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Quattro articoli

23 Maggio 2012

Il salvagente del risparmio
di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
(dal “Corriere della Sera”, 23 maggio 2012)

La riunione di questa sera dei capi di Stato e di governo europei potrebbe segnare la svolta nella lunga crisi dell’euro. Non siamo mai stati tanto vicini al rischio concreto di una disintegrazione dell’unione monetaria. Il meccanismo che oggi potrebbe farla implodere è una «corsa alle banche », cioè la perdita di fiducia da parte dei cittadini, con il conseguente ritiro dei loro depositi. Sta accadendo in Grecia; potrebbe accadere in Spagna. Se il panico si estendesse sarebbe la fine dell’euro. Per evitarlo sono necessarie due cose. Nell’immediato bisogna evitare il rischio di una corsa agli sportelli. Serve una garanzia europea sui depositi bancari che dia ai depositanti la certezza che i loro risparmi (almeno fino a un certo limite, diciamo 100 mila euro) sono al sicuro. Un’assicurazione di questo tipo già esiste, come in Italia dove la copertura è appunto di 100 mila euro. Ma si tratta, finora, di garanzie nazionali, il cui valore dipende dalla condizione dei conti pubblici di ciascun Paese.

Se il debito è elevato, la garanzia potrebbe non valere molto ed essere insufficiente ad evitare una corsa agli sportelli. È quindi necessario aggiungere, alle garanzie nazionali, un’assicurazione europea. «Europea » in questo caso significa tedesca, l’unico grande Paese dell’unione che ha mantenuto intatta la fiducia dei risparmiatori e dei mercati. Ma per convincere la Germania a correre questo rischio è necessario che la vigilanza sulle banche divenga essa pure europea. Il fiasco della Spagna, che troppo a lungo ha negato che molte sue banche fossero sostanzialmente fallite, rende il trasferimento della vigilanza alla Bce non più procrastinabile. Ma l’opposizione alla vigilanza europea è forte perché riduce il controllo che i governi oggi esercitano (nel bene e nel male) sul sistema finanziario. Queste gelosie nazionali non sono più accettabili. Evitare una corsa alle banche allontana il rischio di una disgregazione immediata, ma non è certo sufficiente. L’euro non si salva se l’Europa non riprende a crescere. Per farlo, dobbiamo cominciare con l’ammettere che il nostro modello sociale non è più sostenibile. Non si può crescere con livelli di spesa pubblica (e quindi di tassazione) che superano la metà del reddito nazionale. Non possiamo più permetterci (come invece potevamo negli anni Sessanta, quando questo modello fu disegnato) di fornire sevizi gratuiti o quasi a tutti i cittadini, praticamente senza distinzione di reddito.

Non possiamo più permetterci di lavorare in pochi per sostenere i tanti che non partecipano alla forza lavoro (ad esempio c’è un divario di oltre 10 punti fra il tasso di partecipazione negli Usa e in Italia). Di fronte a questa realtà di portata epocale, l’idea che per far crescere l’Europa servano più infrastrutture fisiche è sinceramente risibile. La scarsità di strade, treni e aeroporti non è il primo problema dell’Europa. I nostri politici parlano di infrastrutture perché è un modo per non parlare dei veri problemi: il peso dello Stato sull’economia, le difficili riforme del mercato del lavoro e dei servizi. È venuto il momento che i leader europei si chiedano se davvero vogliono salvare l’euro. Se lo vogliono, è giunta l’ora che facciano qualcosa, ma, per favore, non ferrovie e autostrade.


“Il Pdl è finito, guiderò io il nuovo partito”. Berlusconi tentato di tornare in campo
di Claudio Tito
(da “la Repubblica”, 23 maggio 2012)

“Il Pdl è finito. Il Pdl non è più il mio partito”. Palazzo Grazioli non è più il cuore del centrodestra italiano. In un giorno si è trasformato in un bunker. Nel quale Silvio Berlusconi si è rinchiuso. Paralizzato non tanto dalla sconfitta elettorale, quanto dalla consapevolezza che il suo progetto politico sta effettivamente evaporando.

L’ex premier ammette che la sua creatura ha ormai concluso un ciclo vitale. “Basta con questa struttura senza senso, con questi coordinamenti, con questi congressi. Dobbiamo imparare da Grillo”. E inventare un nuovo contenitore. “Solo io posso guidarlo”. Una sorta di mossa del cavallo per provare a invertire il trend che contempla anche la necessità di mettere sul tavolo l’ultima carta spendibile: un’intesa sulla riforma elettorale con il Pd per il doppio turno. Nella speranza di sparigliare e aprire un cantiere. “Cambiamo gioco e vediamo che succede”.

