Due articoli14 Maggio 2012 Merkel sconfitta. E Monti si sveglia L’altro ieri il Financial Times raccontava in un pregevole reportage «I sette giorni che hanno scosso l’Europa » dopo i turni elettorali in Francia e in Grecia. Ieri, un’altra scossa: Angela Merkel ha subìto una pesante sconfitta nel land del NordReno-Westfalia, la Cdu è crollata passando dal 34,6 al 26 per cento dei consensi. La cancelliera è stata battuta da un’altra donna, il governatore socialdemocratico Hannelore Kraft e per la sfida alla Cancelleria nel settembre 2013 molti prevedono uno scontro tra lei e Merkel. L’ondata popolare contro il «rigorismo » a tutti i costi e la politica monetaria senza crescita della Bce, prosegue. Dopo l’elezione in Francia di Francois Hollande, Berlino vede il suo asse con Parigi indebolito, ma la via teutonica alla crisi continua ad essere battuta. L’altro ieri il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha martellato gli esiti del voto sotto la Tour Eiffel e il Partenone, minacciando sfracelli finanziari contro chi si opporrà al Fiscal Compact (Parigi) e al salvataggio con il cappio (Atene). Un delirio istituzionale: un banchiere centrale che detta la linea ai governi stranieri. Ai tempi di Willy Brandt e Helmut Kohl sarebbe stato mandato a casa. Ma la realtà è che in Europa siamo nel pieno dello scontro tra tecnocrazia e democrazia. Conflitto talmente grande da far sorgere ieri sulla Cnn a un analista come Fareed Zakaria la seguente domanda: La democrazia è uno dei problemi dell’Europa? Sì, lo è perché la finanza e i burocrati, i poteri irresponsabili, hanno preso il sopravvento. Mentre Angela Merkel assapora il gusto amaro della sconfitta, in Grecia continuano i colloqui per la costituzione del nuovo governo. È chiaro che il «memorandum » berlinese per far pagare i conti ad Atene è un disastro. Per salvare le banche tedesche e francesi si sta affamando un popolo. Non funziona. E non funzionerà anche se i greci trovano un accordo per un esecutivo transitorio. La cura è un veleno mortale. L’Europa sta vivendo uno dei momenti più gravi della sua storia e in mezzo a questo caos c’è l’Italia, Paese con il terzo debito pubblico del mondo. Il governo Monti è nato sotto gli auspici di Berlino, ma dopo alcuni mesi lo scenario europeo è cambiato e la situazione del Belpaese è peggiorata. Siamo in recessione, la produzione è crollata e la disoccupazione tra i giovani e le donne nel Sud è da incubo. La pressione fiscale ha aggravato la crisi e la rivolta contro le tasse è in pieno svolgimento, con tanto di canaglie armate di molotov in azione. È nitroglicerina e lo scriviamo da parecchio tempo. Monti ha finalmente compreso che «il Paese è segnato da una profonda tensione sociale ». Bene. Cambi marcia e saluti Berlino. Ora può farlo. D’Orrico intervista Manlio Cancogni Nel giugno del 1946 la televisione non c’era e Manlio Cancogni, scrittore e giornalista quasi trentenne, si fece 130 chilometri in bicicletta per andare a vedere il Grande Torino che giocava all’Ardenza di Livorno. Fu un viaggio epico, perché la sua bicicletta era quello che era, le strade erano quello che erano e la guerra era stata quello che era stata (particolarmente dove passava la Linea Gotica, con i suoi eccidi, le sue distruzioni). Ma il miraggio di vedere dal vivo lo squadrone di Mazzola e di Ferraris II fu più forte di tutto. Cancogni partì da Fiumetto, in Versilia, dove abita ancora e, seduto in poltrona, una camicia a quadri (ma senza il papillon che per anni è stato il tocco finale della sua eleganza, estrosa come la sua scrittura e la sua conversazione), rammenta quella lontana avventura