, il padre di Louisa, “i netturbini addetti all’immondezzaio nazionale”, identificabile quest’ultimo con il Parlamento inglese) nella direzione dei vizi che fanno capo all’animo umano.

La presa di coscienza di Louisa, la consapevolezza di ciò di cui la sua assurda educazione l’ha privata, diventano uno straziante atto di accusa nei confronti del padre, al quale confessa i mutamenti da cui si sente sconvolta. Un padre che, chiuso ed estraneo da sempre al mondo che si sta aprendo davanti alla figlia, riesce finalmente a comprendere il significato e la travolgente forza della sua disperazione: “Avevo dimostrato a me stesso che il sistema funzionava e l’ho applicato con rigore: ora devo accollarmi la responsabilità del fallimento.”

È fallito il sistema, dunque, ma non si consuma e si spegne nel nulla l’animo umano, ci fa capire Dickens. Nel momento della sua più cupa disperazione, quando tutto sembra perduto e irrevocabile, ecco che compare accanto a Louisa, allorché si trova ospite nella casa paterna, la presenza dolcissima di Sissy. Quella speciale diffidenza che Louisa aveva provato un tempo nei suoi confronti, sentendola così diversa da lei, improvvisamente si scioglie e Louisa non esita a chiedere aiuto proprio a lei, la giovane abbandonata dal padre girovago: “Abbi compassione di me nel bisogno e lasciami appoggiare il capo su un cuore che sa amare.”

Poco prima Louisa aveva detto al padre: “ho il dubbio che in questa casa, intorno a me, si siano lentamente verificati dei mutamenti e che a operarli siano stati l’amore e la gratitudine; che quello che la mente ha lasciato incompiuto e non poteva compiere, sia stato il cuore a compierlo in silenzio.”

La lezione non è ostentata, ma risuona inesorabilmente efficace e chiara al lettore.

Ricordate il circo? Ebbene, esso ritorna per fare da rifugio alla fuga di Tom, il fratello di Louisa, “lo scellerato marmocchio” (“Così si era ridotto uno dei suoi ragazzi modello!”, osserverà Dickens a proposito dell’educazione che il padre Thomas aveva impartito al figlio) che, sempre su una brutta strada, è stato colpevole nei confronti di Stephen Blackpool. Il padrone del circo, riconoscente per quanto Thomas Gradgrind ha fatto per Sissy, lo sta aiutando e lo nasconde travestito da clown. Ciò mi ha richiamato alla mente il film “Il più grande spettacolo del mondo” di Cecil De Mille, uscito nel 1952, in cui accade un fatto analogo nei confronti del personaggio – un medico – interpretato da James Stewart, il quale, autore di un delitto, nasconde la sua identità proprio sotto la maschera di un clown. Questo per dire quanto siano innumerevoli i contatti di molte opere moderne e contemporanee con i testi del fantasioso e geniale narratore inglese.

Per salvare il figlio Tom dalla prigione succederà, infine, che lo stesso Thomas Gradgrind, già scosso dall’infelicità della figlia Louisa, rivolgerà all’implacabile suo allievo Bitzer nientemeno che la domanda che segna la sua resa e la sua sconfitta: “Puoi essere mosso dalla pietà?”, e l’allievo non esiterà a rispondere: “Soltanto dalla Ragione, signore”.

E sapete da chi riceverà il rimprovero, cortesemente impartito, che lo muterà definitivamente? Proprio dal mondo del circo, che aveva negletto. Infatti, sarà Sleary, il padrone che ha un difetto nel pronunciare la consonante s e “un occhio che non funziona”, a dirgli: “efiste al mondo un amore che non è folo intereffe e vantaggio perfonale”; allo stesso modo che Sissy sarà il personaggio emergente, trionfante e luminoso di questa storia.

“Grandi speranze”

Newton & Compton editori srl, pagg. 384. Euro 5 (Trad. Maria Felicita Melchiorri)

Sono trascorsi sette anni da “Tempi difficili” e uno in più da “Casa Desolata”, quando appare “Grandi speranze”, che è del 1861. Anche questo: romanzo cospicuo, voluminoso. Leggete il suo incipit: “Poiché il cognome di mio padre era Pirrip, e il mio nome di battesimo Philip, la mia lingua infantile non riuscì mai a ricavare dai due nomi nulla di più lungo o di più esplicito di Pip. Così presi a chiamarmi Pip, e Pip finii per essere chiamato.” C’è tutta la felicità espressiva del narratore che ha dimestichezza non solo con la sua scrittura, ma con il mondo della fantasia.

