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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Il vizio di consegnarsi allo straniero

7 Febbraio 2013

di Vittorio Macioce
(da “il Giornale”, 7 febbraio 2013)

È una tentazione che viene da lontano, come un istinto antico, quando non si riescono a regolare i conti in casa si chiama in soccorso lo straniero.
E pazienza se poi il «liberatore » non si accontenta di fare da paciere, ma si prende un pezzo d’Italia come compenso per la scocciatura. Qualcuno in fondo deve pur pagare la chiamata. Monti e Bersani per liquidare una volta per tutte Berlusconi sono andati fino a Berlino e lì la signora Merkel li ha convinti che c’è un solo modo per non correre rischi: allearsi contro l’usurpatore. Il resto non conta. Vendola può far finta di piangere, gli italiani possono non capire, non è importante. Se poi dovesse comunque andare male, se quello resta lì testardo e non cade, non molla, ci penserà la Germania, o l’Europa, o l’America, o l’anonima mercati a trovare il modo per una spinta finale. Il voto? serve solo a dare un’apparenza di democrazia. Certe decisioni vanno prese in alto, molto più in alto.
Monti e Bersani in fondo non sono mica a primi a sperare nello straniero. Pensate a quella vecchia storia di guelfi e ghibellini. Non è solo una disfida da tifosi tra chi sta con il Papa e chi con l’imperatore. È potere. È affari. È il controllo delle città. Sono famiglie contro e una delle due è di troppo. Il risultato può essere solo binario: o tutto o niente, uno o zero. È una guerra civile che contagia tutte le città del Settentrione, da Milano a Siena, con Roma papale che naturalmente guarda tutto con gran interesse. Come si risolve? Ci pensa Carlo D’Angiò, re di Napoli e capostipite della dinastia cadetta del trono francese.
Fatti fuori i nemici non è che i guelfi se ne stanno buoni e tranquilli. Siccome il potere è il potere cominciano a litigare tra di loro. È quello che segna a Firenze il destino di Dante, fatto di esilio, di quanto sa di sale lo pane altrui. È la storia dei bianchi e dei neri. Tutti per il Papa, per carità di Dio, ma i bianchi sono un’oligarchia nobile, i neri sono mercanti parecchio arricchiti. Sono Cerchi e Donati. La questione si chiude con i neri che chiamano Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello di Francia. Lo chiameranno Paciaro di Toscana. La pace finisce con la cacciata dei bianchi, Alighieri compreso.
Un bel po’ di tempo prima, nel 1176, Alberto da Giussano, leghista a sua insaputa, si ritrovò a Legnano al comando della compagnia della morte a combattere contro l’armata imperiale. Uno scontro da Guerre Stellari, una masnada di cavaliere beffa la potenza quasi invincibile del potere assoluto. Ma chi lo chiama Barbarossa in Italia? Gli italiani, o meglio, un gruppetto di Comuni tra cui Lodi, Pavia e Como per ridimensionare le ambizioni di Milano.
Storia che si ripete nel 1494 con Carlo VIII, che si presenta con ventimila uomini armati e un corpo d’artiglieria efficiente e innovativo. Ancora quelli di Como o di Lodi? No, stavolta è Milano. L’idea è di Ludovico Sforza, detto il Moro. Chiama il francese per mettere a posto il re Aragonese Ferrante I, che sostiene suo cognato Gian Galeazzo Sforza. Insomma, roba di «poltrone ». Sarà sempre così. Sarà così nel Risorgimento, con lo Stato Pontificio che piange. Sarà così quando Peppone e Don Camillo si trovano uno sponsor potente a Mosca o a Washington. La morale è sempre la stessa: pur di cacciare il vicino di casa siamo pronti a svendere tutto il condominio.


Monti e Bersani, magliari dei tedeschi
di Arturo Diaconale
(da “L’Opinione”, 7 febbraio 2013)

Massimo D’Alema si è infilato per un attimo nei vecchi panni di Alberto Sordi ed ha definito la proposta sull’Imu di Silvio Berlusconi una “sola”. Ma la vera “sola” in circolazione è quella che, prima Mario Monti e successivamente Pier Luigi Bersani, sono andati a presentare in Germania ai componenti del governo di Angela Merkel. Questa “sola” è rappresentata dalla assicurazione che dopo le prossime elezioni solo un governo formato dai neo-centristi e dal Partito democratico sarà in grado di dare quella stabilità all’Italia che le principali cancellerie dell’Europa del Nord considerano indispensabile per salvare l’euro ed i rispettivi interessi nazionali.