che adesso è diventata un piccolo libro, Toro delle meraviglie, pubblicato da Urbano Cairo, l’editore che è anche il presidente del Torino. «Ma io volevo intitolarlo Torna Toro, per portare fortuna alla squadra ora in corsa per la serie A ». Cancogni, lei descrive il gioco del Grande Torino così: «Grezar vede Loik, Loik vede Mazzola, Mazzola vede Menti, Menti vede Gabetto ». Ed è gol. Una ragnatela di passaggi rasoterra che mi ha fatto venire in mente il Barcellona di Guardiola. Ha visto anche la partita del Real Madrid con il Bayern? Ma lei le partite se le vede tutte? Le piace Mourinho? Che scena quando si è inginocchiato durante l’esecuzione dei rigori. Il Milan le piace? Non le piace Ibra? Nemmeno Cassano le piace? Odia anche Balotelli? E così lo scudetto l’ha vinto la Juve di Conte. Torniamo alla prima volta che vide il Grande Torino. Dunque, lei parte per Livorno con una bicicletta che era un catenaccio ed è come un viaggio tra i fantasmi della guerra appena finita. Passa per la base dove gli americani tenevano i prigionieri. Dove era stato rinchiuso, in una gabbia come Hannibal the Cannibal, il grande poeta Ezra Pound accusato di tradimento. Poi entra all’Ardenza e vede che in curva ci sono i prigionieri tedeschi portati lì in vacanza premio e guardandoli lei capisce che la guerra è proprio finita. Intanto, l’altoparlante dello stadio trasmette «Symphony », la canzone americana che era la colonna sonora di quell’epoca. Comincia la partita e il Livorno che tre anni prima, prima che il campionato fosse interrotto per la guerra, si era battuto per il titolo, si butta in avanti come una furia. Il Torino sta come a guardare. Fino alla mezz’ora del primo tempo quando, come se qualcuno avesse suonato la fine della ricreazione, il Torino va all’attacco. Uso le sue parole per descrivere quello che successe: «Come per caso, Gabetto, Loik e Grezar si trovarono soli dove il Livorno non avrebbe mai dovuto permettere che si trovassero: a una dozzina di metri dalla porta ». E qui c’è la zampata del leone. Lei scrive semplicemente: «Uno di loro tirò ». Gol. E lei non fa nemmeno il nome del marcatore, perché non ce n’è bisogno, quasi come se i gol del Grande Torino fossero il risultato di un disegno superiore, qualcosa di ineluttabile. Questa sua frase («Uno di loro tirò »), caro Cancogni, io la custodirò d’ora in poi nello scrigno che contiene le frasi più preziose della letteratura italiana accanto a «La sventurata rispose » e «E quell’infame sorrise ». Poche parole, un soggetto e un predicato per dire che il destino bussa alla porta. Poi lei racconta, cioè scusa, poi tu racconti che la visione dal vivo del Grande Torino ti fece venire voglia di giocare a calcio. E così a Roma, dove lavoravi, andavi a giocare con altri due scrittori, Giorgio Bassani e Carlo Laurenzi, al Galoppatoio di Villa Borghese. Vi levavate la giacca, vi allentavate il nodo della cravatta, vi rimboccavate le maniche della camicia e i calzoni, vi incitavate l’un l’altro con urla tipo: «Dai Grezar, vai Gabetto, tira Loik… » e sfidavate, voi trentenni, i liceali che avevano marinato la scuola. In che ruolo giocavi? Bassani, essendo tennista, doveva avere un bello stile. Poi nel libro racconti la fine del Grande Torino, l’aereo che si schianta contro la collina di Superga. C’è una immagine bellissima nel libro, che dice tutto dell’amore per il Grande Torino, quella del cieco che andava a vederne le partite. C’è un problema, in quest’intervista dovevamo parlare di letteratura. Non importa. Non si preoccupi. Le credo sulla parola. Letto 1311 volte.  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