E aggiungerei che non è tanto l’invenzione a stupirci quanto la resa stilistica, la facilità di trasmettere l’idea, percepibile soltanto se anche noi ci cimentiamo a rendere quell’idea con le nostre parole. Vedrete sul campo quanto sia operazione assai ardua. Il primo capitolo merita anche di essere citato per la sua incomparabile bellezza. A Pip, che si trova dentro il cimitero dove sono sepolti i suoi genitori e cinque suoi fratellini, che sorge in mezzo ad una palude (“il marese”) vicina al mare, nei pressi della foce del Tamigi, compare un uomo “spaventoso, con un vestito di grezza tela grigia e un grosso ferro alla gamba. Un uomo senza cappello, con le scarpe rotte e un vecchio straccio legato intorno alla testa” che con fare minaccioso gli ordina di portargli una lima e del cibo. Quando questi si allontana, Pip non riesce a scorgere sulla linea dell’orizzonte che due cose: il faro e “una forca da cui pendevano delle catene che un tempo avevano sostenuto un pirata.” Lo sconosciuto sembrava nientemeno che “il pirata tornato in vita che, dopo essere sceso a terra, tornava nuovamente a impiccarsi.”

Pip vive con la sorella più grande di lui di oltre vent’anni; carattere forte e violento, non esita a levare le mani non solo sul ragazzo (lo tirava “su con le mani”), ma anche sul marito, un pacioccone, di buon senso tuttavia, “un uomo dolce, onesto, dedito al dovere”, che fa il fabbro e si chiama Joseph (Joe) Gargery. Tra Pip e Joe c’è simpatia, forse per il fatto di subire entrambi le furie della donna. Tra di loro si svolgono dialoghi che trovano pochi altri riscontri nei romanzi di Dickens, per semplicità, candore e bellezza, e si incontrano, ad esempio, nei capitoli settimo, nono, quindicesimo e nello straordinario ventisettesimo, in cui la dignità dell’umile artigiano Joe dà una garbata ma ferma lezione al disagio di riceverlo che prova Pip nel momento in cui si sente baciato dalla sorte: “Mi sfiorò delicatamente la fronte, e uscì. Non appena riuscii a riprendermi, gli corsi dietro e lo cercai nelle strade vicine; ma era scomparso.”

La storia prende avvio nel giorno della vigilia di Natale, quando nella palude Pip incontra l’evaso descritto più sopra. Il giorno di Natale, mentre sono a pranzo, irrompono i gendarmi e chiedono a Joe di aggiustare un paio di manette, Joe va nella sua fucina e tutti, soldati compresi, se ne stanno intorno a lui a vederlo lavorare. Sistemate le manette – ricordiamoci che siamo a Natale – escono per recarsi nella palude alla ricerca dell’evaso, anzi degli evasi, giacché i fuggiaschi sono due. Joe, Pip e Wopsle vanno con loro: “Un nevischio pungente, portato dal vento di levante, ci assalì sibilando, e Joe mi prese sulle spalle.” È un altro capitolo questo, il quinto, che si deve segnalare per la sua bellezza. La narrazione è già ricca di sottili cesellature e le scene che compaiono, per esempio la fucina di Joe, sono vive e reali senza che Dickens si sia speso in minute descrizioni. È bastato – a proposito della fucina – un paragrafo in cui si citano mantice, fuoco, fumo, il gesto del martellare e quel: “la vivida fiamma si alzava e si abbassava e le scintille incandescenti ricadevano e morivano” per disegnare un quadro di inoppugnabile compiutezza. E ancora: siamo nel pomeriggio, un “pallido pomeriggio”, sta nevicando. I gendarmi procedono nella perlustrazione distanziati l’uno dall’altro, i tre civili li seguono e “Sotto il debole riverbero rosso del tramonto, il faro e la forca e la collinetta della Batteria e la riva opposta del fiume si scorgevano chiaramente, per quanto tutti di un plumbeo slavato.” All’improvviso spuntano nella nebbia mucche e pecore coi loro campanacci, che si voltano a guardarli e in mezzo a tutto ciò, scrive Dickens, si percepiva: “il fremito del giorno morente su ogni filo d’erba”. In queste scarne descrizioni, trovo che vi si racchiuda un’atmosfera di occulto e di mistero che ci trasporta, senza che forse ce ne rendiamo propriamente conto, nelle oscurità della vita e della stessa Creazione. Chi racconta è Pip e il suo punto di osservazione diventa anche il nostro nel ripercorrere la sua storia e l’arricchimento portatogli in dono dall’esperienza.

Se si desidera un esempio della felicità espressiva, quasi della gioia prorompente di un narratore nato per raccontare, leggete con quanta leggiadria e compiutezza entra in scena la prozia di Mr Wopsle: “La prozia di Mr Wopsle dirigeva una scuola serale nel villaggio; vale a dire che era una vecchia assurda di mezzi limitati e di acciacchi illimitati, che soleva dormire ogni sera dalle sei alle sette, in compagnia di giovani che pagavano ciascuno due pence a settimana per l’opportunità di migliorarsi guardandola dormire.”

E quando, all’improvviso, Pip, che viene afferrato dalla sorella Mrs Gargery, lavato e rivestito di tutto punto per essere condotto da Mr Pumblechook presso la “immensamente ricca e arcigna” Miss Havisham, che aveva richiesto un ragazzo per giocare, salutato Joe, si trova sul calesse e guarda il cielo dove scintillano le stelle, riflette che nemmeno una riesce a gettare “nessuna luce sul perché mai dovessi andare a giocare a casa di Miss Havisham e a che mai ci si aspettava che giocassi.”

La catena degli artigiani che si trastullano spiandosi l’un l’altro descritta in poche righe nel capitolo ottavo è di una tale arguzia e vivacità da imprimere con la sola sua concatenazione un movimento perpetuo e circolare alla scena.

Dickens ci trasmette integra, suadente e preziosa la sua gioia di raccontare. Pur tratteggiando ambienti pervasi da sofferenza e da povertà, egli trova sempre il modo di colorare con una nota di leggerezza e di sorriso la sua storia. Devo dire che provo una grande felicità nel percepire tutto ciò; ossia, che un talento geniale come quello di Dickens, pur in mezzo ai guasti che l’uomo non sa evitare di produrre, sia permeato da una fiducia e da un ottimismo rivolti, non tanto alla nostra disordinata specie, ma a quell’indicibile respiro della Creazione che aleggia su tutto e tutto riesce a ricomporre per dare la sensazione, se non addirittura l’immagine, di una continuità e di una vastità dell’esistenza universale, nella quale il fine ultimo non è mai la sofferenza e l’umiliazione che ci circondano e che paiono sovrastarci, bensì la ricomposizione di ogni cedimento e di ogni frattura in un unicum indistruttibile che reca intatte le ragioni escatologiche, vitali e taumaturgiche del proprio esistere.

Il ritratto di Miss Havisham, una vecchia zitella che vive rinchiusa in un maniero (“casa Satis”) dalle finestre serrate e non vede la luce del sole da molti anni, muovendosi per la casa al lume di candela e vestita di un consunto abito bianco tutto pizzi e merletti, ci conduce dall’oscurità della palude che circonda l’essere umano all’oscurità che si racchiude dentro di noi rappresentata da questa signora che ha il cuore “spezzato” e per la quale il tempo si è fermato alle “nove meno venti” di un certo giorno, come rivelano gli orologi della sua casa.

Si intuisce dal suo abito da sposa e dal suo incompiuto abbigliamento che qualcosa di orrendo è intervenuto nella sua vita e tutto ciò che ha fatto seguito è qualcosa che le è assolutamente estraneo e senza importanza.

Naturalmente, in un ambiente così tetro e malinconico, resta difficile a Pip di mettersi a giocare, ma la donna gli ordina di chiamare la nipote Estella (in realtà è stata adottata, come sapremo più tardi), l’altezzosa ragazza che ha introdotto Pip nella casa, sua coetanea, ma che, sprezzantemente, si comporta come se fosse molto più grande di lui. Si mettono a giocare a carte e la signora sembra distrarsi dai suoi cupi pensieri guardandoli: “Così ella rimase seduta, simile ad un cadavere, mentre noi giocavamo a carte, le trine e le gale increspate del suo vestito da sposa simili a ruvida carta.” Prima la palude, il cimitero, la forca intravista nella nebbia sulla quale un tempo fu impiccato un pirata, ora una donna che ha cercato di fermare la sua vita lottando contro l’incedere solenne e irriguardoso del tempo. Dickens questa volta parte da una presunzione di morte per narrarci una storia di resurrezione, ciò che non aveva mai fatto prima, almeno così esplicitamente. Miss Havisham viene colta nel momento in cui, nel chiamare Pip nella sua casa, tenta una specie di risveglio (“denti più aguzzi dei denti dei topi hanno rosicchiato me.”), e il suo guardare giocare i due giovani nasconde un inconscio tentativo disperato di un diniego alla rinuncia e alla sconfitta. Estella ha parole di disprezzo nei confronti di Pip, che trova rozzo e volgare, e Miss Havisham ha la forza di domandare a Pip: “Lei dice molte cose crudeli su di te, ma tu non dici niente di lei. Che pensi di lei?”. In realtà, l’incontro con questa ragazzina superba e schizzinosa acuisce in Pip il senso dell’ingiustizia che da qualche tempo lo assale, soprattutto nei confronti della sorella, Mrs Gargery, le cui maniere violente hanno affinato la sua sensibilità e la consapevolezza di non meritare i suoi rimproveri. Dunque, in quella casa oppressa dalla morte (c’è perfino, accanto, una fabbrica di birra abbandonata), soffia il vento della vita.