Nell’ultima trincea berlusconiana, però, solo pochissimi riescono ad avvicinarsi. Gianni Letta, Fedele Confalonieri, Paolo Bonaiuti. Gli altri restano lontani. Il Cavaliere si sente solo, accerchiato. Soprattutto non in sintonia con il suo partito e con una debacle senza precedenti. Ha voluto deliberatamente sconvocare il vertice fissato ieri per evitare l’incontro con i “colonnelli” del suo “ex partito”. Il timore che lo scontro potesse degenerare in una guerra totale termonucleare ha preso il sopravvento.

Del resto, il Popolo delle libertà non solo è stato sospinto verso il baratro dell’estinzione dall’ultima tornata amministrativa, ma è diventato una polveriera con la miccia già innescata. La battaglia interna è ormai il più classico “tutti contro tutti”. “Il problema – si sfoga l’ex ministro Andrea Ronchi – è che nessuno sa più cosa succede. Non c’è una rotta. Tutti pensano che un’era sia finita”.

E già, l'”era berlusconiana”. La sua conclusione sta provocando non solo l’inabissamento di questo centrodestra, ma sta costringendo i suoi adepti a lottare per la sopravvivenza e a immaginare un percorso per salvarsi. Anche a scapito dei “colleghi” di partito. Gli ex An di La Russa e Matteoli contro le colombe di Frattini e Gelmini. Verdini e Alfano contro la Santanché. Gli uomini del nord come Formigoni contro quelli del sud come Fitto. A livello locale è ancora peggio. Il terreno frana nelle regioni settentrionali e il gruppo dirigente intermedio parte alla rincorsa di Casini e di Grillo. In quelle meridionali la confusione è anche maggiore. Con i big locali sprovvisti di qualsiasi sponda, anche ipotetica. Una babele di voci e posizioni ormai incontrollabili. Che inseguono un destino già segnato: la fine del Pdl.

Un orizzonte, però, che Berlusconi sembra voler anticipare. Affranto, demoralizzato come non mai, tra lunedì sera e ieri si è lasciato andare a più di uno sfogo. “Bisogna cambiare tutto. Basta con questo partito fatto di coordinamenti, tessere, congressi. Questo non è più il mio partito”. Una scelta in parte dettata dalla disperazione. Dalla consapevolezza di non poter fare altrimenti. I contatti con Casini e Montezemolo ci sono stati. Ma l’esito è stato a dir poco drammatico. “Vogliono che Berlusconi non si candidi nemmeno in Parlamento per fare un accordo con noi – sbotta Gaetano Quagliariello – ma questa non è una resa. E’ l’umiliazione”. Un percorso senza alternative, dunque.

“Se avessimo fatto già in questa occasione le liste civiche – è il rimprovero che Berlusconi muove al suo stato maggiore – staremmo parando di un’altra storia. E invece La Russa mi diceva che bisognava strutturare il partito, Angelino che disorientavamo. Ecco, invece, così abbiamo orientato. Bel capolavoro”. Giudizi che la dicono lunga su quel che l’ex premier pensa dei suoi “coordinatori”. Che adesso vuole azzerare. Compreso il suo “figlioccio” Angelino, nei confronti del quale non risparmia nulla: “Purtroppo non esiste. Ci sono solo io. Solo io posso salvare. Solo io posso candidarmi come leader. E lo farò, credetemi”.

Il Pdl, nato solo tre anni fa, sembra ormai solo un ricordo. E anche la sua classe dirigente appare avvolta da una nuvola che li rende indistinti. Tutti travolti da un vento che soffia in primo luogo contro il centrodestra. E in qualche modo lo stesso Cavaliere ne prende atto. Nel suo bunker il crollo del Popolo delle libertà perde ogni contorno. Chi gli parla lo descrive assillato da troppe idee e troppo diverse. Eppure su un punto non ha dubbi: “I moderati in Italia non ci sono più. Dove sono? Tutti e tutto è radicalizzato. Perché noi dovremmo fare i moderati? Casini non vuole venire con noi? Bene. I fascisti si vogliono tenere il partito? Meglio, si tengano il Pdl”.

A suo giudizio, però, se quello che è stato il centrodestra si può salvare, non è con il partito nato dalla fusione di An e Forza Italia. Serve qualcosa di nuovo. Cosa? Questa volta nemmeno i focus group cui Berlusconi spesso ricorre gli offrono una risposta netta. Nella testa gli ronza sempre il modello dei “Tea party” americani. Ma nello stesso tempo è attratto dall’esempio grillino. “Quel Grillo piace – ha scandito destando non poca sorpresa nei suoi interlocutori – dovrebbe essere uno di noi. O meglio dovremmo essere noi come lui. La gente vuole quello. Vuole sentire quelle cose e non i congressi e i coordinamenti. Ma secondo voi a Parma chi ha fatto vincere il grillino? Noi, i nostri elettori”.