Per illustrare la “sola” di Monti e Bersani ancora una volta serve la citazione di Alberto Sordi. I due esponenti politici italiani, infatti, si sono comportati come il personaggio interpretato dall’attore romano nel film “I magliari”. Hanno messo nella loro metaforica valigia di cartone una serie di stoffe fasulle spacciate come pregiate e si sono recati nella terra dei crucchi con l’intento di vendere al meglio la loro merce scadente puntando sulla dabenaggine congenita dei possibili acquirenti.

Può stupire che l’algido professore della Bocconi si comporti come un furfantello meridionale degli anni ‘50. E si può rimanere perplessi di fronte all’idea che un emiliano di scuola post-comunista possa mettersi ad imitare non i bagnini romagnoli degli anni ‘60 ma i “sola” romani della stessa epoca. È un fatto indubitabile, però, che Monti e Bersani sono andati in Germania a vendere un prodotto taroccato. La loro assicurazione di poter dare vita ad una coalizione di governo stabile costituisce una truffa bella e buona. Può essere che i tedeschi ci caschino perché si rifiutano di conoscere a fondo la realtà politica italiana o perché fa loro piacere e comodo scoprire di avere dei vassalli in quello che continuano a considerare il Bel Paese del Sacro Romano Impero. Ma quello che Monti e Bersani hanno apparecchiato ai loro danni è una autentica “magliarata”. All’indomani del voto assisteranno compiaciuti alla formazione di un governo di coalizione da parte dei loro vassalli italiani. Ma ben presto, come capitava ai tedeschi truffati dai magliari con le stoffe taroccate, alla prima pioggia l’abito del governo spacciato per solido si infeltrirà e si restringerà drammaticamente e dovrà essere buttato la macero per trovare al più presto formule governative diverse o ripiegare su nuove elezioni anticipate.

La “sola” non è rappresentata dal patto che secondo Rosy Bindi dovrebbe stare alla base della futura coalizione di sinistra-centro. Cioè la guida del governo a Bersani e quella della politica economica a Monti. Se tutto si potesse risolvere in un accordo di potere ed in una distribuzione accorta di poltrone, la faccenda potrebbe anche funzionare. Il guaio è che per reggere e assicurare la stabilità venduta ai tedeschi questo patto non dovrebbe essere firmato solo da Bersani, Monti e da Vendola ma anche dalla Cgil. Che è il vero azionista di maggioranza della società politica rappresentata dal segretario del Pd. E fino ad ora non sembra proprio che il maggior sindacato italiano abbia una qualche intenzione di accettare la politica economica che dovrebbe essere portata avanti da Monti. Al contrario, in piena coerenza con la linea tenuta dagli anni ‘70 ad oggi, la Cgil non sembra disposta a cedere di un millimetro nei confronti di chi chiede riforme strutturali sul mercato del lavoro, sulle pensioni, sulla sanità, sulla scuola.

Il governo tedesco, quindi, farebbe bene a non farsi abbindolare dai nuovi magliari provenienti dall’Italia. E gli italiani farebbero ancora meglio a sconfessare e smascherare chi torna a rappresentarli all’estero come degli inguaribili imbroglioni.


L’inciucio sinistra-Monti: è già un tutti contro tutti
di Laura Cesaretti
(da “il Giornale”, 7 febbraio 2013)

Roma – «Voglio evitare che il centrosinistra si suicidi », è l’auspicio di Nichi Vendola. Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle.
Di certo, come ammettono gli interlocutori interni al Pd che ieri hanno avuto modo di parlare con Pier Luigi Bersani, la questione delle alleanze è «un po’ sfuggita di mano », e i contraccolpi dell’apertura a Mario Monti stanno causando una vistosa sbandata alla campagna elettorale del Pd.
Con quali esiti sull’elettorato, è ancora difficile valutarlo. I più ottimisti pensano che tutt’al più provocherà «uno spostamento di consensi moderati da Monti a noi », come dice un esponente della segreteria Pd.

I più pessimisti si mettono le mani nei capelli: «Se andiamo avanti così non avremo i numeri alla Camera, altro che al Senato », geme – tra il serio e il faceto – un dirigente Pd in predicato per un posto autorevole al governo. Che spiega così l’accaduto: «Bersani voleva rispondere alle richieste di appeasement e di comune battaglia contro Berlusconi arrivate da Monti, ma soprattutto cercava di rassicurare l’Unione europea e acquisire crediti con la Cancelliera Merkel, ancora molto diffidente nei nostri confronti. Ma si è fatto prendere la mano dall’aria tedesca e non si è reso conto di come la cosa sarebbe rimbalzata qui da noi ». Come sia rimbalzata lo sintetizzava efficacemente ieri l’ex Pd Francesco Rutelli: «Un boomerang pesantissimo: un accordo nascosto, smentito – ma che tutti intuiscono! – e che alimenta ineluttabilmente i consensi al Pdl, a Grillo, a Ingroia ». Togliendoli da un lato a Monti, dall’altro a Vendola e in mezzo al Pd.

Ieri tutti i protagonisti si son resi conto del boomerang, e sono corsi ai ripari cercando di ridimensionare, smentire, sfumare. «Non c’è nessun patto con il Pd », taglia corto Casini. «È stata data un po’ più di enfasi, forse per il timing, a parole che ripeto sempre », puntualizza Bersani che, in serata, intervistato dal Tg5 ribadisce nuovamente il concetto: «Con Vendola abbiamo un patto chiarissimo e nessuno pensa di poterlo rompere. Monti ministro? Ma non esiste… ».. «Immagino che se Bersani è interessato, come ha dichiarato, a una collaborazione con le forze che rappresento dovrà fare delle scelte all’interno del suo polo », avverte Monti. «Spero che Bersani non si voglia assumere la responsabilità di rompere l’alleanza del centrosinistra », avverte Vendola.

Il problema principale è appunto Sel: non tanto perché Vendola (che è un politico accorto e che vuole fortissimamente portare il suo partito al governo e all’unificazione col Pd) non sappia che la collaborazione post-elettorale coi centristi sarà probabilmente inevitabile, e non sia pronto ad accettarla, a suo tempo. Quanto perché annunciarla ora sarebbe – appunto – un suicidio. Gli emissari di Bersani che ci hanno parlato ieri lo hanno trovato su tutte le furie: «Ma vi rendete conto che così avete offerto un’autostrada ad Ingroia per cannibalizzarci a sinistra? Così ci facciamo male sul serio! ». E sono proprio i consensi in fuga da Sel ad allarmare il Nazareno, per i riflessi negativi che potrebbero avere su tutta la coalizione, erodendo ulteriormente i numeri al Senato. Insieme al timore, come rivelava ieri il sito Il Retroscena, ben informato sugli umori Pd, dell’«onda lunga dello scandalo Mps », sul quale «la grancassa mediatica potrebbe rinfocolarsi proprio a ridosso del turno elettorale ».

D’altronde anche in casa montiana si guarda con gran preccupazione al possibile «effetto boomerang »: la coalizione centrista non decolla nei sondaggi, e non accenna a sfondare quella quota 15% che potrebbe fare la differenza tra diventare l’ago della bilancia o essere condannati all’irrilevanza.
E la prospettiva di un patto di governo con Pd, Sel e Cgil può mettere in fuga i moderati. Chi non si fa spaventare dai boomerang è D’Alema, che ieri, ad un appuntamento elettorale in Puglia, ha ribadito: «È evidente che in Europa vogliono un’alleanza tra noi e Monti ».


Distruzioni di valore
di Sergio Rizzo
(dal “Corriere della Sera”, 7 febbraio 2013)

Leggendo le cronache di questi giorni c’è da rabbrividire. I magistrati sospettano che al Monte dei Paschi di Siena agisse una banda del 5 per cento, destinataria di una tangente su ogni operazione. Comprese quelle che danneggiavano la banca. La Seat Pagine Gialle, venduta nel 1996 dal Tesoro per 850 milioni, ha fruttato ai privati nei vari passaggi di mano almeno 12 miliardi. E sta ora scivolando in un penoso concordato dopo aver subito una colossale distruzione di valore, dai 23 miliardi dell’epoca d’oro a 17 milioni.

Su quel cadavere già spolpato a dovere volteggiano consulenti, professionisti, banche d’affari. Perché quando succede una cosa del genere state sicuri che lì intorno si muovono un sacco di soldi. Ha fatto scalpore la cifra impegnata nei primi due anni per la liquidazione Parmalat affidata a Enrico Bondi, pari a 32 milioni. Ma altrettanti ne avrebbe distribuiti in consulenze il liquidatore dell’Alitalia Augusto Fantozzi che, dopo aver ricevuto 6 milioni di compensi, ne avrebbe pretesi altri 3 successivamente alle dimissioni causate dalla decisione del precedente governo di sostituire il commissario unico con una terna. Tre commissari, tre compensi: mentre gli italiani già tiravano la cinghia.

Va detto che sarebbe ingiusto non considerare anche i risultati ottenuti, per esempio il salvataggio della Parmalat (poi finita ai francesi). Ma se in Italia le procedure di liquidazione durano decenni un motivo c’è, ed è legato ai soldi. In ogni caso l’ordine di grandezza di alcuni compensi ha oltrepassato di gran lunga la soglia moralmente accettabile.

E le astronomiche parcelle delle banche d’affari? Per i derivati del Comune di Milano, oggetto di un processo concluso in primo grado con la condanna di quattro istituti, l’accusa stimava 80-90 milioni. Gli advisor finanziari incaricati di seguire la ristrutturazione del debito Seat, ha scritto il Sole 24Ore, hanno portato a casa ben 40 milioni: e non è servito a evitare il concordato. Mentre 20 milioni di commissione avrebbe incassato per l’ormai famoso «Fresh » del Monte dei Paschi, finito nel mirino della magistratura, l’americana JPMorgan. La medesima banca che, dopo aver gestito quel singolare prestito obbligazionario, all’inizio di gennaio abbassava il rating dell’istituto senese. Strabiliante.

Duecento milioni sono invece i balzelli pagati a banche e studi legali per l’acquisizione di Fonsai da parte di Unipol. Per non parlare del pregresso. Dal 2005 al 2011 la famiglia di Salvatore Ligresti ha guadagnato 407 milioni grazie a operazioni concluse dalla Fonsai «con parti correlate », come l’acquisto di immobili della stessa famiglia. Di più. La società che negli ultimi due anni perdeva 2,7 milioni al giorno versava 42 milioni per «consulenze » al suo azionista di riferimento e 11 milioni di buonuscita all’amministratore delegato. Alla faccia dei risparmiatori che avevano comprato le azioni in Borsa.

C’è da domandarsi che cosa sia successo a questo Paese, per essere diventato terreno di tali scorribande. E se pure questo non abbia a che fare con il degrado morale della politica e della vita civile. Di una cosa però siamo sicuri: senza un recupero di etica anche da parte di un altro pezzo della nostra classe dirigente, dalla grande finanza alle potenti corporazioni, ai professionisti e agli imprenditori, sarà molto difficile risollevarsi.


Così il Pd vuole insabbiare lo scandalo Montepaschi
di Sergio Rame
(da “il Giornale”, 7 febbraio 2013)

Ogni giorno emergono nuovi particolari ad allargare lo scandalo che sta travolgendo il Monte dei Paschi di Siena. Citando la Banca d’Italia e fonti vicino alla vicenda, il Wall Street Journal ha denunciato che, alla fine del 2011, Mps era “così a secco di liquidità” che dovette “negoziare un prestito” di liquidità di circa 2 miliardi di euro con Bankitalia.

Ma “pubblicamente i suoi dirigenti rassicuravano che la posizione finanziaria della banca più antica del mondo era adeguata”.
Ma, nonostante le continue accuse, i vertici del Partito democratico continuano a lavarsene le mani. In primis, Pier Luigi Bersani che va avanti a negare responsabilità da parte del partito.

“Non nego che in passato ci siano stati degli errori nelle nomine del management di Mps da parte della Fondazione, ma il Pd non ha mai nominato nessuno, erano gli enti locali a scegliere la quasi totalità dei consiglieri”, ha spiegato Bersani ai microfoni di Radio Capital prendendo, ancora una volta, una netta distanza dallo scandalo sul Montepaschi. Nessun mea culpa, nessuna scusa. Solo una fretta eccessiva di archiviare le indagini degli inquirenti che, nelle due ultime settimane, hanno fatto precipitare i democrat nei sondaggi. Bersani ha, infatti, ricordato la propria posizione critica “sul ruolo delle Fondazioni che controllano le banche” e come, però, “questo tema non sia mai stato affrontato”. Nuovi particolari sulla gestione a dir poco avventata del banco senese mettono, però, in cattiva luce i vertici di Mps che hanno esposto l’istitituto a un passo dal fallimento. Come spiega lo stesso Wall Street Journal, infatti, la Banca d’Italia concesse a Mps il prestito nell’ottobre del 2011 perché “la banca stava ormai esaurendo tutta la liquidità e non aveva più gli strumenti per continuare a chiedere fondi alla Banca Centrale Europea”. Tuttavia “per timori che si potesse creare panico sui mercati né Mps né la Banca d’Italia resero pubblico quel prestito”. Secondo la normativa vigente infatti non vi è l’obbligo di comunicare tali operazioni, previste per tutte le banche dell’Eurosistema, al mercato. E, in una conferenze call con analisti ed investitori, subito dopo aver ricevuto il prestito, i dirigenti di Mps affermavano che la posizione finanziaria della banca era solida e che le necessità di raccolta per il 2012 erano state coperte.