A che cosa fa pensare questa frase sull’esistenza: “Immaginate che un giorno prescelto venga cancellato e pensate a come tutto il suo corso ne sarebbe stato alterato.”?

Non ricorda forse il celebre film “La vita è meravigliosa” di Frank Capra, del 1946, ispirato proprio a un tema come questo, ossia l’influenza che la nostra vita ha sull’equilibrio generale dell’esistenza e l’importanza di ogni cosa che le appartiene?

Nella locanda ai “Tre Allegri Barcaioli” Pip incontra, seduto allo stesso tavolo dove si trovano Joe e Mr Wopsle, uno sconosciuto che non nasconde il suo interesse per lui, e ad un certo punto, non visto dagli altri, gli mostra una lima. Pip intuisce subito che quell’uomo conosce il forzato che gliel’aveva richiesta e che lui aveva sottratto a Joe, nella sua fucina.

Dall’inizio del romanzo si nota un’atmosfera insolita, assente nelle altre opere di questo autore, fatta di colorature in penombra, con focalizzazioni che mantengono contorni e orizzonti appena intravisti, di un realismo fantasioso, più vicino, ossia, al sentire e al vedere della nostra anima. Si pensi che qualche anno dopo, il 1883, esce “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson, che è il primo dei suoi capolavori, e non è da escludere che l’autore scozzese sia stato suggestionato proprio dalle atmosfere di questo lavoro dickensiano. Ma Dickens non finisce di stupire. Conosciamo l’arguzia e il pettegolezzo che animano le opere di Oscar Wilde. Bene, un assaggio di quanto scriverà questo irlandese, nato nel 1854, appena sette anni prima dell’uscita di “Grandi speranze”, noi lo troviamo già qui, nel capitolo undicesimo, nella conversazione caustica e pungente tra Miss Havisham, Georgiana, Miss Sara Pocket dal “volto di guscio di noce”, Camilla e suo marito Raymond.

E Poe, morto a quarant’anni nel 1849, non è anche lui qui, nella casa spettrale in cui vive Miss Havisham?: una cerimonia di nozze che doveva avvenire tanto tempo fa è stata interrotta, infatti, e nella casa tutto si è fermato a quel giorno e a quell’ora e si dissolve in attesa della morte. Nella stanza dove Pip si trova, insieme con Miss Havisham e Estella, e contempla la tavola ricoperta da una tovaglia “un tempo bianca, ora tutta gialla” e la torta nuziale “putrefatta” e avvolta in un intrico di ragnatele, è questo il pensiero che lo pervade: “ebbi persino l’allarmante fantasia che io ed Estella potessimo iniziare presto a decomporci.”

Il rapporto tra i due giovani è condizionato dall’educazione che Miss Havisham sta impartendo alla nipote, frutto della sua triste esperienza. Spesso le sussurra all’orecchio, allorché si mostra arrogante con Pip: “Spezza i loro cuori, mio orgoglio e speranza, spezza i loro cuori e non avere pietà!”. Si capisce che è attraverso di lei che cerca la sua rivincita. Dirà più avanti la giovane: “Sono quello che tu hai fatto di me.” Estella si fa di giorno in giorno sempre più graziosa. Miss Havisham ne chiede continuamente conferma a Pip, come a gustare in qualche modo la sua sofferenza di innamorato, giacché è evidente che il ragazzo è rimasto colpito dal fascino della giovane.

Si percepisce una eco di “Tempi difficili”, allorquando si forza la protagonista Louisa ad una educazione priva di sentimenti, con i quali poi dovrà, ahimè, fare i conti. Estella, in sovrappiù, viene educata a far soffrire gli uomini, a provocarli e denigrarli ad un tempo. Intuiamo sin d’ora il percorso che occuperà la sua vita, ma ancora una volta è il piacere della narrazione che ci coinvolge. Se Estella verrà travolta dal suo gioco forzato ed innaturale, poco importa al lettore di intuirlo già a questo punto della storia. Egli è più interessato alle preziosità, ai colori, ai vezzi delle cesellature con cui l’autore si compiace di stupirlo.