Ma per inseguire il paradigma “Cinque stelle”, deve sparigliare. Con un problema non da poco. Le carte per farlo non sono ancora nelle sue mani. Nei prossimi giorni, però, una prima mossa intende compierla: aprire alla riforma elettorale a doppio turno. Per dare un segnale ai suoi elettori, aprire un fronte di alleanze non troppo vincolante con la Lega e i centristi. E soprattutto provare a “salvarsi e salvare il suo schieramento” attraverso un patto con il “nemico”: con il Partito Democratico. Un tentativo estremo. Che, con ogni probabilità riceverà una risposta negativa da parte di Bersani. Ma nel frattempo l’immenso campo elettorale del centrodestra continua a essere sguarnito. Disponibile per chi voglia ararlo come accadde proprio nel 1994 dopo la fine della Democrazia cristiana


Lettera ai vertici del Pdl. Dimettetevi tutti
di Maurizio Belpietro
(da “Libero”, 23 maggio 2012)

Allora, vediamo di riepilogare. Alle ul ­time elezioni il Pdl ha perso Monza, Parma, Como, Asti, Alessandria, Bellu ­no, Brindisi, Lucca, Rieti, Isernia, Paler ­mo e Agrigento: però dice di non essere morto. Può darsi che sia così, come so ­stengono i maggiori dirigenti del parti ­to. Ma, vista l’emorragia di città ammi ­nistrate, se non è defunto il Popolo del ­la libertà dev’essere per lo meno mo ­ribondo. Altrimenti non si spieghereb ­be come sia stato possibile che città storicamente moderate, dove nono ­stante i lifting ai simboli quelli del Pd continuano a essere considerati sem ­pre e solo comunisti, si siano buttate a sinistra. Senza l’estinzione per consun ­zione di quello che era fino a ieri il cen ­trodestra, senza la sua prematura di ­partita – è stato fondato solo tre anni fa – oggi alcune delle più grandi città del Paese non sarebbero nelle mani di Bersani e compagni, ma sarebbero salda ­mente condotte da uomini moderati. Certo, se lo desidera il Pdl può conso ­larsi con la riconquista di Frosinone e anche di qualche centro strappato alla sinistra, tipo Casarano in Puglia o San Salvo in Abruzzo, ma la sostanza delle cose è nella semplicità dei numeri. Fino a due settimane fa il Popolo della liber ­tà guidava 81 comuni sopra i 15 mila abitanti e la sinistra ne aveva 47, oggi il Pdl ne ha 27; Pd, Sel e compagnia can ­tante ne controllano 85. La situazione non migliora se si guarda ai capoluo ­ghi: su26 incui si è votato il Popolo del ­la libertà governava in 15 e due erano a guida leghista, oggi la sinistra ne ha 16, il Pdl 6 e uno è nelle mani del Movi ­mento Cinque stelle.

C’è bisogno d’altro per riconoscere che si tratta di una sconfitta di propor ­zioni difficilmente paragonabili al pas ­sato? Serve aggiungere che un anno fa il centrodestra ha perso anche Milano ed è riuscito a regalare a un esponente dell’Italia dei valori una delle città peg ­gio amministrate dal centrosinistra negli ultimi vent’anni? Che cosa dovremo vedere ancora prima di sentire il gruppo dirigente ammettere di essere stato battuto, o meglio spazzato via, a causa di una serie sterminata di errori che neppure gli elettori più affezionati avrebbero potuto perdonare? Prima le liti, poi l’indecisione nel fare le riforme. In seguito una stangata pro ­prio a quelli di cui si dovevano difendere gli interessi. Infine l’appoggio a un governo che sta attuando il programma del Pdl, ma al contrario. Come se non bastasse, all’appun ­tamento con le urne ci si è presentati con giunte cacciate per evidente incapacità o per malaffare, oppure con candidati impresen ­tabili. Risultato: ci sono città come Parma in cui il Pdl è scomparso, ridotto a meno della metà dell’Udc, cioè niente. Come si fa a pas ­sare dal 30 per cento al4 inuna legislatura? Semplice: si fa tutto ciò che ha fatto il cen ­trodestra nella città emiliana. Ci si uccide, senza nessuno che dall’alto alzi un dito per fermare il suicidio.

