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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Fracchia, Umberto

7 Novembre 2007

Il perduto amore
Angela    

“Il perduto amore”

Mondadori “Romanzi e racconti”, 1949

Si legge nella nota bio-bibliografica che “Umberto Fracchia nacque a Lucca il 5 aprile 1889 da padre piemontese e da madre ligure. Compì gli studi classici e universitari a Roma”. Visse, infatti, molto poco nella città toscana, come era accaduto già a Giosue Carducci, nato anche lui in Lucchesia, a Valdicastello, un paesino nel comune di Pietrasanta. Come è noto, di genitori lucchesi è Giuseppe Ungaretti, che nacque ad Alessandria d’Egitto. Non scrisse romanzi, invece, un altro illustre lucchese, Mario Pannunzio, che fondò nel 1949 e diresse il prestigioso “Il Mondo”, di cui, in seguito, fu direttore anche l’altro lucchese Arrigo Benedetti.

Fracchia scrisse molto, tra romanzi, novelle e racconti. Fondò nel 1925 e diresse la “Fiera letteraria”, che, tra i suoi direttori, ebbe anche un altro lucchese (d’adozione), Manlio Cancogni, il quale, ricevuto il testimone da Diego Fabbri – finito pure lui, ingiustamente, nel dimenticatoio -, chiamò a collaborare sin dal primo numero (il n. 27 di giovedì, 6 luglio 1967) due lucchesi: Cesare Garboli con: “Il piacere d’essere un idolo” e Pier Carlo Santini con: “Sognano la città del futuro”.

Il romanzo, del 1921, mi ha incuriosito per questa coincidenza: molti anni dopo, nel 1979, sempre per Mondadori, uscirà “Il perduto amore” del viareggino Mario Tobino, con lo stesso titolo, dunque, del romanzo di Fracchia. Mi sono sempre chiesto se Tobino conoscesse questo precedente. L’amico insigne Prof. Giorgio Bárberi Squarotti, sempre prodigo di consigli nei miei riguardi, è convinto di sì, come mi scrive in una sua lettera del 21 febbraio 2005.

È un uomo triste e disperato, il protagonista che apre il romanzo. Si chiama Paris e si definisce uno che vive: “l’imperfetta vita delle ombre”. La ragione sta nel fatto che qualcuno è morto per colpa sua ed egli ne sente il rimorso. Così ci narra che cosa sia veramente accaduto.

La scrittura è piana, pulita, misurata. Un parente, Carlo Clauss, fa pervenire alla famiglia del protagonista, che ha vent’anni, una lettera da un paese lontano, dove ha vissuto per molti anni. È malato e vorrebbe far ritorno a casa e domanda di potersi rifugiare per qualche giorno tra loro, in attesa di una sistemazione definitiva. Quando arriva, non è molto cambiato dalle foto che sono conservate nell’album di famiglia: “Alto, diritto, con la barba e i capelli appena brizzolati, egli non tradiva né stanchezza né dolore. Il suo volto pallidissimo, di un pallore olivastro ed uguale, bruciava ancora di quella fiamma interna che gli splendeva negli occhi scuri, profondi e lucidi. Era bello. Anche la sua voce, il suo modo di gestire, la sua pronuncia un po’ lenta e faticosa mi parvero, al primo incontro, attraenti”. Paris è turbato dai suoi strani racconti. Senza dubbio, pensa, si tratta di una personalità inquieta, stravagante anche. Parla della morte come un’aspirazione sublime dell’uomo. Possibile?: “Confesserò, senza vergogna, che Clauss mi faceva paura. Spesso, non visto, mentre egli leggeva, o parlava con altri, io lo spiavo a lungo, fantasticando.”

È un’atmosfera alla Hoffmann (penso a “L’uomo della sabbia”) quella che si crea intorno al giovane protagonista, il quale, anche quando Clauss è partito, ne sente vibrare la presenza: “Avevo lunghe e confuse allucinazioni: visioni di una realtà inverosimile.” Fracchia, attraverso una scrittura lenta, dotata di una intrinseca quiete, contrapposta in qualche modo al suo contenuto, crea un’atmosfera intrisa di suggestione e di mistero, che ci accompagnerà sempre, quando in modo accentuato, quando più soffuso. Si pensi al ritratto di Armida che incontreremo verso la fine.

Allorché, mandato a vivere da solo, ospite in casa del notaio Sterpoli, con il figlio di questi, Paolo, esce per recarsi in un locale equivoco frequentato da donne allegre, vi incontra Clauss: “Salimmo una scaletta a chiocciola, ed entrammo in una piccola stanza azzurra. Clauss stava seduto sopra un divano.” Clauss è innamorato di Daria, una ballerina del locale, delle cui gambe si dice che “sono le corna del diavolo!” Ma al protagonista dice: “Spero che non crederai davvero che io sia innamorato di Daria. Io non ho mai amato.” Fracchia non è immune da un certo romanticismo decadente, tipico del tempo, dominato da D’Annunzio. Lui stesso se ne rende conto nella Avvertenza che si trova nell’edizione del 1930, quando scrive: “Gli avvenimenti intermedi, che ognuno può ricordare da sé, bastano a spiegare certe romantiche ingenuità di cui il romanzo abbonda e il tetro pessimismo che vi predomina.” L’opera è, dunque, segnata dal tempo: sebbene lo stile sia limpido, gli echi che diffonde appartengono a un’epoca ormai definitivamente trascorsa, e se, per esempio, la scrittura del lucchese Remo Teglia può suscitare ancora oggi ammirazione e stupore, non così accade sempre per la pur linda e incontaminata scrittura di Fracchia.

Daria è una bella donna, ed ha molti corteggiatori: oltre a Clauss, Paolo, l’amico di Paris; Paris stesso ne è attratto. È indubbiamente il ritratto della donna che primeggiava ai primi del Novecento sia nella letteratura che nel cinema, la quale trafiggeva i cuori dei suoi ammiratori, compiaciuti di soffrire delle sue crudeltà. Le perdonavano tutto. Clauss non è più giovane; la frequentazione dei giovani e delle belle donne rappresenta per lui il toccasana che respinga e contrasti la sua incipiente senilità. Dice a Paris: “devi considerarmi come un moribondo al quale ogni cosa può servir di conforto.”

Daria ha una sorellina di quattordici anni, Soave, ancora acerba nel fisico, ma già sveglia e attenta alle cose del mondo, che trae apprendimento dalla vita della sorella maggiore. Paris la incontra mentre sta seduto su di una panchina di un giardino pubblico. Lei lo riconosce e corre a sedergli accanto. Maliziosa, nel salutarlo gli dà un bacio. Fracchia è buon tessitore della trama ed ha già cosparso il percorso del suo raccontare di molti segni che saranno destinati a congiungersi.

Quando si trovano a cenare insieme Daria, Clauss e Paris, quest’ultimo, affascinato dalla donna, si aspetta di ricevere da lei un sorriso, “uno di quei sorrisi che sono come fili tesi fra due bocche”. Invece è con Clauss che la donna amoreggia. Ragazzo com’è, Paris s’ingelosisce e in fretta e furia se ne torna a casa, dove trova Paolo affranto anche lui, poiché Daria gli aveva promesso un incontro amoroso e invece aveva mandato la sua vecchia serva, Kate, a dirgli che non sarebbe venuta perché “È andata da Clauss…”

La storia, in questa parte prima, si è stretta e invischiata intorno ad un tale asse lacrimoso e romantico. La giovane età dell’autore, anziché incoraggiarlo ad una esperienza diversa ed innovativa, lo trascina nelle spire di quel vortice tenebroso ed incostante che in quegli anni di crepuscolarismo e di dannunzianesimo attraeva molti neofiti. Accanto all’amore, infatti, va sempre di pari passo la morte, allorché l’amore provoca una qualche delusione e amarezza. Intorno a Daria aleggia il profumo della sua bellezza e della sua vanitosa crudeltà, ma anche sta in agguato l’artiglio perverso della morte. Quando Sterpoli si sente dire dalla vecchia Kate che Daria non verrà all’appuntamento perché ha preferito Clauss, egli reagisce come impazzito e la cerca disperatamente per vendicarsi, ma in lui s’insinua anche il pensiero del suicidio, con espressioni tipicamente romantiche. Racconta a Paris: “L’idea della morte mi balenò síºbito nel cervello. Síºbito la sua figura schifosa e orrenda m’apparve e si mise al mio fianco, e mi avvolse col suo sguardo buio, beffarda e amorevole, spaventosa e attraente. «Che vuoi da me, civetta? » urlavo. Ed essa mi additava con gesto servile la sua ghirlanduccia intorno al cranio vuoto, intorno al cranio nudo e risonante, per indicarmi che non tutti i fiori sono di questa terra. «Morire! » dicevo a me stesso. Anche questo è uno scampo.” Il brano, che prosegue immaginando che la donna amata si rechi a deporre una rosa rossa sul suo cadavere, riassume molto bene (si guardi, più avanti, alla vicenda amorosa tra Armida ed Esposito) il percorso intrapreso dall’autore: arduo, difficile, ricco di sforzi e di proponimenti volti ad emanciparsi da una scrittura che, altrimenti, non avrebbe avuto che poche cose da dirci.

Sterpoli, trovata Daria in casa di Clauss, si avventa sull’uomo, uccidendolo. L’inconscio, l’istinto, il mancato controllo delle passioni, primeggiano in questo inizio, e tutti i protagonisti, piuttosto che guidati dalla ragione, si muovono dentro una realtà impalpabile e imprevedibile che li governa e li trascina. Sono personaggi tormentati, dominati e trafitti da una psiche malata. Lo stesso Paris, che si sforza di analizzare quanto sta accadendo intorno a lui, ne è posseduto e coinvolto, così che egli non si differenzia dagli altri, anzi, la sua analisi disordinata trasferisce proprio sugli altri le stesse sue deformità: “Ma io proprio non riuscivo a trovare un cominciamento in quel garbuglio di cose, non una fine, e nemmeno un ordine qualsiasi che me ne spiegasse la natura.” Ancora di più il paragone con E.T.A. Hoffmann non pare avventato e meglio si delinea allorché Fracchia, avviando la parte seconda, riesce a creare intorno alla “collana dallo smeraldo” che Daria, in un momento d’ira, ha gettato contro Clauss, e che è rimasta dimenticata, quell’atmosfera allucinata e romantica, non soverchia tuttavia, che caratterizza lo scrittore tedesco. La parte seconda si presenta, dunque, come quel tratto di strada su cui, perse le incertezze dell’inizio quando non si era sicuri della meta, ci si incammina con un passo più fermo e risoluto. Alcune di quelle scorie che abbiamo incontrato nella parte prima sono cadute, illuminando la scrittura qua e là di bagliori, come quello che si sprigiona dal personaggio Bombata, un ragazzo rachitico, di dodici anni, uomo delle pulizie nel locale “Alhambra” dove si è tenuto il burrascoso incontro con Daria, il quale ha trovato la collana che poi finirà nelle mani di un rigattiere, e “Quella mattina Bombata, che era d’umor taciturno e usava di solito accompagnare l’andirivieni della sua scopa con dispettosi grugniti, l’udirono invece cantare, con una bella voce di mezzo soprano, una delle tante canzoni che là dentro sapevano anche i muri. «Guarda, » disse il maestro di casa che in maniche di camicia lucidava le maniglie alle porte, «nella testa di Bombata è nato un gallo! »” O la figura di Porfirio (“il tubino unto calato sugli occhi”), il vecchio rigattiere che, in riva al mare, tra barche in secca e in contemplazione dei “pescatori che risciacquavano le lor reti tutte piene d’erbe marine”, riesce a trafugare la collana alla piccola Egle, di tredici anni – a cui Bombata, per far bella figura, l’aveva regalata -, spaventandola col farle credere che nel suo sacco sia nascosto l’uomo nero. Questa collana ha un percorso suo proprio. Ammirata sul niveo collo della bella Daria, scagliata da costei contro l’amante in un momento d’ira, finita nelle mani di un rachitico innamorato di una ragazzina di strada, donatala a costei, finisce nelle mani del vecchio Porfirio che si mette a sognare per la gioia di quel possesso, e invece viene colto dalla morte improvvisa. Così la collana finisce nelle mani di un altro rigattiere, “suo concorrente”, che ha scoperto il suo cadavere e gli ha chiuso gli occhi. Due morti sono già disseminate lungo quel percorso: Clauss e Porfirio.

Paris, invece, il protagonista, l’io narrante, c’è andato vicino. Dopo quei fatti si è ammalato gravemente e solo la sua giovane età lo ha aiutato a salvarsi. Durante i suoi deliri, ha più volte avuto davanti a sé l’immagine della collana e quella di Daria che l’indossava. Una sera in cui “si festeggiava il compleanno di mia sorella Silvina”, alla quale le altre sorelle avevano regalato “un anello di platino con un fiorellino di smalto azzurro”, ecco che in carrozza giunge il padre e si presenta in casa, indovinate con che cosa? Con la famosa collana di Daria, acquistata “quasi per nulla” dal rigattiere. Non è passato che un batter di ciglia e Paris ora può vederla al collo di Silvina “e la pietra verde splendeva sulla sua esile gola.”