Quando Biddy, una ragazza orfana che aveva insegnato a Pip a leggere e a scrivere, viene chiamata da Joe ad assistere la moglie, aggredita da uno sconosciuto e rimasta sofferente, noi vediamo in lei, così buona e generosa (“divenne la benedizione della nostra casa.”), una nuova Sissy di “Tempi difficili” e anche l’Agnes di “David Copperfield”. Ci sono personaggi che in qualche modo segnano un legame ed una continuità tra i romanzi di Dickens, come se egli avesse desiderato lasciare il segno dell’unità della propria ispirazione, nonché dello scopo della sua scrittura. Che è sempre, nascosto o evidente che sia, quello di mostrare quanto la bontà e la sofferenza siano prima o poi ricompensate, e se, come accade qui, per qualche momento della vita si è ottenebrati dalla presunzione e dall’orgoglio, sono la generosità e l’altruismo degli altri a liberarci spesso dalla confusione che si è annidata in noi.

Pip riceve una visita straordinaria. Un avvocato di Londra, Mr Jaggers, gli annuncia che un benefattore, che deve restare sconosciuto, si vuol prendere cura di lui e farlo diventare un gentiluomo. Per questo ha già messo a disposizione un capitale consistente che servirà ai suoi studi e alla sua educazione. Dovrà naturalmente lasciare la casa di Joe e trasferirsi a Londra. Gli dice testualmente: “la comunicazione che gli devo fare è che ha grandi speranze.” Queste “grandi speranze” daranno significativamente il titolo al romanzo, giacché Pip si sente da quel momento “possessore di tali grandi speranze” al punto da formulare tra sé l’addio ai compagni in questi termini: “addio, monotoni compagni della mia infanzia, d’ora innanzi appartengo a Londra e alla grandezza, non al mestiere di fabbro e non a voi!”. È da vedere, pare anticiparci Dickens, che cosa può produrre su di un giovane un cambiamento così repentino della sua condizione sociale. Colmare in questo modo una insoddisfazione interiore per tanto tempo trattenuta, se può misurare la misericordia di Dio (“avevo sempre desiderato essere un gentiluomo”), può anche risvegliare dentro di noi sopiti spunti di presunzione e di orgoglio, che ci inducono a confrontare e a scoprire la nostra vera natura. Dickens chiama il personaggio Pip a misurarsi con un simile destino, e lo fa immediatamente, mettendolo di fronte a Joe e facendogli insorgere questo pensiero: “una volta che fossi entrato in possesso dei miei beni e fossi stato in grado di fare qualcosa per Joe, sarebbe stato molto più appropriato se egli fosse stato più qualificato per passare ad uno stato sociale superiore.”, che lo avvicina più a Estella che a Biddy, ad esempio, o allo stesso Joe. E non è un caso che egli trascorrerà i giorni che lo separano dalla partenza in maniera “solitaria e deludente”.

L’educazione di Pip è affidata a Matthew Pocket, un parente di Miss Havisham, che lo ha allontanato da quando questi la mise in guardia nei confronti del suo fidanzato, e a ragione come si capirà dal racconto che farà di quella triste storia Herbert, il figlio di Matthew, con il quale Pip condivide la cameretta in un alberguccio che somiglia più a una topaia che a una casa. La moglie un po’ allampanata di Mr Pocket, Belinda (“altamente ornamentale, ma perfettamente inutile e incapace”), ci ricorda la moglie di Thomas Gradgrind di “Tempi difficili”, e la “vicina parassita” che sfrutta la loro casa, “un perfido serpente biforcuto”, Mrs Coiler, l’abbiamo già incontrata come signora Sparsit nello stesso romanzo e la confusione che regna in casa Pocket è la stessa che vedemmo da Mrs Jellyby di “Casa Desolata”, personaggio anch’esso somigliante a Mrs Gradgrind e a Mrs Pocket, la quale trascorreva il tempo a leggere “i suoi libri sui titoli nobiliari”.

Dickens conferma, dunque, la simpatia per certi riferimenti che considera significativi per rappresentare efficacemente la realtà, che poi non è soltanto quella del suo tempo.

