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E i democratici meditano il grande agguato

8 Maggio 2013

di Amedeo La Mattina
(da “La Stampa”, 8 maggio 2013)

«Noi siamo e dobbiamo continuare ad essere responsabili e leali con loro, ma se il Pd non è in grado di mantenere un impegno e di controllare i suoi parlamentari prima o poi la maggioranza si farà male e con essa il governo ». Berlusconi non ha nessuna intenzione di creare problemi al premier Letta, continua a indossare la maschera dello statista. Non ha però intenzione di farsi mettere due dita negli occhi come è successo ieri al Senato dove Nitto Palma è stato impallinato dagli otto senatori del Pd. Nonostante l’accordo della sera prima siglato dai capigruppo Zanda e Schifani. Le questioni potrebbero moltiplicarsi, le tensioni strappare la tela della coalizione. Per questo Berlusconi ha convocato il vertice del Pdl per mettere in chiaro alcune questioni, dall’Imu alla proposta sulla cittadinanza ipotizzata dal ministro Kyenge, dalla presidenza della Convenzione a quella della commissione Giustizia. A surriscaldare il clima i processi del Cavaliere che la Cassazione ha deciso di tenere a Milano e non spostarli a Brescia.

Ma a fare male in questo momento è il cazzotto nella pancia della mancata elezione di Nitto Palma. L’ex premier teme l’agguato. Teme che oggi, quando a Palazzo Madama si tornerà a votare a scrutinio segreto, i senatori Democratici mettano in campo uno di loro (Casson, Manconi?) e riescano a farlo passare con i voti di Sel e 5 Stelle, e magari con l’aiutino di Scelta civica. E in effetti la voglia di agguato nel Pd c’è ed è forte. Il capogruppo Zanda sta sudando le proverbiali sette camicie per convincere i suoi senatori a evitare l’incidente, a non fare l’agguato. Ha chiesto a Casson di rettificare una sua dichiarazione nella quale annunciava una candidatura del Pd, appunto. E Casson ha poi aggiustato il tiro dicendo che ci vuole «una candidatura condivisa ». Quella di Caliendo va bene, sempre del Pdl. Mai Palma, l’amico di Cosentino finito in carcere.

In aiuto di Zanda è intervenuto il ministro per i rapporti con il Parlamento Franceschini sollecitato dal presidente del Consiglio Letta. Il quale è consapevole di quanto Berlusconi tiene a questa commissione. Il Cavaliere non recede dal nome di Nitto Palma. Zanda ha chiesto a Schifani di indicare un altro nome più digeribile (Caliendo, appunto) ma da Palazzo Grazioli è arrivato un no fortissimo. «Ci devono dire se sono in grado di rispettare i patti o no, e questo deve valere su tutto – ha detto il Cavaliere – perché non possiamo andare avanti con intese fatte di giorno e disfatte di notte. Cosa succederà con i provvedimenti economici e sulle riforme costituzionali? ».

A trattare si sono messi pure Verdini e Migliavacca, senza riuscire a venire a capo di nulla, almeno fino a sera. Il Pd sta cercando una soluzione, se Nitto Palma non verrà messo da parte nella notte (cosa poco probabile): alla quarta votazione di oggi in cui viene eletto chi prende più voti, Nitto Palma potrebbe essere eletto con i soli voti del Pdl e della Lega. Evitando una contro-candidatura targata Pd.

