Due articoli11 Luglio 2012 La Germania davanti al bivio A VOLTE, quando critichiamo Angela Merkel, dimentichiamo quel che sta succedendo in Germania: l’astio che domina tanti commenti di cittadini e politici, contro un’Europa del Sud che sta divenendo loro estranea. L’esigenza democratica, che si mescola ambiguamente a un nuovo nazionalismo e che spinge i tedeschi a fidarsi quasi solo della Corte costituzionale: proprio ieri, la Corte ha iniziato l’esame degli impegni presi da Berlino a Bruxelles, per verificare la loro compatibilità con la sovranità del popolo e del Parlamento. Il Sud Europa non si stanca di ammonire Berlino, evocando l’espandersi di sentimenti antitedeschi. Ma conoscono poco i sentimenti antieuropei che si addensano in Germania. Citiamo, fra gli epiteti usati dai frequentatori dei giornali sul web, i più significativi: gli italiani, greci, spagnoli, portoghesi sono scrocconi, parassiti, perfidi, svergognati. Puntando l’indice sul passato tedesco, sono soprattutto ricattatori. Sono “cani, e che abbaino pure alla loro altezza”. Un lettore conclude: “Chi ha amici simili, non ha più bisogno di nemici”. L’astio colpisce anche europeisti come gli ex cancellieri Schmidt e Kohl, i verdi Trittin e Roth, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer (“un depravato morale”): sono “traditori del popolo”, “odiatori della Germania”. Questo clima va tenuto presente, quando si parla di scudo antispread o Fondi salva-stati, o si celebrano i progressi raggiunti ai vertici europei. È un clima incendiario, che le classi dirigenti tedesche non sanno evidentemente governare: il più delle volte lo lusingano, altre volte lo contrastano, ma avendone paura. Manca tragicamente la pedagogica capacità di spiegare le cose “nei dettagli”: è l’accusa, pesante, che il Presidente Gauck ha rivolto sabato al governo. Né serve la politica dei piccoli passi: solo un salto qualitativo (Unione politica, potenziamento della Bce) creerebbe la scossa che calmerebbe gli animi oltre che i mercati. Le misure piccole sono vissute come una tortura della goccia cinese. Ma nessuno osa, e tra chi osa di meno nelle classi dirigenti ci sono gli economisti: una corporazione che ovunque ha mancato – salvo eccezioni – l’appuntamento con la crisi del 2007-2008. Ben 172 economisti tedeschi, e non dei minori, hanno firmato giovedì un appello in cui intimano al governo di non cedere alle pressioni e ricusare le misure concordate al vertice del 28 giugno, troppo costose per Berlino. Pur non firmando, è d’accordo anche il governatore della Bundesbank Weidmann, ostile a scudi salva-spread e unione bancaria. Weidmann è membro di un’istituzione comunitaria (il Consiglio direttivo della Bce), e l’uscita è quantomeno anomala. All’appello dei 172 hanno risposto due contro-appelli, firmati tra gli altri da Peter Bofinger e Bert Rürup, membri del Consiglio degli esperti economici che nel 2011 suggerì una messa in comune parziale dei debiti: i 172 sono accusati di nazionalismo e incompetenza. Siamo, insomma, di fronte a un grande dibattito che lascerà tracce, non dissimile dalla disputa fra storici del 1986-87 attorno al passato nazista. Oggi è l’economia al centro, e il ruolo più o meno egemonico, o dominatore, che Berlino deve svolgere nell’Unione. L’economia può sembrare un tema minore, ma per la storia tedesca non lo è affatto. Quando la Repubblica federale nacque dalle rovine della guerra, l’economia prese il posto della coscienza nazionale, statale, democratica. Quanto all’egemonia: molti invitano la Merkel a esercitarla – – Obama per primo – ma Berlino tentenna. Non dubita del proprio modello economico, che giudica anzi l’unico valido, superiore a ogni altro. Quel che fatica a fare, è guidare con efficace magnanimità i paesi deboli dell’Unione, come fecero gli americani col Piano Marshall nel dopoguerra. Irretita in dogmi contabili, la Germania ricade nel passato: sa comandare, non ancora guidare. Il dogma non è solo quello che impone di mettere la “casa in ordine” prima di creare unioni transnazionali (l’assioma non tiene, perché l’unione sovranazionale muta l’ordine casalingo). Dogmatico è il primato dell’economia, fonte pressoché unica dello Stato e della democrazia. Divenne tale soprattutto nel dopoguerra, quando ai tedeschi era negato il diritto di divenire Stato giuridico, ma ha radici lontane. È dai tempi dell’Unione doganale (il Zollverein del 1834 e 1866) che i tedeschi fanno dell’economia il sifone della comunità politica. L’Unione europea deve ricalcare quel modello, che peraltro fallì quando la Prussia inglobò la Confederazione tedesca del nord: prima viene l’economia, poi la politica, lo Stato, il consenso dei popoli. Come scrive Marco D’Eramo su Micromega, anche in Europa, come nello Zollverein, “è la moneta a “battere” lo Stato invece dello Stato a battere moneta”. La Merkel e il ministro