Ricordate? Il romanzo è cominciato con l’incontro di Pip con due evasi nel bel mezzo di una palude. Ebbene, scene che vedono protagonisti i forzati si susseguono nel romanzo con qualche significativo collegamento tra di loro, fino ad includere la visita di Pip alla famosa prigione di Newgate (“Trascorsi tutto il tempo a pensare come fosse strano che dovessi essere circondato da quest’atmosfera corrotta di prigione e crimine”). A poco a poco esse si trasformano in una nota dominante, tale da risultare indispensabile per riannodare i molti fili della trama, allo stesso modo che accade, ad esempio, ne “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas o ne “I miserabili” di Victor Hugo. Esse non rappresentano, in effetti, che tracce minuscole, sassolini che Dickens lascia cadere sul suo percorso al fine di stimolare e orientare in qualche modo la nostra ricerca sulle provvidenziali fortune (“è stata solo la Fortuna a elevarmi”) che stanno accumulandosi sul giovane Pip, il quale ora non è più rozzo e volgare come un tempo e, quando incontra di nuovo Estella di ritorno da una permanenza in Francia, che l’aveva resa ancora più bella e irraggiungibile, si accorge di amarla, e anche di percepire sul suo volto la sensazione di un qualcosa di conosciuto: “Che cos’era quell’ombra senza nome che era di nuovo passata in quell’istante?”. Che è una sensazione simile a quella che provò Esther di “Casa Desolata” allorché, durante la messa domenicale, incontrò per la prima volta Lady Dedlock. Come pure Bill Barley, il padre di Clara, la fidanzata di Herbert, invalido e chiassoso (“Fa un baccano tremendo… urla e picchia sul pavimento con qualche terribile strumento”) non ricorda il burbero Joshua Smallweed, anche lui invalido, sempre di “Casa Desolata”?

La storia va avanti lasciando in sospeso alcuni punti fondamentali, grazie ai quali l’interesse del lettore resta immutato e anzi si accresce a mano a mano che alcune situazioni paiono preludere ad un contatto.

Una lettera di Estella annuncia a Pip che anche lei sta venendo a Londra e lo prega di andarle incontro. Pip è ancora sotto l’impressione di una intangibilità della sua amata, sebbene sia convinto che Miss Havisham sia la benefattrice della sua fortuna e stia facendo di tutto per far sposare Pip con Estella. C’è un momento in cui più volte gli dice: “Amala!”. Dunque, è quello di Miss Havisham il nome della sua benefattrice che Mr Jaggers tiene segreto? Riuscirà Pip a colmare la sua fortuna con l’amore di Estella? E che cos’è quell’ombra che passa sul volto di Estella e che la rende familiare a Pip? E ancora: quanta parte la “buona sorte” può avere nel successo di un uomo?

Già ora vediamo che Pip è perseguitato da qualche rimorso per come sta cambiando: “Vivevo in uno stato di cronico disagio per il mio comportamento verso Joe. Né la mia coscienza era affatto tranquilla riguardo a Biddy.”

Si sta rendendo conto che il denaro non è tutto nella vita, e pur spendendone tanto “Eravamo sempre più o meno depressi, e la maggior parte dei nostri conoscenti era nella nostra stessa condizione. Vigeva tra di noi la gaia finzione che ci divertissimo sempre moltissimo, e la verità di fondo che non avveniva mai. Per quanto ne so, il nostro caso, sotto quest’ultimo aspetto, era piuttosto comune.”

Dickens si riferisce all’aspetto generale e frivolo della vita, quando la mancanza di valori produce irrequietezza ed insoddisfazione che nessun altro surrogato può alleviare.

Così, raggiunta la maggiore età e venuto in possesso, per il momento, di una cospicua rendita annua, Pip, che nel frattempo aveva contratto un mucchio di debiti e ne aveva fatti contrarre al suo amico Herbert, decide di aiutarlo in incognito. Si avvale di Mr Wemmick, l’impiegato del suo ex tutore, andando a trovarlo al “Castello”, una bizzarra dimora dove questi vive con l’anziano genitore e dove va a trovarlo spesso una ragazza, Miss Skiffins, che “aveva un aspetto legnoso”. La visita darà l’occasione per un ritratto di quella famiglia assai divertente, con la quale Dickens sbizzarrisce il suo estro di geniale inventore, per non parlare dello stesso personaggio Wemmick, tra i migliori creati dalla fantasia di Dickens (si veda il suo insolito matrimonio descritto nel capitolo cinquantacinquesimo), al quale si deve aggiungere il fabbro Joe. Come pure mette in mostra la sua sorprendente abilità di narratore nel darci la descrizione, breve ma efficacissima, del violento temporale che si abbatte su Londra, nel capitolo trentanovesimo, proprio il giorno in cui finalmente scopre l’identità della persona che si è preso cura della sua vita. O quando, verso la fine, ci racconta degli impacci di Joe nel tentativo di scrivere una lettera, nonché, nello stesso capitolo cinquantasettesimo, la straordinaria, umanissima, risposta che dà a Pip quando questi gli chiede notizie di Miss Havisham.

I nodi vengono al pettine, dunque, e si stanno sciogliendo, sebbene lentamente. Anche Estella in un alterco con Miss Havisham, che la accusa di ingratitudine nei suoi confronti, mostra di cominciare a rendersi conto della durezza e aridità del proprio carattere, frutto di un’educazione sbagliata (“ammaestramenti distorti”) e soprattutto egoista, e la stessa Miss Havisham, ad un certo punto, manderà a chiamare Pip e gli dirà che desidera dimostrargli “che non sono completamente di pietra. Ma forse, ormai, non potrai mai credere che c’è qualcosa di umano nel mio cuore.”

La lezione di Dickens si fa esplicita. L’orgoglio viene frustrato, punite la presunzione e la vanità. Sconfitta l’ira. Una buona azione produce sempre altre buone azioni, e può modificare la malvagità di un uomo, al punto che egli stesso si sentirà portato al bene. E infine, che la povertà, quando è sopportata onestamente, ci riveste di una dignità assai più grande di quella che può nascere dalla ricchezza. Ma il vero inno che si innalza fino a noi e ci penetra nell’animo è quello riservato all’amicizia. Pip e Herbert assurgono ad esempio di quanto una amicizia sincera e reciproca possa compensare, oltre che aiutare, le occasioni sfortunate della vita.

L’evaso Abel Magwitch, quello che Pip aveva incontrato anni prima nella palude, allo stesso modo di Miss Havisham sta cercando, pure lui, la sua rivincita contro la società e contro la disperazione della propria esistenza dedicandosi a Pip.

Quel motivo dominante del riscatto, la cui possibilità viene offerta a tutti, si disegna con forti connotati, al punto che si può sostenere che è piuttosto Pip che, baciato dalla fortuna, compirà paradossalmente un cammino inverso e pericoloso, rispetto a questi due personaggi, un cammino durante il quale rischia di smarrirsi, e sarà attraverso la conoscenza più approfondita del forzato Abel che ritroverà la sua rotta: “non avrei certo supposto che un giorno, nel lasciarlo, mi sarei sentito il cuore così oppresso e angosciato come ora.”

Si è già annotato, nel commentare altri romanzi, quanto Dickens ami trattare la natura come una persona. Questo amore si rivela anche qui, allorché Pip si reca da Miss Havisham, dopo che Abel, il forzato, ha raccontato una storia che è collegata al mistero che avvolge la donna che ha scelto di vivere reclusa nel suo palazzo: “il giorno arrivò, muovendosi con passo lento, fermandosi e piagnucolando e tremando, avvolto in pezze di nuvole e stracci di nebbia, come un mendicante.”

Spesso la natura partecipa sia alle gioie che ai dolori degli uomini, e quantomeno, anche se in taluni casi resta, o pare restare, indifferente, essa sta lì intorno a noi come parte viva della nostra esistenza. Perfino le cose inanimate, gli oggetti, gli arredi di una casa prendono parte alla nostra esistenza. Nello studio di Mr Jaggers, sopra il caminetto, ci sono due teste scolpite, ed esse non poche volte si animano quando Pip le osserva: “la fiamma, che saliva e scendeva guizzando, creava l’impressione che i due calchi sullo scaffale si stessero impegnando in un diabolico gioco a nascondino con me”. Dickens assorbe ogni cosa creata dal suo narrare e la dona al lettore con il divertimento e la gioia di colui che sa di poter scorgere, interpretare, capire e sciogliere i tanti misteri che ci circondano con il semplice tocco vivificante della scrittura.

Si guardi, nel capitolo cinquantaquattresimo, come rivive e si anima il Tamigi di quel tempo, percorso in ogni direzione da chiatte, barche a remi, navi carboniere.

E si guardi come s’illumini la verità dell’esistenza nei due binomi Pip e Estella da una parte, e Biddy e Joe dall’altra, che diventano parametri di due possibili scelte e di due possibili esiti. Le grandi speranze di Pip, ma anche quelle dell’altezzosa Estella, finiranno per stare rinchiuse in un pugno di piccole, minime cose, e la lezione che se ne ricava sarà anche quella, perciò, che, in ogni caso, gli errori compiuti s’imprimono sempre nella nostra anima con una venatura di malinconia che non ci abbandonerà mai più.