Insomma il Pd ha il problema di tenere a bada l’ala antigiustizialista concentrata in quella commissione. «Io ho capito come andava a fine – racconto Nitto Palma nel cortile di Palazzo Madama – quando ho visto i nomi assegnati in questa commissione. E Zanda, che ha chiuso l’accordo con Schifani, sapeva benissimo che questi senatori non mi avrebbero votato ». A suo giudizio sarebbe scattato il primo agguato per farlo desistere e convincere Berlusconi a cambiare cavallo. «Non capisco – aggiunge Palma – questo astio nei miei confronti. Io sono stato sottosegretario agli Interni e ministro della Giustizia: non sarei mai stato nominato senza il consenso del Capo dello Stato. Quindi si regolino un po’ ». Dicono che ce l’hanno con lei perché amico di Cosentino e voleva candidarlo per salvarlo dalla galera. «Cazzate. Ci sono questioni personali. Chiedete a Casson ». Già, Casson che avrebbe voluto andare lui alla presidenza della Giustizia: un ex magistrato che da tempo immemore litiga con l’ex magistrato Palma. Poi c’è la giornalista anticamorra Rosaria Capacchione, ora senatrice Pd: «Non potrei tornare a Napoli se voto l’amico di Cosentino ».


La Cassazione non aiuta le larghe intese
di Alessandro Sallusti
(da “il Giornale”, 8 maggio 2013)

La Corte di Cassazione ha deciso che il tribunale di Milano non ha preconcetti nei confronti di Silvio Berlusconi e che quindi i processi in corso (Ruby e Mediaset) possono riprendere sotto la Madonnina. Non entro nel merito dei cavilli giuridici, mi limito a osservare che la sentenza di ieri contraddice il buon senso e la verità storica. Per anni abbiamo scritto in solitudine che Ingroia era un pm politicizzato, che cercava di usare la giustizia per entrare in politica e già faceva politica attraverso la giustizia. La conferma l’abbiamo avuta con la sua discesa in campo alle ultime elezioni al motto di «abbattiamo Berlusconi ». Anche Milano ha una forte tradizione di pm ammazza Silvio finiti in Parlamento nelle file della sinistra o da questa piazzati in posti di prestigio e ben remunerati: Di Pietro, D’Ambrosio e Colombo sono i più famosi tra i beneficiati.

Che alla Procura di Milano da 18 anni ci sia in atto una vera e propria caccia all’uomo è un fatto incontestabile. Caccia che ha prodotto danni enormi al Paese fin dall’inizio, con quell’avviso di garanzia che nel ’94 fece cadere il primo governo Berlusconi e che si rivelò di lì a poco completamente infondato. Non senza lati paradossali, comici se non provocassero conseguenze tragiche (lo stesso per Andreotti fu la leggenda del bacio a Totò Riina), come è l’ultima inchiesta della Boccassini su presunti festini privati ad Arcore: migliaia di intercettazioni e centinaia di interrogatori non sono riusciti a provare non dico un reato, ma neppure una molestia, tanto che ancora oggi, a distanza di due anni, non c’è ancora una vittima che chieda giustizia.

È vero, e sacrosanto, che tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge. Ma deve essere vero anche il contrario, cioè che la legge deve essere uguale con tutti gli uomini. Cosa che a Milano, con Berlusconi non è stato. Continue forzature di norme e procedure hanno portato a una mole di processi contro un solo uomo senza precedenti in Occidente. Fino a oggi nessun verdetto ha superato il vaglio dei tre giudizi, quindi Berlusconi appartiene ancora alla categoria degli incensurati e questo qualche cosa vorrà ben dire. Trovare una sede processuale neutra rispetto a un passato inquinato ci sembrava un segnale forte, un aiuto a quella rappacificazione politica da tanti auspicata a parole. Ma nei fatti c’è chi vuole continuare sulla strada della guerra civile fino alla vittoria sul campo. A partire dai magistrati di Milano, ben spalleggiati, pare, dai colleghi della Cassazione. Il tutto, ovviamente, non è beneaugurante per la nuova stagione politica delle larghe intese.


Intervista di Aldo Cazzullo a Giuliano Amato
(dal “Corriere della Sera”, 8 maggio 2013)

«C’è un clima da Cina della banda dei Quattro. Allora arrivò Deng. Noi abbiamo Enrico Letta. Siamo passati dal governo dei professori al Parlamento dei fuoricorso. La loro unica lettura è Twitter ». Giuliano Amato, in un colloquio con il Corriere, ammette di vivere «giorni di grande amarezza » poiché il suo curriculum è stato additato «come esempio di ciò che va distrutto; pare di stare in Cambogia quando sparavano a chiunque portasse gli occhiali ».

Il giudizio sul Pd: «Ha dimenticato la lezione di Togliatti, è ridotto come il Psi prima dell’arrivo di Craxi ». Nelle settimane in cui il suo nome è stato fatto – e bruciato – prima per il Quirinale poi per Palazzo Chigi, Giuliano Amato ha taciuto. Ora ha qualcosa da dire. «Sono giorni di grande amarezza per me e credo non solo per me. Ho visto il mio curriculum, lo specchio di una vita in cui io ho manifestato capacità, competenze e nulla altro, addotto a esempio di ciò che dobbiamo distruggere.
Giuliano AmatoGiuliano Amato

E l’amarezza è anche stata nel constatare quanto questo vento pesante abbia impaurito, in nome del consenso, anche coloro che avrebbero dovuto reagire e dire: “Ciò è inammissibile”. Purtroppo su questo pesa anche l’attuale condizione di un ceto politico le cui letture non vanno molto oltre Twitter, e se su Twitter legge 50 commenti negativi su di lei ne desume che il popolo la vede male ».

Un simile clima, dice l’ex premier, «è un frutto avvelenato di stagione molto difficile, nella quale la dinamica essenziale di una società democratica, quella che chiamiamo scala sociale e deve permettere a chiunque di salire ai gradi più alti, si è in realtà fermata per molti.

Quando un quarantenne non ha un lavoro stabile, e forse non ha ancora un lavoro, allora ne viene fuori un bisogno di eguaglianza nel pauperismo: se a tanti di noi non è consentito salire la scala sociale, allora l’uguaglianza va realizzata sul gradino più basso. Ma questa è la rinuncia di una società a crescere. Accadde in Cina con la banda dei Quattro. È noto che Pol Pot aveva ordinato di sparare a chiunque, dagli occhiali che portava, si capisse che era un laureato. In Cina l”esplosione dei giovani più preparati davanti a questa costrizione coincise poi con l’arrivo del presidente Deng ».

«Noi abbiamo Enrico Letta – sorride Amato, non con ironia ma con affetto -. Un giovane pieno di qualità. Che somigli o no al pediatra che viene a tranquillizzarti sui tuoi figli, io lo vedo di più come il papà che si tranquillizza all’arrivo del pediatra, è uno molto attento agli altri. Mi piacciono le persone che ascoltano tanto e poi si assumono le responsabilità. Io ho sempre fatto così, e vedo in lui la stessa attitudine.

Letta dispone di una qualità che l’Italia sta rovinando tra rabbia informatica e ostilità reciproca: ha la dote dell’equilibrio ». Il problema, sostiene Amato, non riguarda le persone: «Dobbiamo aspettare un presidente Deng? O dobbiamo adoprarci perché si torni a dare credibilità alla scala sociale? Io l’ho vissuto con la mia esperienza. Ero entrato in quel collegio pisano in un tempo nel quale diversi di noi erano figli di famiglie modeste e tuttavia riuscimmo ad arrivare. Era l’Italia di oltre 50 anni fa.

Di recente l’abbiamo rievocata in un libro, in cui uno di noi, Alberto De Maio, racconta la sua amicizia con Tiziano Terzani, che diventò il suo angelo custode. Tiziano era figlio di un operaio di Firenze, abituato a dormire su un divano: l’unico letto l’avevano i genitori. Alberto era figlio di una famiglia calabrese altrettanto povera, che arrivò a Pisa con la classica valigia di carta, con mutandoni e cappottone addosso, a settembre, perché “là al Nord è freddo”.

Tiziano, sfottendolo come solo un fiorentino sa fare, gli prese la valigia e lo aiutò ad arrivare in collegio. In nome di questo ricordo, ho verificato che oggi ci sono molti più studenti figli di laureati di quanto il segmento di quelle famiglie pesi sulla struttura socio-demografica italiana; e ci sono troppo pochi studenti di famiglie meno abbienti. Mi chiedo: dobbiamo allargare a chi non riesce ad arrivare, o dobbiamo chiudere l’alta formazione?

La Costituzione scriveva allora e scrive ancora oggi che i capaci e i meritevoli devono accedere ai gradi più alti dell’istruzione. Io continuo a pensare che ci debba essere uno sventagliamento non inquinato da nepotismi, familismi o massonerie, e però tale da consentire al figlio del tassista che si sacrifica per far studiare il figlio di guadagnare più di suo padre, e di non essere trattato come un reprobo se riesce a farlo ».

«Considero che quel che mi è accaduto abbia anche profili di immoralità. In particolare da parte dei diffamatori di professione, che hanno contribuito ad alimentare con ripetute falsità il clima che c’è stato in alcuni ambiti nei miei confronti. Siccome sono abituato a vedere le cose in termini che vanno al di là di me, mi rendo conto che se non viene ricostruita la prospettiva di un futuro sarà giocoforza che questa torva eguaglianza, che si deve consumare con gli occhi bassi su questo presente senza prospettive, sarà vincente.

Una democrazia vive se apre prospettive, non se le nega; e noi oggi abbiamo grosse difficoltà ad aprirle. Rischiamo di avvitarci in questa forma di purificazione attraverso lo zainetto sulle spalle, appagandoci di portare davvero la cuoca di Lenin in Parlamento: citazione troppo dotta per i tempi che corrono. Mettiamola così: siamo passati dal governo dei professori al Parlamento dei fuoricorso; troppa grazia. E affidiamo il governo del Paese a qualcuno che deve essere “uno di noi” allo stesso modo in cui potremmo pretendere che la guida dell’aereo sia affidata a “uno di noi” ».

Chi sono i diffamatori? «Non voglio fare nomi, perché tanto ci pensa mia figlia, che fa l’avvocato di suo padre, a fare i nomi. L’unica ragione per cui sono contento della loro esistenza è che, in un periodo di magra professionale, il reddito di mia figlia già ha cominciato a trarre profitto da questi incorreggibili propalatori di falsi.

Sono pochi, ma in rete una menzogna si propala facilmente grazie alla voglia di esprimere dissenso e ostilità nei confronti di chi viene visto come casta. E allora tante cose non vere appaiono verosimili, compreso il fatto che se io ho avuto tanti incarichi sono come minimo massone. Se lei va su Google e digita Giuliano Amato, tra i titoli della prima schermata compare “Amato massone”. Sono andato ad aprirlo: era un altro Amato; ma era sotto il mio nome. Mia figlia si lamenta, dice che sono diventato un lavoro pesante per lei, ma è soddisfatta, perché le vince tutte ».

Proviamo a enumerare le cause di impopolarità che le sono state rinfacciate. La pensione da 31 mila euro. «Un falso clamoroso. È una cifra lorda comprensiva del vitalizio, che verso in beneficenza. Sono forse l’unico ex parlamentare che non lo incassa ». Il prelievo forzoso dai conti bancari nel ’92. «Sembra che io una bella notte, per provare il gusto del potere, lo volli esercitare sottraendo agli italiani una parte dei loro risparmi. Io mi trovai nella necessità di raccogliere in 48 ore 30 mila miliardi di lire. Il governatore Ciampi mi avvertì che era essenziale, perché i titoli pubblici continuassero a essere comprati, ridurre la falla emorragica che c’era nei nostri conti.

Passai un’intera notte a cercare alternative, e tutto l’apparato dei ministeri non riusciva ad andare oltre la proposta di aumentare l’Irpef, naturalmente ai ceti meno abbienti, oppure l’Iva sui prodotti popolari. Ricordo che dissi: “Queste cose le potete chiedere alla Thatcher, non a me”. Fu a quel punto che Goria, allora ministro delle Finanze, mi fece quella proposta. Risposi: “Gianni, lavoraci e dimmi domattina cosa ne pensa Ciampi”.

Il mattino dopo ci fu un equivoco: capii che Goria con la testa mi dicesse di sì quando chiesi se Ciampi era d’accordo; in realtà Ciampi non l’aveva neanche sentito, e la misura passò. In ogni caso continuo a pensare che aveva un elemento molto sgradevole ma fu socialmente più giusta che non aumentare l’Irpef o l’Iva. E io non avevo alternative ».

C’è poi il caso Craxi. «Io ero stato contro di lui. Lo accettai quando il Psi si ridusse nella condizione in cui è oggi il Pd: tot capita tot sententiae; su mille questioni si hanno opinioni divergenti tra premier, sottosegretario e magari vicesegretario del partito. Ritenni che, in quel discredito in cui era caduto il Psi, Craxi fosse ciò di cui avevamo bisogno per l’autorevolezza che sapeva esprimere. Ho sempre collaborato con lui in termini politici.

Il signor Grillo, che mi definisce sul suo blog “tesoriere di Craxi”, mente sapendo di mentire: usa il termine che possa farmi apparire il più spregevole possibile. Io non ho mai avuto a che fare con le finanze del Psi. Ho collaborato con una stagione di riformismo, caduta progressivamente in un’alleanza divenuta di pura sopravvivenza. Rimane il fatto che Craxi ha finito per rappresentare il male di una stagione politica che, come lui stesso disse, aveva infettato molto più largamente che non lui, ma non necessariamente il suo intero partito.

C’è infatti chi dice Craxi, c’è chi dice socialista. Ancora oggi, rievocando uomini e donne che hanno rappresentato qualcosa di positivo per l’Italia, si sente dire: “Era una persona di qualità, nonostante fosse socialista”. Non lo possiamo più fare, ma andrebbe chiesto a un uomo del rigore di Luciano Cafagna i prezzi che ha pagato negli ultimi anni della sua vita al suo essere e non aver mai cessato di definirsi socialista ».

Sicuro che al Pd serva un Craxi? «Al Pd, come all’Italia, servirebbe moltissimo un presidente Deng. Lo dico per scherzo; ma se il Pd non riesce finalmente a identificare se stesso con la costruzione di un futuro credibile per l’Italia, è evidente che la sua ragione sociale ha cessato di essere perseguibile, e diventa preda di lotte intestine che lo distruggono. Le lotte intestine possono distruggere anche un partito che ha ancora una ragione sociale; figuriamoci un partito che la perde ».
GIULIANO AMATO ROMANO PRODI FOTO LAPRESSEGIULIANO AMATO ROMANO PRODI FOTO LAPRESSE

Il governo con il Pdl durerà? «Per necessità, non per amore. È reso necessario da un risultato elettorale non nitido. Colpisce la difficoltà a prendere atto di questo, la debolezza identitaria di coloro che, timorosi di perdere se stessi, sembrano non capire che possono determinarsi circostanze in cui l’interesse del Paese impone di sacrificare l’interesse di partito. Togliatti non avrebbe avuto difficoltà né a capirlo, né a farlo capire.

Un po’ più di togliattismo sarebbe stato bene rimanesse pure nei suoi eredi. Ma sono bisnipoti dimentichi della vera grande lezione del partito comunista: cercare di interpretare i bisogni della nazione. Il Pci era prigioniero di una ideologia sbagliata, ma si collocava all’altezza della nazione. Ora siamo collocati all’altezza di “dì qualcosa di sinistra” o “famolo strano perché così è più di sinistra” ».

La bocciatura di Prodi? «Raccapricciante. Era in Mali come rappresentante Onu, torna in Italia abbandonando la sua missione perché lo stanno eleggendo capo dello Stato; e invece no ». E se le offrissero di guidare la Convenzione per le riforme? «Mi auguro che nessuno me lo chieda, perché non vorrei condividere il titolo che all’argomento dedicò il Giornale: “Amato è infinito” ».


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Bart