Schäuble nuotano contro una corrente forte e anche contro se stessi, quando implorano un’unione politica federale: non ascoltarli, come non fu ascoltato Kohl, è letale. Il primato economico ha una storia nel pensiero tedesco che va esplorata, se non vogliamo che l’unità europea degeneri in guerra prima verbale, poi civile. Alle origini, c’è l’esperienza d’un paese vinto dalla guerra, dimezzato, che nell’economia vide un surrogato di sovranità statale. Gli artefici del nuovo Stato economico furono Ludwig Erhard e i cosiddetti ordoliberali, che negli anni fra le due guerre avevano osteggiato l’idea keynesiana che i mercati possano, debbano esser governati. Mettere la casa in ordine, e soltanto dopo farsi Stato: il prototipo dello Zollverein fu ripreso da Erhard, e ora va applicato all’Europa. Gli Stati sono incitati a cedere sovranità, ma la costituzione europea sarà economica e di marca tedesca, o non sarà. È stupefacente la disinvoltura con cui un uomo intelligente come Thomas Schmid, vicino nel ’68 a Fischer e Cohn-Bendit, confonda il comando con l’egemonia, nel carteggio con Ezio Mauro apparso il 28 giugno su Repubblica: “La Germania deve usare la sua forza per aiutare altri, deve diventare un amministratore e garante per la stabilità riconquistata di Stati oggi deboli (…) deve essere egemone, ma in modo amichevole”. La democrazia contro la paura Di tante maniere per amare la democrazia ce n’è una che è la mi gliore di tutte, ed è quella di conside rare pregi i suoi presunti difetti. per ché la democrazia di difetti ne ha: uno vorrebbe che venissero eletti ogni vol ta i migliori, i più preparati, i più incor ruttibili, ma nella conta dei voti queste qualità non sempre spiccano e alla fine le cose non vanno proprio così. Uno si augurerebbe sempre il trionfo della ve rità, e invece la democrazia fa dell’opi nione la regina del mondo. Uno vorreb be infine un po’ di stabilità, di sicurez za, di lunga durata, e invece la demo crazia costringe periodicamente i citta dini al rito elettorale, affida la vittoria ora agli uni ora agli altri, rovescia i go verni, e cambia volentieri i rappresen tanti del popolo. Ora, se vogliamo far nascere davve ro dalle ceneri della crisi un’Italia mi gliore, è forse venuto il momento di di re che tutto questo non è una iattura, ma una fortuna. Che la democrazia scommette sul cambiamento, ha fidu cia nel futuro, mette in gioco ogni volta le sorti del Paese perché confida che il Paese saprà scegliere, magari imparan do dai suoi errori. Lo fa non perché sup pone cinicamente che la verità non esi ste, e allora tanto vale fare la conta dei voti, ma al contrario va sempre nuova mente ricercata, e per questo è meglio farlo tutti insieme. In verità, non c’è bisogno di filosofeggiare per capire l’importanza politica delle parole del premier Monti. Ieri il premier ha detto che esclude di guidare il governo anche dopo il 2013. La parola torna ai cittadini, la politica si riprende il suo spazio, e, com’è giusto, conduce la sua giusta (possiamo dirlo?) lotta per il potere. L’esperienza del governo Monti è stata ed è importante, al di là (anche se è sempre difficile andare al di là) delle cose buone e delle cose meno buone fatte o da fare. Ma è ancora più importante l’esperienza alla quale il Paese si consegnerà con le elezioni politiche. Che non sono un ostacolo, un fastidio o un ingombro, ma un’occasione, anzi l’unica vera occasione per mettere davvero il Paese su una nuova e più fruttuosa strada. Scegliendo, e investendo con convinzione sul valore della propria scelta. Per questo, se è grande la responsabilità che il premier sta portando in questi mesi, aiutando l’Italia e l’Europa a tirarsi fuori dalla più grave crisi nella quale s’è mai potuta cacciare, ancor più grande sarà quella che porteranno i partiti in campagna elettorale. E se lo spread, allora, salisse? E, peggio: se qualcuno usasse, se non ha già usato, questo argomento per comprimere gli spazi della democrazia, i luoghi della critica, le possibilità di cambiamento? In quel caso glì si ricorderà quel che la democrazia deve sempre ricordare, per tenere in pugno le ragioni della sua legittimazione, cioè che essa è nata per sconfiggere l’uso politico della paura, di cui quell’argomento è soltanto l’ultima versione. Monti lo sa, e non ha inteso usarlo, né ha inteso sequestrare il futuro al Paese. Sta ai partiti, e in primo luogo al Pd, indicare come intende disegnarlo. Come si fa a giocare la speranza contro la paura, la fiducia nel meglio contro il timore del peggio. Che se poi lo spread salisse davvero, salisse ancora (come se poi finora fosse sceso precipitevolissimevolmente), beh, lo diciamo come un paradosso: sarebbe una buona ragione per farle subito le elezioni, non certo per rimandarle o per preconfezionarne l’esito. Letto 1162 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||