Adesso, riferendosi allo scandalo derivati, l’ad di Mps Fabrizio Viola ha assicurato che non ci saranno altre Santorini e ha invitato i media a ridurre a zero l’attenzione sullo scandalo. In una conference call, Viola ha assicurato che gli strumenti strutturati sono stati corretti dal Montepaschi e “trasformati in semplici finanziamenti”. A detta dell’amministratore delegato del banco senese, Alexandria e Santorini sarebbero già state trasformate in asset swap con oggetto titoli di Stato. “Mentre Nota Italia è un’operazione del 2006 che incorporava un derivato con oggetto la protezione sul rischio Italia, assimilabile soprattutto ai Btp, che non era stato correttamente contabilizzato sin dall’inizio dell’operazione – ha spiegato Viola – nel mese di gennaio avevamo già chiuso il derivato sul rischio Italia, riducendo il rischio complessivo della banca”. Questa chiusura avrebbe consentito a Mps, a fronte dell’impatto negativo, di avere un effetto positivo grazie alla plusvalenza tra la chiusura del derivato e il valore che avevamo attribuito al 31 dicembre. Una plusvalenza riconducibile al calo dello spread tra i Btp decennali e i Bund tedeschi.


Fassina: Monti lascia molte spese da pagare
di Antonio Castaldo
(dal “Corriere della Sera”, 7 febbraio 2013)

Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, va al cuore del problema debito di bilancio. E senza mezzi termini attacca il premier uscente: «È noto che non raggiungeremo il pareggio di Bilancio. Il governo Monti, anzi, lascia un debito pubblico superiore a quello lasciato dal governo Berlusconi ». Ospite della Videochat del Corriere.it, Fassina non nasconde che «le principali responsabilità sono però dell’esecutivo del Cavaliere ». Ma auspica da parte di Monti «un ammissione di responsabilità sulle voci di spesa che sono state eluse e rappresenteranno un problema per la prossima legislatura ».

LA POLVERE SOTTO IL TAPPETO – Bersani ha parlato di «polvere messa sotto il tappeto ». Ovvero spese non affrontate dal governo Monti che ricadranno sul prossimo esecutivo: «Si stimano 6-7 miliardi di euro – spiega Fassina – e mi riferisco a partite importanti che non sono state coperte e che verranno coperte da chi arriva dopo. Parlo della cassa integrazione in deroga per migliaia di lavoratori, nel 2012 e 2013, parlo delle missioni militari che non sono state finanziate, delle convenzioni con contratti di servizio che non sono state rifinanziate. E poi i contratti dei precari della pubblica amministrazioni, chi lavora nei pronto soccorso o negli asili nido, ad esempio. Funzioni essenziali ». E dove si trovano questi 7 miliardi, con una nuova manovra? «Io non penso a nuove tasse o altri tagli. Ma il problema va posto a Bruxelles. Altrimenti la spirale recessiva, la chiusura delle fabbriche, i licenziamenti, non finisce mai. E vorrei che Monti, prima di lasciare Palazzo Chigi riconoscesse il problema ».

IL NODO DELLE ALLEANZE – Rispondendo alle domande dei lettori, Fassina dice la sua sulle possibili alleanze post elettorali: «La realtà è che il centrosinistra è l’unica forza politica che punta a governare il Paese. Le altre forze cercano di non consentirci di governare ». Cosa succede in una situazione di ingovernabilità? «Si cambia la legge elettorale e si torna a votare ».

RESPONSABILITí€ DI MONTI- «Anche il presidente Monti non ha aiutato a tenere il dibattito della campagna elettorale nell’equilibrio che serve ». Sostiene Fassina, spiegando che «dire come ha fatto che non si poteva evitare l’aumento dell’Iva e dopo poche settimane dire che si possono tagliare le tasse non aiuta i cittadini a capire in che situazione siamo. Noi – rivendica il responsabile Economia e Lavoro del Pd – facciamo una campagna elettorale equilibrata ».


“Nastri Mancino-Quirinale, 24 ore alla distruzione”, qui.


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Bart