Vedete, dunque, come il romanticismo di Fracchia si è adornato di quelle ombre e di quei misteri che avrebbero potuto confinarlo e rigettarlo nelle incontinenze della prima parte e che qui sono invece amministrate con fascino e proprietà. Anche i personaggi sono introdotti con misura ed in successione tale che non appena essi sono nominati, al più presto Fracchia ce li ripropone per un approfondimento. È il caso di Silvina, la minore delle tre sorelle, a cui è passata la collana, e che apre la parte terza. Vive con un principe “ed esce per la città adagiata in una grande carrozza a due cavalli, con cocchiere e lacchè. Lungo la strada semina occhiate come elemosine.” S’intuisce che la trasformazione e la maturazione della scrittura di Fracchia, intraviste nella parte seconda, hanno qui raggiunto ormai la loro compiutezza e non fa meraviglia che tanta perfezione di stile sia derivata dall’incontinenza e dal disordine della parte prima, quasi che Fracchia, anche al momento della revisione del testo, dichiarata nell’Avvertenza, abbia deliberatamente voluto lasciare i segni di questa crescita, come una specie di segreto dei suoi meccanismi generosamente svelato. Dirà Paris: “Eccoci tutti eguali, noi di questa maledetta generazione, capaci di suscitare gigantesche illusioni dalle minime cose!” Ma non solo: noi ora faremo i conti con una scrittura diversa e ammaestratrice, che però, non dobbiamo dimenticare, trae le sue luci e le sue ombre, i suoi misteri, da quella scrittura tutta intrisa di fermenti con la quale si è aperto il romanzo. Non è un caso che Silvina riporti spesso alla mente del fratello il ricordo dei capricci e degli enigmi nascosti nel carattere di Daria. Quella parte prima è portatrice del caos, dunque, e del mistero da cui è sorta e sorge la vita: “Io sono stato senza dubbio del numero: anch’io un romantico.”

Un giovane compare all’improvviso nei ricordi di Paris. Passa a cavallo sotto le finestre di Silvina, a quel tempo ancora ragazza, di cui è innamorato. Un giorno, mentre passeggia lungo il fiume, cade e viene soccorso dalla famiglia di Silvina, portato nella loro casa e assistito. Non si sa nulla di lui. Paris ha trovato per terra una lettera in cui egli dichiara il suo amore per la sorella. Interroga Silvina, ma lei non ne sa niente. In realtà, di lì a poco, una notte, fuggirà con lui. Ancora una volta, il mistero avvolge i comportamenti degli individui; li fascia e domina quel certo che di arcano che è racchiuso in noi, in grado di stabilire improvvise congiunzioni, fulminei contatti, forse al di fuori perfino dei nostri sensi, capaci di trascinarci dentro un io sconosciuto che, una volta destatosi, ci comanda e ci possiede. È qualcosa di molto più del Mister Hyde immaginato da Robert Louis Stevenson. Non è un caso che Fracchia si soffermi, nel capitolo V della parte terza, a descriverci il mantide che si sente attratto dalle lusinghe amorose della femmina, che poi lo divora. Le azioni che si succedono respirano un’aria più fiabesca che bohémien, e sottolineano, dunque, quella parte irreale della vita che la ragione non riesce a comprendere: “Le vecchie suppellettili scricchiolavano tutte con lunghi gemiti, come se spiriti imprigionati nelle loro membra di legno tarlato e inchiodato si torcessero spasimando per liberarsene.” Fracchia sta disegnando quella zona indefinibile dell’esistenza che conserva ancora intatte tutte le cause e le motivazioni che originarono la vita. Ammalatosi improvvisamente Silvio, Silvina rimasta sola nel suo abbaino, al sopraggiungere delle “ombre nere in quella prima sera di solitudine”, è presa da paura, “scese correndo tre capi di scale, e, senza esitare, bussò alla prima porta che le si parò dinanzi.” Ricordiamoci che Fracchia non ha mai tralasciato di osservare che Silvina porta al collo quella collana con smeraldo che era appartenuta a Daria. È in grazia di essa che, rifugiatasi quella sera nella equivoca casa di madama Humbert, lo zio Stanislao si rammenta di averla già incontrata nel locale “Alhambra” in compagnia di Silvio. Una delle sette ragazze della signora Humbert dice a Silvina che una collana del tutto simile era appartenuta a una sua sorella morta giovane. Era poi scomparsa, insieme con altri gioielli. Per chi avesse per un solo momento dimenticati gli arcani e seducenti fili che intessono la trama, basti quanto Fracchia scrive a riguardo dei mutamenti che attendono Silvina: “Io credo che la gente superstiziosa si raffiguri giustamente come spettri notturni i maligni spiriti, e li veda sempre intanati nel buio, in agguato sotto gli antri oscuri, nelle cave rovine dove non penetra mai luce di sole, e specialmente senta la loro presenza invisibile nelle notti d’uragano, quando il mondo è alla mercé delle tenebre. Uno di me meno scettico penserebbe che in quella sciagurata notte un maligno spirito s’insinuò nel cuore di Silvina e vi stabilì il suo dominio.” Quella ragazza, infatti, che le parla della collana e le offre di ospitarla a dormire nella sua cameretta sapete come si chiama? Soave, ed è proprio la sorellina di Daria che abbiamo già conosciuta. È poco più grande di Silvina, che ha diciotto anni, ora. Suggerisce a Silvina di abbandonare Silvio e di scegliersi un uomo ricco, anche se brutto, tanto gli uomini sono “Tutti schifosi a un modo.” Le insegna a tingersi le labbra, gli occhi e il viso, e Silvina si compiace del mutamento, non solo ma lo zio Stanislao, brutto ma ricco, che si rivela essere quel principe Strostki di cui le aveva parlato un giorno con ammirazione Silvio, le dichiara il proprio amore e Silvina se ne sente lusingata. Non è un caso, infatti, che per tutti i venti giorni che Silvio è ricoverato in ospedale, vada a trovarlo una sola volta, in principio, e allorché, smagrito e debole, ritorna finalmente a casa, le sole parole che riesca a dirgli sono “Ah! Non sei morto?” Silvina è mutata. È ancora Paris, non dimentichiamolo, il fratello, che ci sta raccontando di lei, e che la osserva con noi. La malinconia che trasuda dalle righe è la sua malinconia per un destino che non si può arrestare. La misera vita che conduce con Silvio non può continuare, gli dice subito dopo, e allora Silvio che fa? Il mattino dopo, ruba a Silvina la famosa collana con lo smeraldo e la vende per poter disporre di un po’ di denaro. Cominciano a frapporsi tra i due, dunque, la vanità e la menzogna, oltre alla gelosia. Silvina, infatti, ha nel principe Strostki il proprio amante. Le atmosfere decadenti di quell’inizio Novecento si insinuano nel contorto intreccio che Fracchia dà alla sua storia, anche se vigilate da uno stile più accorto rispetto a quello incontrato nella parte prima, e confermano quanto esse abbiano nutrito la vena letteraria dell’autore. Pare, anzi, potersi fare, proprio con questo autore, una distinzione abbastanza netta tra la sua scrittura, puntuale, controllata, e l’intreccio romantico, sul quale prevalentemente è andata ad adagiarsi la polvere decadente di quegli anni.

Paris va a trovare la sorella, sono trascorsi cinque mesi dalla sua fuga con Silvio. La madre sta morendo e ha chiesto di poterla rivedere per l’ultima volta. Paris le promette anche che Silvina resterà d’ora in avanti con loro, non se ne andrà più da casa, ma non sarà così. Qualcosa non scatta ad aiutare e a redimere la vita di Silvina che, infatti, morta la madre, “se ne andò per sempre. Come mia madre. Nemmeno Silvio la rivide più.”

Dobbiamo metterci ora sulle tracce della collana (“Questo gioiello apportatore di sventura”), che per un lungo tratto è il vero filo conduttore della storia, intorno alla quale i personaggi appaiono, prendono la ribalta e poi svaniscono nell’oblio. A proposito della collana si legge: “Raccontano che vi siano state gemme altrettanto malefiche quanto questa, ed anche più, le quali rovinarono con la loro sinistra influenza regni e repubbliche, spensero nel sangue intere dinastie, scatenando guerre e pestilenze; e, precipitate poi nelle profondità dei mari, furono dopo secoli ripescate, e tornarono a seminare sulla loro strada delitti e sciagure.”, che è anche uno dei tanti esempi che si potrebbero fare della elegante prosa che adorna e piega alla sua bellezza assai spesso la tessitura romantica del libro. Ma Fracchia, come vedremo molto più avanti, sarà capace di scrivere anche, senza alcuna titubanza, a proposito di Isacco: “Era un piccolo uomo più basso di statura molto di me”.

Silvina rivede la sua collana presso un gioielliere, dove l’amante Strostki l’ha condotta per comprargliene una ancora più bella. Finge di non riconoscerla e così, sottolinea Fracchia, “Silvina rinnegò per l’ultima volta il suo passato, e la collana di Daria fu nuovamente rinchiusa dentro lo scrigno.” Come in una fiaba o in un romanzo di Robert Louis Stevenson, viene introdotto il personaggio di Perdifiato, altro esempio di bella prosa, al quale manca una gamba perduta sotto un carro, ma non la gobba “che il destino, previdente di ciò che gli sarebbe mancato poi, gli aveva appioppata sul groppone fin dalla nascita.” La gente lo chiama Perdifiato “perché, camminando con quella stampella e quel fagotto sempre appeso alle spalle, pareva a tutti che per la gran fatica dovesse mancargli da un momento all’altro il respiro.” In conseguenza di certi disordini accaduti in città (che ci ricordano il Manzoni de “I promessi sposi”), i quali avevano provocato saccheggi e un grosso incendio e distrutto case e botteghe, egli si trova a rovistare nella gioielleria dove si trova la nostra collana. È stata già visitata dai ladri, ma Perdifiato raduna quel che trova, lo rovescia in una valigia e se ne torna a casa, non dopo aver subito qualche scontro lungo il cammino. La sua casa è una misera grotta in riva al mare, dove vive con Prisca, la giovane e bella moglie nera ed il figlio Accolito. Bene, tra le minutaglie di quel magro bottino, c’è proprio la nostra collana, che finisce sul collo di Prisca, la quale, vestitasi a festa, se ne va in giro per la città, sola con il figlio, visto che lo storpio marito è costretto finalmente a letto da una ferita e non può tormentarla con la sua gelosia. Tutti l’ammirano e ammirano la collana. Ma Perdifiato, per guarire da quella ferita pericolosa infertagli al fianco quel giorno dei disordini, promette la collana alla Vergine Maria. Così la strappa dal collo di Prisca e, salito ad una vecchia chiesa lì vicino, la offre alla Madonna. Paris ci fa sapere che “Là un giorno rividi per caso la collana di Daria, la collana di Silvina. Essa ora appartiene al cielo: è di Dio.” Dunque, Fracchia ci fa ricordare che finora abbiamo seguito le vite di Clauss, di Daria, di Silvina e di Silvio, intrecciatesi attraverso la collana con lo smeraldo. Di Clauss solo siamo certi che è morto. Di Daria lo abbiamo sentito dire dalla sorella Soave. Gli altri personaggi restano come sospesi su un percorso al fondo del quale resta il mistero, che è una delle chiavi più suggestive di lettura di questo romanzo. Paris, che è stato il tramite, come io narrante, di queste vicende, ora si accinge a parlare di sé. Ha raggiunto i 35 anni, ed è stanco e malato, con una gran voglia di porre fine alla sua esistenza. Conduce una vita misera, non ha denaro e abita in una stamberga. Sembra che la maledizione della collana sia passata a lui. L’intreccio così saltellante e imprevedibile contribuisce in realtà a dare alla tessitura uno spessore che nasconde, e spesso annulla, gli afflati decadenti che ogni tanto soffiano sul romanzo. Passando attraverso la vicenda amorosa tra Armida e Esposito, Paris si trova, infatti, in un intreccio alquanto rocambolesco, a dover sposare la sorella di questi, Luisa: “Luisa aveva trent’anni, ma ne dimostrava sedici. Non saprei dire, in realtà, se la magrezza e la povertà del suo corpo fossero indizio di una giovinezza precocemente sfiorita, o se ancora dovesse sbocciare. Era giovane, e vecchia: non aveva età.” Inizia una vita coniugale senza amore (“Non la consideravo neppure come una moglie”) e intristita dalla miseria. Luisa ha portato con sé la madre, vecchia e malata. Paris si lamenta: “Per sfamare voi due, io vivo e fatico, e mi accieco dalla mattina alla sera.” Ha trovato, infatti, lavoro “nella redazione di un piccolo giornale settimanale” e in sovrappiù, per “racimolare qualche altro soldo”, fa il correttore di bozze. Il ritratto di Luisa è quello di una sposa umile, docile e riservata, dal “sorriso malinconico e pietoso”. E ancora: “Una buona, una devota serva: secondo la mia opinione d’allora, questa era Luisa per me.” Taglia e cuce camicie per uomini e “Dopo aver ripulito tutta la casa, Luisa si metteva in capo il suo cappellino spennacchiato, al collo una sciarpetta di lana, e andava a misurar camicie ai suoi clienti.” Nella stanza accanto alla loro, divise da una sottile parete, vive Isacco, che fa il commesso in una “botteghina di libri usati”. Ha circa trent’anni, è di statura un po’ più bassa di Paris, gli piace chiacchierare. Un giorno si conoscono ed Isacco comincia a frequentare la loro casa, a dispetto di Paris che non lo ha in simpatia. Ma quando, approfittando, sembra, di un suo zio ricco, Isacco comincia a portare in casa regali d’ogni specie: fiori, vino, dolci, ecco che le cose cambiano. La sua compagnia è gradita non solo a Paris, ma anche e soprattutto a Luisa, il cui viso ogni volta “s’irradiava di gioia”. Dunque, come Daria e Silvina, un’altra donna sta per prendere la scena, in questo romanzo che si rivela tutto al femminile. Contagiato dalla gelosia, poiché suppone una relazione tra Luisa e Isacco, la sua vita diventa insopportabile. Spia ogni gesto dei due; non si dà pace: “qui tutto ormai viene da Isacco” dice alla moglie quando Isacco gli porta in dono un paio di scarpe nuove, e ne deduce che “Ormai era chiaro per me che fra lei ed Isacco esisteva un intrigo.” Ed ecco la sfida che Fracchia ci lancia in questo finale, nel quale alla nostra mente non mancano di presentarsi ancora dispersi e vaghi come fantasmi le immagini di Daria e di Silvina: “Non mi pareva concepibile la gelosia, là dove non c’era l’amore.” Non c’è amore tra Luisa e Paris, può esserci allora gelosia? Non solo può esserci, ma, soprattutto se si è stati per tutta la vita perseguitati dalla sfortuna, si può diventare così crudeli da spargere intorno a noi soltanto orrore e disperazione: “Io ero uno di questi” dice Paris allorché, una notte che Luisa si era recata a far visita a Isacco, gravemente ammalato, la chiude fuori della sua camera. Così umiliata, Luisa per la prima volta pensò “una cosa alla quale non aveva mai pensato.” Alla fine del romanzo, quando sapremo tutta la verità su Luisa e scopriremo la dolcezza e la generosità del suo amore, ci resta da porci quella domanda che ci ha accompagnato per tutta la durata di questa lunga confessione di Paris. C’è differenza tra Daria, Silvina e Luisa? O non sono esse, piuttosto, la stessa donna, complessa e meravigliosa, dolorosa ed istintiva che Fracchia ci ha voluto consegnare, nel momento in cui Paris, afflitto dal suo tragico rimorso, rivela: “Ora anch’io, come Robinson, incido sopra un bastone un segno per ogni giorno che passa, e il mondo non è per me che un’isola deserta, sperduta in mezzo al mare. Siamo in due ad abitarla, in attesa di navigare insieme verso il nulla dal quale approdammo per caso in quest’isola abbandonata.”

“Angela”

Mondadori “Romanzi e racconti”, 1949

Giorgio Bárberi Squarotti lo considera, a ragione, il suo lavoro migliore. Uscì nel 1923, due anni dopo “Il perduto amore” ed è stilisticamente assai più maturo, infatti, libero dalle frequenti e pesanti scorie che avevano contraddistinto il romanzo del 1921.

L’avvio è straordinario, con una messa a fuoco della città che a poco a poco si restringe per arrivare nel vicolo del Lastrico, alla bottega dell’anziano orologiaio maestro Zí­molo, per il quale “quando metteva la lente e appuntava la pupilla nel ventre di uno di quegli orologi, l’orizzonte, che allora gli si schiudeva dinanzi, valeva per lui quanto il più bel panorama di colline, di alberi o di mare, fra quelli che la città avrebbe potuto offrire al suo sguardo.” Maestro Zí­molo, al di là del suo lavoro, non ha molte altre distrazioni. Quando finisce la sua giornata si reca al porto, si siede “sopra un pilastrino di pietra o sopra un mucchio di canapi arrotolati” e osserva i ragazzi giocare: “tutti poverelli: figli di pescatori o di marinai, di carpentieri o di gente senza né arte né parte.” Poi, attraversato un labirinto di viuzze, sale alla sua stanza, posta al quarto piano, e si corica “ad aspettare il sonno.”

Ciò che si era già notato ne “Il perduto amore”, ossia la scrittura ordinata e pulita, ora ha in questo romanzo il suo risalto, e le atmosfere che ci avvolgono sono soffuse e misurate da un afflato che le rende sensibili e contagiose al lettore. Allorché accenni decadenti, non del tutto ancora risolti, compaiono, essi sono assai attenuati, come, per esempio, quando in ospedale abbiamo a che fare con la figura del giovane ricoverato Pietro Pais. Zí­molo è un uomo fondamentalmente buono e un poeta. Ciò che vede, lo vede e lo sente con il cuore. Vive solo, non è sposato e nei momenti in cui pensa agli altri, pensa anche al suo desiderio irrealizzato di avere un bambino (“Non avrò mai un bambino! – mormorava.”). Davanti alla sua bottega c’è “la casa rossa”, un edificio che ospita prostitute, e la cui padrona, una specie di strega (“la mammana”), va da lui spesso a vendergli orologi ricevuti dai clienti, per lo più marinai. Pensa a quelle ragazze e ne ha compassione: “fermamente persuaso che quelle ragazze non potessero avere bambini, perché, con la sua scarsa conoscenza del mondo, aveva sempre creduto, in un senso esageratamente esatto, che non potesse nascere un figlio da diversi padri. Considerando se stesso infelice, considerava dunque infelici anche quelle ragazze, condannate come lui a non avere bambini, e ne sentiva pietà.” È un romanzo ispirato da una malinconica dolcezza e da uno sguardo triste sul mondo, che si vorrebbe poter aiutare. Ne è un esempio il modo come Fracchia descrive e tratta la casa rossa e le sue ragazze, sul filo di una pietas che non è mai compassione, bensì comprensione e condivisione. La permanenza all’ospedale, a seguito di una improvvisa e grave malattia, induce Zí­molo a riflettere sulla vita e sul proprio destino, e così comincia a pensare al modo di avere un figlio: “vorrei trovare un bambino bell’e fatto… ma che potesse essere mio… Ci sono tanti bambini orfani, abbandonati, che non hanno padre… Uno di questi, vorrei.” Si reca, dunque, alla casa rossa, dove sa che Angela, una prostituta di venti anni, bionda e carina (“Bionda con gli occhi neri”), ha un figlio ancora piccolo, bisognoso di cure; vorrebbe chiederle di cederlo a lui che lo alleverebbe come fosse suo e gli lascerebbe la sua piccola eredità. Ma Angela non gli apre nemmeno la porta. Così maestro Zí­molo continua la sua ricerca: uomo ingenuo, quando si trova di fronte all’ospedale e alla “rota dei trovatelli” e un poveretto a cui chiede se ancora le madri sventurate lascino là sopra i figli indesiderati gli risponde che “Ora li buttano nelle fogne!”, rimane esterrefatto: “Dunque, per gli altri il problema non era di avere bambini, ma di non averne e di liberarsi anche di quelli che, loro malgrado, erano nati. Egli solo, fra tutti, desiderava avere un figlio”. In questa riflessione del protagonista sta una delle chiavi significative del romanzo, in cui la bontà e l’innocenza si misurano e si scontrano con le angustie di una realtà che ha incattivito gli animi. Un confronto, questo, che nel romanzo acquisterà il sapore, come vedremo, di un’amara sconfitta. Taluni nomi scelti dall’autore sprigionano bellezza: Zí­molo, Mondino, Ponce, Boví­so, Zanze, Gussai. Per bocca della stessa Angela, che un giorno va a trovare Zí­molo, si viene a sapere che ha avuto il suo bambino da un personaggio potente, contro il quale cerca di difenderlo. Per mantenerlo si è ridotta da quattro anni a fare la prostituta. Ha creduto che Zí­molo fosse andato a trovarla per conto di questo personaggio, allo scopo di portarle via il figlio. In questo passaggio, l’eco decadente è assai pronunciato e Fracchia, nonostante tutto, resta un narratore indissolubilmente legato al suo tempo. Anche nell’altro personaggio, Pietro Pais, un poeta, e nel suo amore per la sedicenne Elena, verso la quale si finge morto essendo gravemente malato, non mancano di farsi sentire gli umori crepuscolari del primo Novecento. La città è attraversata da tumulti, colpi di fucileria, bagliori di incendi, la scuotono. Tra i rivoluzionari c’è Emilio, il fratello di Elena, che è combattuto tra la sua passione politica e quella per Angela: “Abbiamo tanto da lavorare! Rivoluzioni… tanti propositi… nuove leggi… nuove filosofie. E tutto si dimentica per una donna!” Solo però quando Fracchia indugia sulla figura di maestro Zí­molo, il romanzo ha una sua perfezione e una sua invidiabile grazia: uomo semplice e ingenuo, circondato da una realtà povera e miserabile, Zí­molo la illumina con tratti di autentica poesia. Tutto intorno a lui ne viene prima o poi contagiato. Senza dubbio, un personaggio rimarchevole. Emilio, non trovando più Angela alla casa rossa, dove l’ha conosciuta, viene a sapere che Zí­molo sa dove è andata, e così si mette a seguirlo di nascosto. Angela è da sua madre, ritornata in montagna, ad Alfa, il paese natio, dove, grazie all’aiuto di Zí­molo, il suo bambino Luli (Giulio) guarisce, finalmente. Zí­molo sta girando la città in cerca di una casa dove potersi ritirare con Angela, e intanto ha deciso di vendere la bottega: “era tutta la sua vita di quarant’anni che si liquidava con quella bottega.” Fracchia ha scelto di rappresentarci in parallelo due situazioni in sviluppo: quella del rapporto tra maestro Zí­molo e Angela e quello tra Pietro Pais ed Elena. Diventeranno i due percorsi principali sui quali si costruirà la storia. Così si apprende subito che Pietro Pais, che è guarito (anche se guardando le sue spalle “si vedeva da lontano mille miglia che erano le spalle di un tisico.”) e che ha conosciuto Zí­molo in ospedale, è andato a trovare Elena, che lo credeva morto, e gli rivela che è “guarito, guarito. Come spiegarti? Un miracolo… In una notte, in un giorno, tutto è cambiato!…” Si sono fidanzati e Pietro va con lei a trovare Zí­molo e apprende che il vecchio orologiaio ha trovato finalmente il bambino che cercava, figlio di Angela, una prostituta. Più che Pietro Pais, però, saranno Elena e successivamente, e soprattutto, il fratello Emilio a diventare i punti di contatto fra le due storie parallele. Elena non è più così sicura di amare Pietro. Lo confida ad Emilio, il quale è ancora alla ricerca di Angela e trascorre le sue giornate immusonito nei confronti del mondo e anche di sua sorella, della quale non condivide il fidanzamento con Pietro. L’intreccio romantico è evidente.

Emilio frequenta una compagnia di giovani che, come lui, odiano il potere regio e la società così come si è organizzata e si incontrano in una stamberga a discutere. Gussai (Silvio), dal carattere forte e che ha una grossa cicatrice sul viso, è il suo amico più caro, poi c’è Pepe, istintivo, passionale, irruento. Si lamentano che non sanno agire, ma solo perdersi in chiacchiere. Quelli del malcontento, del brontolio e della scontentezza che affliggono gli uomini e ne rosicano l’animo fino anche a mutarlo, rappresentano temi continuamente sottolineati dal pessimismo fracchiano. Tra gli scontenti, infatti, si finisce per mettere anche maestro Zí­molo, poiché quando Angela gli porta nella nuova casa Luli, il suo bambino, egli ne resta deluso: “Il suo viso, non ovale, non tondo, ma quasi triangolare, troppo larga la fronte, troppo aguzzo il mento, non poteva dirsi bello: non era il viso di un bambino.” L’illusione di Angela dura poco, dunque; accortasi che Zí­molo non ama il bambino, teme di dover ritornare alla casa rossa e condurre la disgraziata vita di prima. Fracchia cala sul romanzo la cappa dello sconforto e della disperazione. Non vi sono che rapidi attimi di felicità e di sogno per i miserabili, ci fa capire, subito ghermiti dalla sofferenza e dal dolore. E anche quando, in mezzo ai tumulti che vedono schierati nella città soldati in armi, nella casa di Zí­molo si accende, restata sopra i cumuli della malasorte, una piccola luce di speranza, essa non dura che un istante. Oltre alla casa di Zí­molo, dove ha trovato rifugio anche Lola, una prostituta in attesa di un figlio, Fracchia, nel disegnare i due percorsi, raduna molti dei fili sparsi in un altro punto: la casa del padre di Emilio e di Elena. Pure qui non vi è gioia; la vita vi è penetrata con il suo bagaglio di dolore. Medico non più sulla cresta dell’onda, avvilito e preoccupato della sorte dei suoi figli, egli tuttavia, al pari di Zí­molo, non è privo di generosità e ospita nella sua casa gli amici di Emilio che, per le loro idee facinorose, incontrano difficoltà a trovare un lavoro. Pepe e Gussai vanno quindi spesso da lui, e il discorrere con loro gli diventò “di sollievo e di riposo. Ascoltava i loro discorsi, ammirava la vivacità, l’energia della loro intelligenza, la generosità delle loro idee; e per un poco dimenticava se stesso.” Tra i suoi pensieri c’è anche Elena, il cui fidanzato Pais “non aveva né arte né mestiere, che potesse permettergli di formarsi in breve tempo una famiglia, ma appariva ormai chiaro che non era l’uomo fatto per Elena.” Inoltre, per sovrappiù, riaffiorava la sua antica malattia: anche Pietro, dunque, stava “lottando con sorda disperazione contro l’oscura forza che voleva strapparlo alla vita.” Alla ricerca di un lavoro, gli si chiudevano tutte le porte: “Tuttavia nessuna mortificazione riusciva a disarmarlo. Cacciato da un luogo, si ripresentava in un altro, e un niente bastava per rianimare le sue speranze quando proprio erano sul punto di spegnersi.” Acceso il suo faro sulle due case, Fracchia ce ne mostra i punti di contatto: l’ostinata, caparbia, crudele lotta per sopravvivere; l’altrettanto ostinata, caparbia, crudele lotta per non spegnere la piccola scintilla della speranza. Elena è meno incline a credere che la fortuna possa volgere prima o poi dalla loro parte; più cinica, ha frequenti scontri con Pietro che arriva a rimproverarle: “cerca di amarmi di più, Elena mia, perché la verità vera è che tu non mi ami abbastanza.” Dunque, non solo la speranza, ma anche l’amore è necessario; di più: la speranza, se non è accompagnata dall’amore, è destinata a perire. Più avanti, Emilio dirà ad Angela: “tutto purifica l’amore: ecco la verità!” Zí­molo prende a passeggiare in compagnia di Luli, il piccolo figlio di Angela; i loro rapporti divengono più affettuosi anche se Luli si mostra meno incantato di Zí­molo dalle meraviglie della natura, mentre il vecchio si rammarica di aver perduto tutte quelle bellezze chiuso nel buio della sua bottega; il cielo, il mare, le navi del porto che vanno e vengono, “il tepore del sole e il profumo delle aiuole” gli aprono il cuore e gli dànno la sensazione di una realtà magnifica che non avrebbe mai conosciuto senza la presenza di Angela e di quel bambino: “Eravamo dispersi per il mondo ed ora ci troviamo qui tutti insieme. Io non avevo nessuno, ed ora ho un figlioletto, e te, che mi volete bene.” Il rapporto con il prossimo, dunque, rivela a chi è stato sempre solo una realtà diversa, in grado di destare sensazioni e intimità prima sconosciute.