Ribadiamo: i vertici del Popolo della liber ­tà possono continuare a nascondere la testa sotto la sabbia e parlare di Tolentino, popo ­loso Comune delle Marche che dopo anni di guida a sinistra ha svoltato a destra, ma non sarà sufficiente a salvarli. Il voto delle Am ­ministrative, per quanto non abbia valenza nazionale, non è un campanello d’allarme, come alcuni sostengono: è una campana a morto. Certo, volendo i dirigenti del partito possono rincuorarsi guardando i dati dell’astensione. In alcuni Comuni gli elettori che si sono recati alle urne non hanno nep ­pure superato la soglia del quaranta per cento. I maggiorenti del Pdl possono con ­vincersi che ciò rappresenti un segnale, ma non il tradimento di chi votava a destra, che anzi – piuttosto di mettere la croce sul sim ­bolo del Pd, di Sel o dell’Italia dei valori – ha preferito restare a casa. Ma questo non ba ­sterà a far ritornare quei voti. Al contrario ri ­schia di allontanarli per sempre. Per ricon ­quistare gli scontenti ed evitare di disperde ­re al vento o nelle mani di Grillo la grande area del voto moderato c’è bisogno di un grande cambiamento. Non basta togliere un’insegna e metterne un’altra. Né fare qualche ritocchino al programma: qui è ne ­cessaria un’autentica rivoluzione, un cambiamento radicale del modo di fare politica.

Servono nomi nuovi, volti nuovi, un’immagine di un partito proiettato nel futuro, mentre oggi, ahimè, lo sembra solo nel passato.       Sappiamo ovviamente che il discorso potrà apparire brutale e forse ad alcuni anche ingeneroso. Ma il compito dei giornali amici è quello di essere franchi fino in fondo e non di nascondere la realtà per non dare un di ­spiacere a persone che ci sono vicine. Una pagina si è chiusa e un’altra si deve aprire. Noi ci auguriamo che il centrodestra lo ca ­pisca. In particolare, che lo capiscano i suoi vertici. Aprite le finestre e fate entrare un po’ di aria fresca. Soprattutto, fate uscire quella viziata: è arrivata l’ora.


Un altro errore e Beppe ringrazia
di Mario Sechi
(da “Il Tempo”, 23 maggio 2012)

A che punto è la notte? È buio. E lo sarà a lungo. Continuo a pensare alla tragedia più breve di Shakespeare, al Macbeth, quando osservo il declino dei partiti. Scrivono la fine con le loro mani. E non se ne rendono conto. Sono attaccati al pouvoir pour le pouvoir, al potere per il potere, si accapigliano su temi insignificanti per l’elettore in tempi di crisi e non riescono a trovare una soluzione condivisa sul loro finanziamento. Da una parte chi è all’opposizione, dall’altra i governativi. Ieri la maggioranza Pdl-Pd-Udc ha bocciato tutti gli emendamenti che chiedevano l’abolizione del finanziamento pubblico. È un grave errore politico e di comunicazione. Il Parlamento dovrebbe avere il coraggio di discutere questo tema con una grande sessione, in diretta televisiva. Un referendum nel 1993 abolì il finanziamento pubblico, i partiti – con l’eccezione dei radicali – lo fecero rientrare dalla finestra con la formula del rimborso elettorale. Una legge truffa che al contribuente è costata miliardi di euro. Così si getta benzina sul fuoco, si fa un favore a Grillo. La fiducia dei cittadini nei partiti è al minimo storico (non è un’opinione, ma un fatto) e se la politica vuole essere credibile deve dire come vuole finanziarsi e non votare senza spiegare. Signori partitanti, guardate i dati Istat sulla povertà delle famiglie italiane e fatevi un esame di coscienza. Così non va. Così si allarga il fossato. Così vince chi urla di più. Penso che il finanziamento pubblico vada abolito, ma comprendo le ragioni di si oppone e dice che la plutocrazia partitocratica è un rischio. Un fatto è certo:questa rapina di Stato non può continuare. E dimezzare il rimborso non serve a niente se non si vara una riforma dei partiti, il riconoscimento della loro personalità giuridica, l’apertura di un processo di trasparenza e democrazia interna. C’è bisogno di ricordare lo scandalo della Lega e quello della Margherita?Rubavano a piene mani. E non venitemi a dire che con le società di revisione i bilanci saranno immacolati. Siamo seri. Parmalat era un’azienda a prova di bomba secondo le società di revisione, peccato che i bilanci fossero falsi. Come i partiti: fanno finta di cambiare affinché tutto resti uguale. Gattopardeschi. Senza essere romanzeschi.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart