Una fragile grandezza12 Febbraio 2013 di Ferruccio de Bortoli Sorprendendo anche i suoi stretti collaboratori, Benedetto XVI ha deciso di lasciare la Cattedra di Pietro. E ha impresso, all’apparenza, una svolta di grande modernità alla Chiesa. L’equivalente di una riforma conciliare. Da credenti vorremmo tanto pensare, nella tristezza dell’occasione, che questa sia l’interpretazione più corretta. Al papato che si concluderà a fine mese la Storia assegnerà un posto di rilievo. Di straordinaria levatura è stato l’insegnamento teologico; di grande autorevolezza la difesa dell’identità cattolica; di infinita profondità culturale e umana la testimonianza pastorale. La Chiesa ha avviato con Benedetto XVI un’essenziale opera di trasparenza e pulizia. Il coraggio non è mancato, così le amarezze e i tradimenti. Il gesto del Papa è sintomo di estremo senso di responsabilità, esprime un amore per la dimensione spirituale e autentica della Chiesa che resterà nelle menti e nei cuori. È frutto della consapevolezza che occorra una guida più giovane, non indebolita dall’età, capace di affrontare le sfide di una secolarizzazione dai tratti selvaggi. È la dimostrazione di una forza morale esemplare. Ma anche il segno, purtroppo, della intrinseca ed evidente debolezza politica del successore di Wojtyla. Le dimissioni sono la conseguenza di un tormento interiore. E il precipitato del carattere. Umile, schivo, più avvezzo a chinarsi sui libri che a discutere degli affari di Stato o delle spinose questioni della cattolicità in trincea. Un combattente dell’anima, una luce che illumina la Parola (solo un grande teologo poteva trovare il coraggio di dimettersi), non un condottiero della fede. Così diverso dal suo predecessore, prorompente anche nella fisicità (ma quando salì al soglio aveva appena 58 anni), che decise di morire sul Calvario della malattia. Le precarie condizioni di salute sono state una componente decisiva nell’accelerare le dimissioni. Certo. Gli impegni di un Pontefice sono massacranti. E oggi è impensabile un successore di Pietro che appaia in veste solenne solo qualche volta l’anno o mascheri in lontananza le proprie condizioni fisiche. Ma il senso di solitudine deve essere stato devastante. Il Papa si è sentito ed è stato lasciato solo. Sofferente e piegato dall’età, ha compiuto un atto di perfetta coerenza con il suo pensiero e con le sue attitudini di studioso, un atto forse anticipato da quel pallio lasciato nel 2009 sulla tomba di Celestino V, ma certamente incoraggiato dalla insensibilità di una Curia che anziché confortarlo e sorreggerlo è apparsa, in diversi suoi esponenti, più impegnata in giochi di potere e lotte fratricide. E Benedetto XVI, azzardiamo una interpretazione, non potendola rinnovare in profondità come avrebbe voluto, ha affidato il compito al proprio successore. La Chiesa popolare, che vive il Vangelo della quotidianità, e l’intera società sperano che la scelta del nuovo vicario di Cristo sia conseguente alla grandezza di un gesto profetico e rivoluzionario. Dietro il sacrificio estremo di un intellettuale le ombre di un «rapporto segreto » choc Non essendo riuscito a cambiare la Curia, Benedetto XVI è arrivato ad una conclusione amara: va via, è lui che cambia. Si tratta del sacrificio estremo, traumatico, di un pontefice intellettuale sconfitto da un apparato ritenuto troppo incrostato di potere e autoreferenziale per essere riformato. È come se Benedetto XVI avesse cercato di emancipare il papato e la Chiesa cattolica dall’ipoteca di una specie di Seconda Repubblica vaticana; e ne fosse rimasto, invece, vittima. È difficile non percepire la sua scelta come l’esito di una lunga riflessione e di una lunga stanchezza. Accreditarlo come un gesto istintivo significherebbe fare torto a questa figura destinata e entrare nella storia più per le sue dimissioni che per come ha tentato di riformare il cattolicesimo, senza riuscirci come avrebbe voluto: anche se la decisione vera e propria è maturata domenica. Quello a cui si assiste è il sintomo estremo, finale, irrevocabile della crisi di un sistema di governo e di una forma di papato; e della ribellione di un «Santo Padre » di fronte alla deriva di una Chiesa-istituzione passata in pochi anni da «maestra di vita » a «peccatrice »; da punto di riferimento morale dell’opinione pubblica occidentale, a una specie di «imputata globale », aggredita e spinta quasi a forza dalla parte opposta del confessionale. Senza questo trauma prolungato e tuttora in atto, riesce meno comprensibile la rinuncia di Benedetto XVI. È la lunga catena di conflitti, manovre, tradimenti all’ombra della cupola di San Pietro, a dare senso ad un atto altrimenti inesplicabile; e per il quale l’aggettivo «rivoluzionario » suona inadeguato: troppo piccolo, troppo secolare. Quanto è successo ieri lascia un senso di vuoto che stordisce. E nonostante la sua volontà di fare smettere il clamore e lo sconcerto intorno alla Città del Vaticano, le parole accorate pronunciate dal Papa li moltiplicano. Aggiungono mistero a mistero. Ne marcano la silhouette in modo drammatico, proiettando ombre sul recente passato. Consegnano al successore che verrà eletto dal prossimo Conclave un’istituzione millenaria, di colpo appesantita e logorata dal tempo. E adesso è cominciata la caccia ai segni: i segni premonitori. Come se si sentisse il bisogno di trovare una ragione recondita ma visibile da tempo, per dare una spiegazione alla decisione del Papa di dimettersi: a partire dall’accenno fatto l’anno scorso da monsignor Luigi Bettazzi; e poco prima dall’arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, che si era lasciato scappare questa possibilità durante un viaggio in Cina, ipotizzando perfino un complotto contro Benedetto XVI. Ma la ricerca rischia di essere una «via crucis » nella crisi d’identità del Vaticano. Riaffiora l’immagine di Joseph Ratzinger che lascia il suo pallio, il mantello pontificio sulla tomba di Celestino V, il Papa che «abdicò » nel 1294, durante la sua visita all’Aquila dopo il terremoto, il 28 aprile del 2009. Oppure rimbalza l’anomalia dei due Concistori indetti nel 2012 «per sistemare le cose e perché sia tutto in ordine », nelle parole anodine di un cardinale. O ancora tornano in mente le ripetute discussioni col fratello sacerdote Georg, sulla possibilità di lasciare. Qualcuno ritiene di vedere un indizio della volontà di dimettersi perfino nei lavori di ristrutturazione dell’ex convento delle suore di clausura in corso nei giardini vaticani: perché è lì che Benedetto XVI andrà a vivere da «ex Papa », dividendosi col palazzo sul lago di Castel Gandolfo, sui colli a sud di Roma. L’ Osservatore romano scrive che aveva deciso da mesi, dall’ultimo viaggio in Messico. Ma è difficile capire quando l’intenzione, quasi la tentazione di farsi da parte sia diventata volontà e determinazione di compiere un gesto che «per il bene della Chiesa », nel breve periodo non può non sollevare soprattutto domande; e mostrare un Vaticano acefalo e delegittimato nella sua catena di comando ma soprattutto nel suo primato morale: proprio perché di tutto questo Benedetto XVI è stato l’emblema e il garante. «Il Papa continua a scrivere, a studiare. È in salute, sta bene », ripetono quanti hanno contatti con lui e la sua cerchia. «Non è vero che sia malato: stava preparando una nuova enciclica ». Dunque, la traccia della malattia sarebbe fuorviante. Smonta anche il precedente delle lettere riservate preparate segretamente da Giovanni Paolo II nel 1989 e nel 1994, nelle quali offriva le proprie dimissioni in caso di malattia gravissima o di condizioni che gli rendessero impossibile «fare il Papa » in modo adeguato. Ma l’assenza di motivi di salute rende le domande più incalzanti. E ripropone l’unicità del passo indietro. Il gesuita statunitense Thomas Reese calcola che nella storia siano state ipotizzate le dimissioni di una decina di pontefici. Ma fa notare che in generale i papi moderni hanno sempre scartato questa possibilità. Eppure, gli scritti di Ratzinger non hanno mai eluso il problema, anzi: lentamente affiora la realtà di un progetto accarezzato da tempo. «I due Georg sapevano », si dice adesso, alludendo al fratello Georg Ratzinger e a Georg Gänswein, segretario particolare del pontefice. Forse, però, colpisce di più che fosse all’oscuro di tutto il cardinale Angelo Sodano, ex segretario di Stato e numero uno del Collegio Cardinalizio; e con lui altre «eminenze », che parlano di «fulmine a ciel sereno ». È come se perfino in queste ore si intravedesse una singolare struttura tribale, che ha dominato la vita di Curia con amicizie e ostilità talmente radicate da essere immuni a qualunque richiamo all’unità del pontefice. Sotto voce, si parla del contenuto «sconvolgente » del rapporto segreto che tre cardinali anziani hanno consegnato nei mesi scorsi a proposito di Vatileaks, la fuga di notizie riservate per la quale è stato incriminato e condannato solo il maggiordomo papale, Paolo Gabriele. Si fa notare che da oltre otto mesi lo Ior, l’Istituto per le opere di religione considerato «la banca del Papa », è senza presidente dopo la sfiducia a Ettore Gotti Tedeschi. Rimane l’eco intermittente dello scandalo dei preti pedofili, che pure il pontefice ha affrontato a costo di scontrarsi con una cultura del segreto ancora diffusa negli ambienti vaticani. E continuano a spuntare «buchi » di bilancio a carico di istituti cattolici, dopo la presunta truffa milionaria a danno dei Salesiani: un episodio imbarazzante per il quale il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ha inutilmente cercato la solidarietà e la comprensione della magistratura italiana. È questa eredità di inimicizie, protagonismi, lotta fra correnti, faide economiche con risvolti giudiziari che sembra aver pesato più di quanto si immaginasse sulle spalle infragilite di Benedetto XVI. È come se avesse interiorizzato la «malattia » della crisi vaticana di credibilità, irrisolta e apparentemente irrisolvibile. Conferma il ministro Andrea Riccardi, che lo conosce bene: «Ha trovato difficoltà e resistenze più grandi di quelle che crediamo. E non ha trovato più la forza per contrastarle e portare il peso del suo ministero. Bisogna chiedersi perché ». Ma nel momento in cui decide di dimettersi da Papa, Benedetto XVI infrange un tabù plurisecolare, quasi teologico. Fa capire alla nomenklatura vaticana che nessuno è insostituibile: nemmeno l’uomo che siede sulla «Cattedra di Pietro ». E apre la porta a una potenziale ondata di dimissioni. Soprattutto, addita al Conclave la drammaticità della situazione della Chiesa. Dà indirettamente ragione a quegli episcopati mondiali, in particolare occidentali, che da mesi osservano la Roma papale come un nido di conflitti e manovre fra cordate che da tempo pensano solo alla successione. L’annuncio delle dimissioni avviene in coincidenza con l’anniversario dei Patti lateranensi; e nel bel mezzo di una campagna elettorale: al punto che ieri alcuni leader si chiedevano se interrompere per un giorno i comizi. Ma già si guarda avanti. Bertone ha chiesto di incontrare per una decina di minuti il capo dello Stato Giorgio Napolitano prima della festa in ambasciata di oggi pomeriggio. E il «toto-Papa » impazza, con le scommesse fuorvianti sull’«italiano » o il «non italiano ». Stavolta, in realtà, sarà un Conclave diverso. Il sacrificio di Benedetto XVI, per quanto controverso, mette tutti davanti a responsabilità ineludibili. Il pastore e il potere UN ATTO rivoluzionario le dimissioni del Papa. E certamente lo è. Non era mai accaduto, salvo con Celestino V che vi fu costretto dai francesi che poi continuarono ad esercitare il loro potere su Bonifacio VIII fino allo schiaffo di Anagni. E salvo un paio di Papi e anti-Papi eletti da contrapposti concili e conclavi medievali. Il canone prevede le dimissioni e perfino papa Ratzinger ne ammise la possibilità in un suo libro-intervista di due anni fa; ma altro è il dire, altro il fare. Dunque un fatto rivoluzionario. Ma qual è la natura e quali saranno le conseguenze di questa rivoluzione?La natura è evidente: la Chiesa si laicizza. Il Papa è stato finora considerato all’interno della Chiesa e della comunità dei credenti, come Vicario di Cristo in terra e, infatti, quando parla “ex cathedra” su questioni di fede la sua parola è infallibile come decretò il Concilio Vaticano I del 1870. Questo punto è ancora l’ostacolo non superato che ha impedito l’unificazione tra cattolici e anglicani e tra cattolici e ortodossi della Chiesa orientale. Gli altri ostacoli erano in gran parte superati, perfino quelli della supremazia del Vescovo di Roma su tutti gli altri: il primate della Russia era pronto a riconoscere al Vescovo di Roma la primazia di “primus inter pares” ma non quella di Vicario in terra della Divinità. Le dimissioni di Benedetto XVI cancellano questo ostacolo; il canone infatti pone una sola condizione: che il Papa prenda la sua decisione in piena libertà, cioè che non gravi su di essa alcuna ombra di pressione e di ricatto. Il volere di Cristo non è neppure citato né Ratzinger ne fa menzione nelle brevi parole con le quali ha comunicato la sua decisione al Concistoro convocato ieri mattina per occuparsi di tutt’altri oggetti. Viene dunque meno il rapporto diretto tra il Capo della Chiesa e il Figlio di Dio e l’autorità del Vescovo di Roma su tutta la cristianità non deriva da altro che dall’elezione in conclave da parte dei cardinali, una cerimonia del tutto laica salvo il luogo in cui si svolge (la cappella Sistina che è una chiesa consacrata) e il profumo d’incenso e il suono delle campane che accompagnano il “Veni Creator Spiritus”. Le conseguenze di questa secolarizzazione e laicizzazione riguardano la distribuzione dei poteri all’interno della Chiesa: in parallelo con la diminuzione del ruolo del Papa aumenterà quella dei Concili e dei Sinodi, cioè delle assemblee dei Vescovi. Questa è stata la richiesta implicita ma evidente del Vaticano II, ma fu per oltre trent’anni la tesi esplicitamente sostenuta dal cardinale Martini. La Chiesa come istituzione – disse e scrisse Martini in libri, prediche e dialoghi – si fonda su due autorità, quella del Papa e quella dei Concili e dei Sinodi. Il Papa partecipa agli uni e agli altri con funzioni di coordinamento e di indirizzo, ma le decisioni vengono prese dai Vescovi che sono i depositari del lascito degli Apostoli di Gesù. Non si tratta di un fenomeno di scarso rilievo. Basti considerare che i Vescovi sono molto più interessati alla pastoralità che al potere della gerarchia curiale. La gerarchia curiale dovrebbe in teoria fornire alla pastoralità gli strumenti e i mezzi materiali per evangelizzare le anime e diffondere il credo. La Chiesa militante è affidata ai pastori di anime, vescovi, parroci, sacerdoti, Ordini religiosi. Ma questa è storicamente soltanto una parte della realtà. La Chiesa-istituzione avrebbe dovuto rappresentare la custodia della Chiesa militante e pastorale; invece è avvenuto il contrario. Per secoli e millenni l’Istituzione ha soffocato la pastoralità e ha promosso guerre, inquisizioni, corruzione, simonia. Non si è trattato di episodi ma d’una continuità storica il cui perno è stato il potere temporale. Ricordate le Crociate? Ricordate la guerra delle Investiture che ebbe Canossa come tappa essenziale? Ricordate l’esilio avignonese? Le alleanze, il nepotismo, le dinastie fondate dai papi: i Colonna, gli Orsini, i Caetani, i Farnese, i Piccolomini, i Borghese, i Della Rovere. E i Borgia? La pastoralità ciononostante continuò e sparse il suo seme largamente e preziosamente e questo fu un vero miracolo. Ma il volto complessivo della Chiesa ne uscì largamente imbrattato. Le sue capacità di confrontarsi con la modernità furono fortemente ridotte. Questa situazione avrebbe potuto migliorare con la fine del potere temporale propriamente detto, ma non è stato così. La Chiesa-istituzione ha mantenuto il sopravvento sulla Chiesa militante e pastorale, recuperando quel potere attraverso la politica e la fascinazione dello spettacolo. Il pontificato di papa Pacelli fu il culmine della temporalità politica, non a caso preceduto dal concordato Pio XI-Mussolini; lo spettacolo ebbe invece la sua più fulgida stella nella figura di papa Wojtyla che usò affrontando sofferenze terribili perfino la sua agonia e la sua morte. Ma questi miracoli (perché furono miracoli d’intelligenza ed anche di fede e di dolore) non risolsero i problemi della Chiesa. Li evasero e li lasciarono ai successori. Quei problemi, col trascorrere del tempo, si sono aggravati. Riguardano il recupero del Sacro, la dedizione dei fedeli alla carità, la Chiesa povera, la Chiesa missionaria, la fede nella vita, il contrasto fra la libertà dei moderni e la dogmatica dei tradizionalisti. E i cento e mille problemi che pone la bioetica, la psicologia del profondo, le diseguaglianze del mondo. Le differenze insanate e forse insanabili tra la Chiesa di Paolo, quella di Agostino, quella di Benedetto, quella di Francesco. A noi non credenti piacerebbe molto che il futuro Papa e Vescovo di Roma in mezzo a tante proclamazioni di santi che non fanno più miracoli (ammesso che quelli del passato ne avessero fatti) proponesse quella di Pascal. Sarebbe il vero segnale che qualche cosa sta cambiando nei palazzi apostolici. Se fosse vissuto più a lungo forse papa Giovanni l’avrebbe fatta. Benedetto XVI, ora più che mai è il successore di Pietro Per quasi tutti è stata una sorpresa, per chi lo conosceva anche solo un poco, come me, no. Perché Benedetto XVI è innanzitutto un uomo coerente tra il suo dire e l’operare. Aveva detto più volte, e lasciato pubblicare nel libro-intervista con Peter Seewald «Il Papa, la Chiesa, i segni dei tempi », che avrebbe potuto dimettersi. Qualora fosse giunto «alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico » di successore di Pietro. E così ha fatto, quando davanti a Dio ha esaminato la propria coscienza. Un gesto compiuto anche nella consapevolezza che nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti, occorre il vigore di chi è più giovane, «sia nel corpo sia nell’animo ». Così si è dimesso, ma preparando con cura questo giorno. Aveva celebrato un concistoro in novembre, per dare un volto maggiormente universale al collegio cardinalizio, aveva terminato la sua fatica di fede e di testimonianza nello stendere una lettura di Gesù morto e risorto, vissuto realmente negli anni della nostra storia, approfondendone i vangeli dell’infanzia. E speriamo che prima del 28 febbraio consegni – quasi come suo testamento – l’enciclica sulla fede, dopo le due luminose sull’amore e sulla speranza. Noi attendiamo ancora questo dono da lui. Non è questo il momento di tracciare un bilancio, ammesso che si possa fare, sui quasi otto anni del suo ministero petrino: un pontificato che ha attraversato la nostra storia non facile, non semplice e a volte anche enigmatica, una storia piena di mutamenti globali nel mondo occidentale (l’aggravarsi di una crisi culturale e una crisi economica mai conosciuta nei tempi recenti) e di rivoluzioni nel mondo arabo che giudichiamo «primavere » ma che vediamo attraversate da gelate repentine; un tempo di incertezze e di mutamenti nell’etica, soprattutto nelle culture un tempo cristiane. Sono stati anni in cui Benedetto XVI ha continuato ad ammonire la Chiesa, accettandone la condizione minoritaria, chiedendole di essere minoranza significativa, capace di esprimere la differenza cristiana in un mondo indifferente e nel contempo segnato dalla presenza simultanea di molte religioni nello stesso luogo. Lo si è definito più volte un papa conservatore, ma questo gesto lo mostra come innovatore: rompe, infatti, una tradizione di duemila anni in cui tutti i vescovi di Roma sono morti di morte violenta o di malattia o di vecchiaia (papa Celestino V dimissionò, ma costretto da chi sarebbe diventato il suo successore). Così il cattolico è invitato a guardare più al ministero petrino che non alla persona del Papa: questo è certamente un fatto rivoluzionario e, ritengo, anche più evangelico. Chi esercita l’episcopato o un servizio di presidenza nella Chiesa, lo fa in comunione con Cristo Signore in misura del grado in cui è stato posto, ma una volta cessato l’esercizio del ministero, un altro può continuarlo e la persona che lo ha esercitato in precedenza scompare, diminuisce, si ritira. La domanda che già sentiamo risuonare – come sarà con due papi viventi? – in realtà non sussiste, perché uno solo sarà il Papa. Benedetto XVI tornerà a essere il cardinal Ratzinger e non possederà più quella grazia e quell’autorevolezza dello Spirito santo che saranno possedute da chi sarà eletto nuovo Papa dal legittimo collegio cardinalizio. Su questo la dottrina cattolica è chiara e non permette che una persona sia più determinante del ministero che gli è stato affidato. In ogni caso, conoscendo l’umiltà di Benedetto XVI, siamo certi che egli – come promette nel messaggio rivolto ieri ai cardinali – si dedicherà alla preghiera e anche lui pregherà con la Chiesa intera per Pietro, per il nuovo Papa, ben sapendo di non esserlo più: avverrà per il vescovo di Roma, come per i vescovi emeriti delle altre diocesi. Papa Benedetto ha compiuto un grande gesto, evangelico innanzitutto, e poi umano. In uno stupendo commento ai salmi, sant’Agostino – un padre della chiesa tra i più amati da Benedetto XVI – leggiamo: «Si dice che quando i cervi migrano in gruppo o si dirigono verso nuove terre, appoggiano il peso delle loro teste scambievolmente gli uni sugli altri, in modo che uno va avanti e quello che segue appoggia su di esso la sua testa… quello che sta in testa sopporta da solo il peso di un altro, quando poi è stanco passa in coda, giacché al suo posto va un altro a portare il peso che prima portava lui e così si riposa dalla sua stanchezza, poggiando la sua testa come la poggiano gli altri” (Commento al Salmo 41). Così la presenza di Ratzinger nella Chiesa non si conclude. Sarà un presenza altra e non meno significativa: una presenza di intercessione. Si metterà cioè tra Dio e gli uomini, non per compaginarli nella comunione cattolica – questo non sarà più il suo compito – ma per chiedere che Dio continui a inviare le energie dello Spirito santo sulla Chiesa e i suoi doni sull’umanità. Molti oggi vorrebbero dire a papa Benedetto XVI: «Grazie, santo Padre! » per il suo disinteresse, per la sua sollecitudine affinché anche il Papa sia decentrato rispetto a colui che dà il nome di cristiani a molti uomini e donne che hanno fede solo in lui: Gesù Cristo! Si diceva che questo Papa ha grandi parole ed è incapace di gesti: il più bel gesto ce lo lascia ora, come Pietro che ormai anziano – dice in Nuovo Testamento – «se ne andò verso un altro luogo » continuando però a seguire il Signore. Benedetto XVI appare successore di Pietro più che mai, anche nel suo esodo. Pera: ha voluto evitare l’agonia pubblica di Giovanni Paolo II ROMA «Ci siamo visti spesso, più volte, ma quando ci incontriamo parliamo di filosofia e teologia. Non siamo mai entrati nello spe cifico di una scelta che mi ha col pito ma non mi ha trovato impre parato ». Marcello Pera, filosofo laico di matrice empirista ed ex presidente del Senato, con Jose ph Ratzinger ha cementato un’amicizia ufficializzata nel 2004 con la pubblicazione del li bro “Senza Radici” scritto a quat tro mani. Un confronto continua to per tutta la durata del pontifi cato. Quindi un po’ se l’aspettava? Che cosa pensa di un gesto così innovatore compiuto da un Pa pa che veniva considerato un conservatore? «Indubbiamente crea un prece dente. Ovvero che d’ora in poi ciascun Papa dovrà valutare, nel suo silenzio, qual è il limite oltre il quale ritiene di non poter anda re. Questo adesso diventa possi bile mentre sino a Giovanni Pao lo II l’unico limite era la morte in pubblico. L’agonia pubblica. Da adesso in poi non è così e questo è un precedente nella storia della Chiesa ». Lei che lo frequentava pensa che sulla sua scelta abbia influ ito la lunga malattia pubblica del suo predecessore? Che cosa gli pesava di più? «Il declino della sua forza fisica, che ha sempre misurato rispetto agli impegni e al compito che Dio si aspettava da lui, credo sia stato alla base della sua scelta compiuta con la consueta sereni tà ». Non c’è stato un argomento re lativo agli affari della Chiesa che possa averlo spinto alla decisione? «Per quanto ho capito io nè le dif ficoltà, nè gli scandali, nè i pro blemi interni o esterni alla Chie sa lo hanno mosso più di tanto. Una scelta dovuta anche a co me la medicina e la tecnologia riescono ad allungare la vita? «Non c’è dubbio che hanno por tato il limite oltre. Lui però è sempre stato critico su cos’è l’oltre. Non si può sfidare con la ra gione, perché la medicina è una ragione, la natura umana. E allo ra è coraggioso anche in questo perché non si è affidato alla ra gione strumentale della medici na ». Pensa che tale scelta avrà delle ripercussioni anche nell’orga nizzazione della Chiesa? «Ritengo di sì. Non credo che ver ranno prese decisioni per i papi simili a quelle che riguardano i cardinali, ma penso che ogni Pa pa, scelto dallo Spirito Santo, sa prà che potrà rivolgersi allo stes so Spirito Santo quando non sen tirà più le forze ». Questa notizia avrà delle rica dute sul dibattito politico? «(Il professore sorride ndr) Tra i nostri ambiziosissimi leader che in questi giorni promettono tut to – uno in particolare – c’è chi vorrà anche succedergli, ma non credo avrà influenza sui risultati elettorali ». Jacques Le Goffe, qui. Vittorio Messori, qui. Marcello Veneziani, qui. Letto 1479 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||