Se per Zí­molo avviene a poco a poco questo mutamento, nell’altra famiglia, quella di Emilio ed Elena, i rapporti umani mostrano con più evidenza l’altra faccia della medaglia, con la mutevolezza dei sentimenti, le passioni, le liti, le ipocrisie, le menzogne. Pietro continua a lamentarsi che Elena non lo ami abbastanza, e che ciò lo rende un uomo debole e insicuro; Elena gli giura di amarlo, ma in cuor suo sente che non è proprio così. Gussai, l’amico del fratello Emilio, che da ragazzo ha frequentato con lei la stessa classe al ginnasio, le fa la corte, ed Elena se ne sente lusingata. Mentre il padre di Elena è lieto di passare qualche ora insieme con gli amici di Emilio, e scopre una felicità simile a quella rivelatasi a Zí­molo (che, infatti, sarà caduca in entrambi), intorno a lui subdolamente si sta preparando la minaccia per quella felicità. La visione che Fracchia offre della realtà in questo romanzo mostra, dunque, i due percorsi rovesciati in cui si può sintetizzare il cammino della nostra esistenza: la gioia che si trasforma in dolore e viceversa, fino a che tutto non è travolto e unificato dalla sventura, la quale è la sola a reggere le sorti della vita. Il cammino di maestro Zí­molo, infatti, non è facile e la sua generosità è insidiata da tentazioni e ostacoli. Uno dei quali è rappresentato da Emilio, che è innamorato di Angela, che ha conosciuto nella casa rossa. Biondino (così lo chiama Angela: “Vai! Sei un bel biondino!”), piccolo di statura, “reggendosi a mala pena e goffamente sulle sue gambucce di nano”, egli l’ha cercata per un anno e finalmente la incontra per strada e le si dichiara; non solo, ma mette davanti agli occhi della donna l’abiezione nella quale si va perdendo, essendosi messa con un vecchio sudicio e miserabile. Tornata a casa, Angela ricorderà queste parole quando Zí­molo le si avvicina, tutto agghindato con il cappotto e la mezza tuba nuovi, desideroso di mostrarsi e di regalarle una catenina d’oro: “sudicio vecchio!” gli griderà, nel tentativo di allontanarlo. E anche: “So che cosa vuoi tu!” Le due donne del romanzo, Elena e Angela, vivono inquiete il loro rapporto con l’uomo a cui sembrano legate. Secondo i modi del romanticismo, esse tuttavia creano e disfanno la felicità degli uomini, dànno e sottraggono gioia e illusioni. Pietro e Zí­molo subiscono addolorati i loro umori, ed anche gli spasimanti Gussai e Emilio alternano momenti di felicità ad altrettanti di disperazione. I loro propositi rivoluzionari si mescolano e si intorbidano con le alterne vicende dei loro amori. I due percorsi, che ora si muovono in parallelo, sembrano animati da due ispirazioni diverse: più sollecita ai toni decadenti quello che segue le vicende di Pietro ed Elena, più vicino agli echi della narrativa d’Oltralpe (Hugo, Balzac ed anche Zola) quello che ci narra le vicende di maestro Zí­molo ed Angela. Non v’è dubbio che è questo il percorso che dà un certo pregio e rilievo al romanzo che, in ogni caso, è sempre contraddistinto da una scrittura esemplare. Zí­molo e Pietro tornano ad incontrarsi, entrambi insoddisfatti delle loro donne. Zí­molo ha perso anche la sua bottega che Mondino, incurante dei patti, ha trasformato in una bettola per marinai, chiamata “Alla Bella Argentina”, dove ha trovato rifugio anche Ponce, la prostituta bruttina che è stata compagna di Angela alla casa rossa. Il loro incontro rappresenta un punto di contatto rilevante dei due percorsi, poiché unisce la disperazione di Pietro alla pietà e generosità di Zí­molo che, pur trovandosi piegato dalla sfortuna, trova ancora la forza, sia pure divenuta debole e insicura, di aiutare il compagno. Ma quello che gli offre è poca cosa, appena “venticinque sudicie lire”, e quando Pietro se ne rende conto, assalito dall’ira, “Si spense in lui una parte di quella luce che guida ed illumina gli uomini”. La luce della bontà, fa capire Fracchia, stenta a brillare, spesso soffocata da una realtà troppo abietta e miserabile. Quando la morte si avvicina alla casa del padre di Elena e di Emilio, prende a spirare sul romanzo un fiato di mestizia e di desolazione che a poco a poco avvolge ogni cosa e la imprigiona dentro un cupo pessimismo dal quale non sarà più possibile liberarsi. Fracchia ha raggiunto qui l’acme del dolore e della confusione che uno sfortunato destino può marcare nel cuore e nella mente degli uomini. È una visione lugubre, apparentemente senza luce né speranza; tuttavia Gussai è il solo a scoprire nella sofferenza di Elena per la morte di Pietro “come il dolore fosse davvero la sola pietra del paragone capace di scoprire l’oro nascosto anche nelle anime meno profonde.” Angela, intanto, è assalita dal rimorso per aver rinchiuso il figlio in collegio, spintavi da Zí­molo. Così la notte stessa fugge per andare a riprenderselo e incontra appena fuori di casa Emilio che, sempre più innamorato di lei, ha lo sguardo rivolto verso la sua finestra. Gussai ed Emilio, dunque, si fanno involontariamente portatori di speranza per le due donne, le quali, si badi bene, nel momento della loro più profonda afflizione, riescono a reagire e a rivolgersi a loro, piuttosto che motivate dall’amore, sospinte dall’intimo desiderio di sopravvivenza. Va annotato, a questo punto, come Elena e Emilio, i due fratelli, siano improvvisamente diventati personaggi fondamentali del romanzo, dai quali partono ulteriori e fecondi sviluppi, più ancora che da Angela e da Zí­molo. Il quale appare sempre di più consumato e vinto dall’amore non corrisposto per Angela e dalla gelosia che nutre nei confronti di Luli nei cui riguardi, anche se ora il bimbo è stato rinchiuso in collegio, egli continua a credere che sia rimasto in cima ai pensieri della mamma. Ma Angela è già un mese che non va a trovarlo; da quando ha incontrato Emilio e sa del suo amore, è rifiorita: “Il sole era nella sua carne, nel colore vivo delle sue gote”; si vede ogni giorno con lui e detesta sempre di più il vecchio e assillante Zí­molo; e qualche volta è presa perfino dal desiderio di ucciderlo. Che fine ha fatto, dunque, la bontà di Zí­molo? Che cosa ha mai prodotto il suo gesto caritatevole nei confronti di Angela? Sono sempre decifrabili, nitidi e lineari i nostri sentimenti? O non sono permeati tutti dall’odio mescolato all’amore, la pietà mescolata alla gelosia, l’affetto all’egoismo? Gussai e Emilio per primi, nel momento che vedono coronato il loro sogno d’amore, ricambiati come sono dal sentimento di Elena e di Angela, vorrebbero poter tornare indietro e rinunciare alle loro idee rivoluzionarie per dedicarsi anima e corpo alla loro donna: “Quanta felicità si sperpera! A quanta felicità si rinuncia! E perché? Per che cosa?” dice Emilio a Angela. E Gussai a Elena: “E questa società che si vuol salvare, perché dovrebbe essere salvata? Di vero non c’è al mondo che la felicità propria.” Alla miseria che affligge il mondo, ci fa intendere Fracchia, occorre aggiungere la mediocrità e instabilità delle nostre passioni, le quali non sono affatto secondarie nel determinare il corso degli eventi, anzi esse hanno una forza e un fragore che vanno ben al di là di ciò che appare. La gelosia di Zí­molo scava, infatti, dentro di lui e lo consuma: “Egli era assai incurvato: la testa gli spiombava dalle spalle in avanti, e già la portava più come una bestia che come un uomo.” Così decide, all’insaputa di Angela, di ritirare il bambino dal collegio e di riportarselo a casa per farle una sorpresa, ma non sa dare una motivazione al suo comportamento: “quel perché che sfugge ora persino alla sua ragione”. Mentre fa ritorno a casa e lo tiene per mano si leva, però, una tempesta di vento. Vola il cappello dalla testa di Luli e Zí­molo fa acrobazie per recuperarlo, finché il cappello cade nel fiume. Si agita, grida, deriso dalla folla che si è radunata sul ponte divertita da tutto quel baccano per un cappello. Ma Zí­molo ha questo importante pensiero: “Quello intanto non era soltanto un cappello: era il berretto di Luli.” Ecco che quella fiammella di luce si è riaccesa, ma dura solo un attimo. Infatti, Zí­molo ha lasciato Luli accanto ad un albero, ma al ritorno, una volta recuperato il cappello, non lo trova più. Si mette a cercarlo, domanda, grida ancora; la folla gli si accalca intorno; i monelli lo tirano per la giacca e lo scherniscono. Di bocca in bocca (al modo narrato dal Manzoni nei “I promessi sposi”), gli ultimi che si uniscono alla folla domandano che cosa sia accaduto e apprendono le storie più assurde: è stato dato “fuoco ad una bomba”, è stato ammazzato un soldato, oppure si racconta che “un vecchio s’era precipitato dal quarto piano con un bambino, e che ora i loro cadaveri giacevano sul lastrico.” Il gesto di pietà che Zí­molo ha compiuto nei confronti di Luli, ossia del bambino tanto desiderato che avrebbe dovuto aprirgli le porte alla vita, dunque gli si rivolta contro e, ritornato a casa grazie all’aiuto di Mondino, trovatosi davanti alla foto di Luli, non riesce a pensare ad altro all’infuori che “Era lui, proprio lui, quel bambino, lì così placido e sorridente, quel bambinello ignudo seduto sopra il cuscino, la causa della sua rovina. Presentandoglisi sotto quel vago aspetto, con quel sorriso negli occhi e quella nudità confidente, lo aveva ingannato. Per quarant’anni egli era rimasto chiuso nella sua bottega – poiché aveva avuto una bottega con più di mille orologi! – e, sapendo che il mondo è popolato di ladri, di assassini, pieno di insidie, disseminato di buche, sciagurato e infido, con ogni cura se ne era tenuto lontano. Ma quel bambino aveva avuto il potere di trarlo fuori dalla sua tana, e síºbito, perché egli non potesse più mai trovarvi riparo, di quella bottega aveva disperso anche la polvere. L’aveva distrutta, annientata; e poi si era impadronito di lui, gli aveva insinuato nell’anima l’assillo dell’invidia e della gelosia.” È un punto fondamentale del romanzo, una delle sue chiavi di lettura più esplicite e tristi: se nel cuore di maestro Zí­molo, di Angela e di Emilio, dopo le tante sofferenze, si era finalmente levato un piccolo profumo di speranza e di felicità, la sventura che governa il mondo subito li punisce; di Luli e di Zí­molo non sapremo più nulla, e dall’amore tenero di Angela per Emilio nascerà un ribrezzo acido e crudele, feroce, verso gli uomini.


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Bart