“Il circolo Pickwick”

Mi ha fatto piacere che l’amico Prof. Luca Curti dell’Università di Pisa, ne La rassegna lucchese, 1/2000, da lui diretta insieme con lo scrittore Antonio Tabucchi, nel citare a mo’ di esempio, alcuni scrittori che dovrebbero rientrare di diritto in un cosiddetto canone europeo, vi includa Charles Dickens. La mia soddisfazione è dettata dal convincimento che questo autore è uno dei più straordinari narratori della letteratura universale. Si possono certamente trovare autori che appaiano più profondi ed impegnati nella denuncia dei mali della nostra società, ma non v’è dubbio che è difficile incontrarvi qualità narrative pari a quelle dello scrittore inglese. In lui io assaporo sempre e respiro la cosiddetta felicità del narrare, e non vi è passaggio stilistico, arduo quanto si voglia, che Dickens non lo superi magnificamente. Il libro che qui segnalo è tra i suoi maggiori, se non addirittura il suo capolavoro. Vi sono rappresentati personaggi e situazioni a non finire, tutti sorretti da una vena creativa inesauribile. Il grassottello Samuele Pickwick è il primo personaggio della lista che merita una sottolineatura. La certezza che egli nutre delle sue qualità, lo conduce a percorsi esilaranti, quali ad esempio l’incontro che egli, sbagliando camera, ha con la signora Bardell, che gli intenterà causa. Quando, nel capitolo XXXIII, il servitore Sam Weller si accinge a scrivere una lettera (anche suo padre Tony è personaggio di enormi risorse), ne scaturisce una situazione comica davvero insuperabile. Anche la lite tra i coniugi Pott corre su pagine indimenticabili, al capitolo XVIII. Ma questi sono solo pochi esempi, poiché questo autentico gioiello letterario ha sorprese nascoste ad ogni voltar di pagina.

Alcune frasi che riproduco nella traduzione di Lodovico Terzi: “Non c’è magistrato in carica che, per ogni provvedimento che prende, non prenda anche due cantonate”; “amici e dipendenti costituiscono un ottimo pubblico”, “un uomo non sa mai di che cosa è capace, finché non ha provato”.

“David Copperfield”

“Oh, Agnese, oh, anima mia, possa il tuo viso essere accanto a me quando chiuderò veramente la mia vita; così possa io, quando la realtà si allontanerà da me, come i fantasmi che ora lascio, ancora trovarti accanto a me nell’atto di indicarmi il Cielo!” (trad. Anna Gerola). Sono le parole rivolte alla sua amata che chiudono questo libro colmo di tenerezza, conosciuto in tutto il mondo e da cui sono stati tratti molti film. È la storia della giovinezza di Dickens che, sebbene fortunato nel campo delle lettere, a cui arrise la notorietà sin dai primi tentativi, non fu altrettanto baciato dal destino nella vita. La scrittura è ricca di suggestioni e la sua plasticità riesce a disegnare come viventi personaggi che sono entrati ormai nell’immaginario collettivo. Così è per il simpatico Micawber, sempre in cerca di denaro e facile a firmare cambiali, ma profondamente onesto, al punto che sarà lui a smascherare la trappola in cui sta per cadere il povero Copperfield, animo troppo buono ed ingenuo, finito sotto le grinfie di un viscido e magnificamente descritto Uriah Heep. Il signor Dick, a cui la zia di Copperfield chiede sempre consiglio, e apparentemente sciocco, è un altro dei ritratti donato al mondo, e per sempre, da Dickens.

La frase che il vetturale Barkis dice a David , nel capitolo XVIII: “niente è più vero delle tasse” è di straordinaria attualità.

“Oliver Twist”

In un mio libro ancora inedito: “Caro papà, Caro figlio”, un ragazzo viene convinto ad andare a Londra dal nonno, con l’incarico di ritrovare le strade, gli abitati, i paesaggi descritti da Dickens. È proprio, e soprattutto, in questo libro che viene dipinta ed immortalata la Londra dei suoi tempi, osservata nei quartieri poveri e decaduti, dove domina la sofferenza, il raggiro, la miseria materiale e morale. Il protagonista del libro è in questo ambiente che si muove, caduto nella rete del furfante Fagin, la cui stamberga e le cui fattezze restano impresse nella mente del lettore in modo indelebile. Come il cattivo Sikes, che alla fine nel capitolo XLVII uccide la buona e bella Nancy. Naturalmente anche in questo romanzo è lo stile fascinoso che tiene avvinto l’interesse del lettore, il quale resta ammirato dalla semplicità della scrittura, tanto comprensibile e diafana che per molti anni la critica ha ritenuto Dickens un autore per ragazzi, mentre i suoi ritratti e le sue storie hanno la dimensione e l’acutezza di una rappresentazione universale che attraversa, incontaminata, il tempo e lo spazio.

Fa dire l’autore ad uno dei suoi personaggi, il signor Brownlow, che “ci sono libri di cui la copertina e il dorso sono la parte migliore”. Non è così anche oggi?


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart