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LETTERATURA: I MAESTRI: Francis Scott Fitzgerald

10 Dicembre 2007

di Edmund Wilson
(da “Saggi Letterari 1920-1950”, Garzanti, 1967)    

Un personaggio celebre(1) ha detto che incontrare F. Scott Fitzgerald fa pensare a una vecchietta rimbambita che ab ­bia ricevuto in dono un diamante; ne è orgogliosissima, lo mostra a tutti, e tutti si stupiscono che una vecchia così stu ­pida possegga un gioiello così prezioso; perché le osservazio ­ni più insulse le fa proprio quando parla del suo diamante.

Chi ha formulato questa similitudine non conosceva bene Fitzgerald, e credo debba averlo incontrato proprio in uno dei suoi momenti più opachi e chiusi. Dunque il lettore non dovrà attribuire a quell’immagine alcuna verità letterale. Scott Fitzgerald non è una vecchietta, ma un giovanotto di assai bell’aspetto, e per niente stupido; anzi, di un’intelli ­genza particolarmente vivace. Pure, la descrizione citata ha una sua verità simbolica: è vero infatti che Fitzgerald ha avuto in sorte un gioiello di cui non sa proprio come ser ­virsi. Ha avuto in dono l’immaginazione ma senza averne il controllo intellettuale; ha avuto in dono l’aspirazione alla bellezza, ma senza un ideale estetico; e ha avuto il dono dell’espressione, ma senza molte idee da esprimere.
Si veda, ad  esempio,   il romanzo –  This Side of Paradise – al quale egli ha affidato la sua fama. Vi si troveranno quasi tutti gli errori e i difetti possibili per un romanzo. Non solo è frutto di supina imitazione, ma imita un modello sca ­dente. Al tempo in cui lo scriveva, Fitzgerald era infatuato per Compton Mackenzie, e il suo libro ha tutta l’aria di es ­sere un tentativo di riscrivere Sinister Street in chiave ame ­ricana. Ora, nonostante la sua vocazione per il pittoresco e per l’invenzione comica e la buona qualità della sua scrit ­tura che egli dice di aver derivato da Keats, Mackenzie non possiede né la forza intellettuale né l’immaginazione emo ­tiva necessarie a dare sostanza e lineamenti all’abbondantissimo materiale prodotto. Dai semi del giardino di Keats, uno dei più curati giardini d’Inghilterra, Mackenzie ha tratto una fioritura talmente copiosa e indiscriminata da oc ­cultare il vialetto che gli era proprio. Michael Fane, il prota ­gonista di Sinister Street, sprofonda in una foresta di descri ­zioni, e finisce soffocato tra rampicanti e aquilegie. Dal mo ­mento del suo arrivo a Oxford la sua personalità comincia a farsi sempre più evanescente, e quando infine riappare (a Belgrado) egli sembra aver addirittura perduto la sua identi ­tà. Di conseguenza, Amory Blaine, il protagonista di This Side of Paradise, aveva ben scarse probabilità di riuscire coe ­rente: Fitzgerald gli ha conferito innegabilmente una certa vita emotiva di cui il fantomatico Michael Fane manca as ­solutamente; ma Amory è anche lui un’entità vacillante in una fantasmagoria di avvenimenti priva di ogni intenziona ­lità dominante in grado di dare unità e forza all’insieme. In ­somma, una delle debolezze principali di This Side of Pa ­radise è che il libro non parla davvero di niente: il suo con ­tenuto intellettuale e morale è poco più che un gesto; un gesto di generica rivolta. Lo stesso intreccio rivela una fan ­tasia molto immatura; è sempre sull’orlo del ridicolo. E, in ­fine, fra i libri di qualche valore fin qui pubblicati This Side of Paradise è uno dei più incolti (un difetto, questo, a cui il redattore della casa editrice non sembra essersi sforzato di rimediare). Non solo è paludato di idee posticce e di pseudo riferimenti letterari, ma è zeppo di termini letterari, dissemi ­nati qua e là con la sciatteria più avventata.
Ho detto che This Side of  Paradise ha quasi tutte le pec ­che che un romanzo possa avere: ma non quella, imperdo ­nabile, di non riuscire a vivere. Tutta questa assurda farra ­gine ha il soffio della vita; d’una vita, magari, vibratile e mercuriale, le cui emozioni non toccano in profondità e il cui dramma non fa trattenere il respiro; ma gaiezza, colore e movimento hanno ben fatto la vivacità di questo libro, dopo la pesantezza e la tetraggine realistica di tanta seriosa narrativa americana. Se ripensiamo a quella specie di insipido pastone di cui The Harbor di Ernest Poole fu un esempio, è ben comprensibile l’entusiasmo sfrenato con cui è stato accolto This Side of Paradise. Il romanzo, oltretutto, era scritto bene; scritto bene, malgrado le sue rozzezze. È vero, come ho già detto, che Fitzgerald usa le parole a spro ­posito; i suoi libri sono pieni di strafalcioni della più sconcertante specie. Qualche esempio: «Quale che possa essere la vostra (2): religione, architettura, letteratura »; «gli Juvenalia delle mie edizioni complete »; «C’erano den ­tro [nella stanza] cose graziose… segni di un gusto impazien ­te, vicariante [stravagante] »; «una mente come la sua, lu ­crativa per intelligenza, intuizione e decisione fulminea »(3). Fanno un po’ venire in mente

Agib, capace di strimpellare a vista,
una marcia sul sonoro Teodolite.
Capace di starsene tutto il giorno a giocare
con la Zoetropo, e poi di mettersi a suonare,
il gaio Pantecnico,(4) dalla sera al mattino.

È vero che nel suo uso della lingua Fitzgerald suona com ­pletamente a orecchio. Ma il suo strumento, malgrado que ­sto, è tutt’altro che spregevole. Egli ha per la prosa elegante e vivida un istinto che qualche suo più ambizioso collega potrebbe invidiargli.
Per quanto riguarda poi l’uomo, ci sono forse due cose che vale la pena di sapere, data l’influenza che hanno avuto sulla sua opera. Anzitutto, è originario del Middle West, e precisamente di St. Paul nel Minnesota. Fitzgerald sta al Middle West delle grandi città e dei circoli sportivi, come Sinclair Lewis sta a quello delle praterie e dei piccoli centri. Troviamo in lui caratteristiche che sono più o meno le stes ­se rinvenibili nei ceti benestanti di quelle città: sensitività e febbre di vivere, senza una solida base di cultura e di gusto; un complesso di residenze da ricconi, di alberghi raffinati e costosi, e di allegra mondanità, fondato non su una società settecentesca ma sul piatto paesaggio del West. E mi sembra quasi un peccato che Fitzgerald non abbia scritto di più sul West: perché è forse l’unico ambiente che egli sappia com ­prendere a fondo. Anche se il suo discorso si sposta sull’Est americano, sono sempre i moduli del West ricco che egli ap ­plica a quella società: la mania di sfoggiare, l’ostentazione del lusso e dei festini chiassosi, una vigorosa atmosfera am ­bientale di «pupe simpatiche » e di giovanotti finora ab ­bastanza immuni dallo snobismo dell’Est. In The Beautiful and Damned, ad esempio, sentiamo che egli si muove come in un vuoto; i personaggi non hanno alcun rapporto con l’ambiente ad essi attribuito, non sono parte integrante del ­l’organismo di New York come ad esempio i personaggi del racconto Bernice Bobs Her Hair sono invece parte integran ­te dell’organismo di St. Paul. Sicuramente F. Scott Fitzgerald riuscirà a fare un giorno o l’altro per i quartieri alti della grande città quel che Lewis ha fatto per il corso principale del piccolo centro.

Ma da tutto questo non si deduca che l’autore di This Side of Paradise sia soltanto un tipico giovanotto bene del Middle West, dai bei vestiti e dalla pelle chiara, mandato nel ­l’Est all’università. La seconda cosa che di Fitzgerald occor ­re sapere è che egli è in parte irlandese e denota sia come uomo che come scrittore talune qualità che non sono anglo ­sassoni. Come ogni irlandese egli è infatti romantico, ma anche alieno dalle romanticherie; è amaro ed estatico al tempo stesso; laconico e lirico. Colloca se stesso nella parte del damerino, ma proprio sul damerino si appuntano inces ­santemente le sue frecciate. È vanitoso, non privo di mali ­zia, intelligente e spiritoso, e possiede un dono tutto irlande ­se di trasformare il linguaggio in qualcosa di iridescente e sorprendente. Spesso fa proprio venire in mente la descrizio ­ne che un grande irlandese, Bernard Shaw, ha fatto dei suoi compatrioti: «L’immaginazione non abbandona mai l’irlandese, e mai lo persuade, né lo soddisfa; ma lo mette in condizione di non poter fronteggiare la realtà, di non po ­terla trattare e dominarla: può solo farsi beffe di coloro che ci riescono… e l’immaginazione è una tale tortura che senza whiskey è impossibile sopportarla… Ed ecco echeggia ­re un’interminabile risata orrenda, insensata, maligna. »
Per il resto, F. Scott Fitzgerald ha un po’ il carattere del bambinone, tutto preso dal sogno di se stesso e dal suo proiet ­tarlo sulla pagina. Per uno della sua agilità mentale, si oc ­cupa straordinariamente poco degli affari del mondo: al pari di una donna, è scarsamente portato per il pensiero astratto o impersonale. Con lui, le conversazioni sulla poli ­tica o sulle idee generali trovano sempre modo di ricadere sull’argomento Fitzgerald. Eppure è raro che vi infastidisca; Fitzgerald non è mai pretenzioso o noioso. È assolutamente privo di affettazione e sconta la maledizione del suo impla ­cabile egoismo con la sua prontezza a ridere di se stesso e della sua fanciullesca incertezza del proprio talento. E, nella sua personalità come nei suoi scritti, egli denota una qualità oggi rara anche fra gli scrittori americani più giovani: fra essi egli è quasi il solo capace di vivacità e di gaiezza. Lad ­dove un satirico come Sinclair Lewis avrebbe impregnato «il problema del Lavoro di Vendita » di acri fumi rancorosi, Fitzgerald, in The Beautiful and Damned, lo ha tradotto in chiave di allegra farsa. I suoi personaggi – e lui stesso – sono attori di un’arlecchinata di folletti: agili, lieti e sedu ­centi – e crudeli – come le fate. Colombina s’invola con Arlecchino calandosi dal Ritz con una scala di corda e insieme si abbandonano a un indiavolato balletto su una cas ­setta di liquori di contrabbando; Pantalone è trafitto da un epigramma che la fa accartocciare come una foglia; Ar ­lecchino fa lo sgambetto al Poliziotto e lo manda a ruzzolare dentro la Fontana Pulitzer. Un attimo prima che cali il si ­pario, Arlecchino si mette dei favoriti posticci e si fa passare per Bernard Shaw; concede alla stampa un’elaborata inter ­vista sulla politica, la religione e la storia; centomila lettori la leggono e ne restano più o meno impressionati; Colombi ­na quasi muore dal ridere; Arlecchino manda a prendere una cassetta di gin.
Permettetemi di citare, a proposito di The Beautiful and Damned, un episodio caratteristico. Dopo aver scritto This Side of Paradise – rifacendosi a Wells e a Mackenzie – Fitzgerald ha conosciuto una scuola narrativa diversa: quel ­la ironico-pessimistica. All’università aveva ritenuto che bi ­sognasse scrivere dei romanzi biografici con una gran giran ­dola di idee sul finale; dopo il suo ingresso nel mondo lette ­rario, ha scoperto invece che era salito in auge un genere nuovo, tutto fondato sul tragico e su quello che Mencken definisce «l’insensatezza della vita ». Fino a quel momento Fitzgerald aveva immaginato che in un romanzo si dovesse esprimere un senso della vita; ma a questo punto si pose all’opera per inventare una tragedia sconvolgente che fosse anche priva di senso al cento per cento. Risultato di questa decisione fu la prima versione di The Beautiful and Damned, culminante in un’orgia di orrori ai quali il lettore non era stato adeguatamente preparato. Fitzgerald annientava i suoi personaggi con una sequela di catastrofi talmente arbitrarie che al confronto le perversità di Thomas Hardy apparivano un portato delle leggi di natura. La protagonista perde la sua bellezza ancora in giovane età, e con la bellezza anche la sua personalità se ne va in pezzi; Richard Carmel, scrittore di belle speranze, abbandona i suoi ideali artistici e si prostitui ­sce al gusto della massa; e il ricco Anthony Patch non solo si riduce in rovina, ma scoprendosi incapace di rifarsi una vita, si dà abiettamente al bere e finisce pazzo. Ma il mo ­mento più amaro della storia è proprio sul finale, quando troviamo Anthony che vagabonda per le strade di New York nel tentativo di farsi prestare un po’ di denaro. Dopo molti umilianti insuccessi, egli abborda finalmente un vecchio ami ­co che si appresta a salire su un tassì in compagnia di un’elegante signora. Si tratta del brillante Maury Noble, un cinico, un intellettuale, tuttavia dotato di qualità autentiche. Maury fa finta di non vederlo e sale in vettura. «Ma, » spiega l’autore, «Maury non aveva davvero veduto Antho ­ny, perché, passato ogni limite nel vizio del bere, era divenuto completamente cieco! » Ma eccoci al punto del mio discorso: benché Fitzgerald avesse scritto questo goffo brano in asso ­luta serietà, non esitò, quando si accorse che la gente ne rideva, a riderne lui stesso, con la stessa sorpresa e lo stesso gusto che se lo avesse trovato in un libro di Max Beerbohm. E improvvisò lì per lì una parodia: «Parve ad Anthony che gli occhi di Maury avessero uno sguardo fisso, vitreo; le sue gambe si muovevano rigidamente e quando parlò la sua vo ­ce risuonò senza vita. Quando Anthony gli andò più vici ­no, si accorse che Maury era morto. »

Per concludere, sarebbe assolutamente sleale sottoporre Scott Fitzgerald, il quale non ha ancora passato i trent’anni e ha presumibilmente ancora davanti a sé il grosso del suo lavoro, a un esame troppo severo. La sua instancabile imma ­ginazione può ancora produrre qualcosa di durevole. Per il momento, comunque, questa immaginazione non si pre ­senta certamente al suo meglio: la compromettono grave ­mente la mancanza di disciplina e la povertà di idee esteti ­che. Fitzgerald è un improvvisatore brillantissimo, ma i suoi racconti alla fine si afflosciano: come se l’autore non ne avesse definito la trama o non avesse ben ponderato i suoi temi fin dal principio. Questo vale anche per alcune delle sue fantasie più riuscite, come The Diamond as Big as the Ritz o la sua commedia, The Vegetable. D’altro canto, con tutte le sue imperfezioni, The Beautiful and Damned segna un progresso rispetto a The Side of Paradise: lo stile è più maturo e il soggetto più saldamente unitario, e vi sono scene più convincenti che non nella sua precedente narrativa.
Ma in ogni caso, l’opera di Fitzgerald riveste già fin da ora una certa importanza morale. Nella sua sincera espressione del disordine che la sconvolge, della rivolta che non riesce ad appuntarsi su un oggetto preciso, egli è un tipico rappresen ­tante della generazione uscita dalla guerra, la generazione di cui, nell’ultima pagina di This Side of Paradise, egli ci ha dato una definizione memorabile: «cresciuta per scoprire che tutti gli dei erano morti tutte le guerre cambattute, tutte le fedi negli uomini scosse ». C’è una morale in The Beautiful and Damned, di cui forse l’autore non è neppur consape ­vole. Il protagonista e la protagonista di questo libro così stordito sono creature senza scopo né metodo: si abbando ­nano, dal principio alla fine, a intemperanze sfrenate senza compiere un solo atto veramente serio; eppure si ha come l’impressione che, malgrado il loro comportamento scombi ­nato, Anthony e Gloria Patch siano le persone più razionali del libro. Tutte le volte che vengono a contatto con le istitu ­zioni, con la vita seria del loro tempo, sono queste che ap ­paiono ridicole, oggetto di scherno o di spasso. Vediamo l’esercito, la finanza e il mondo degli affari rappresentati in casuale successione come assolutamente privi di senso o di dignità. Si è indotti pertanto a concludere che, in una civil ­tà come questa, l’atteggiamento più saggio e onorevole è di sfuggire la società organizzata e di vivere per l’eccitazione del momento. I paradossi di questo libro non possono essere sol ­tanto il frutto di una reazione tutta particolare a una situa ­zione privata. Forse non possiamo pretendere un eccessivo equilibrio morale dai giovani che, per quanto capaci e bril ­lanti, scrivevano libri nell’anno 1921: non dobbiamo dimen ­ticare che essi hanno dovuto crescere e trarre gli stimoli più importanti in mezzo alle guerre, alla società e ai traffici del ­l’Età stessa della Confusione.

Marzo 1922

(1) Edna St. Vincent Mìllay, che conobbe Scott Fitzgerald a Parigi, nella primavera del 1921.
(2)In inglese flair, che Fitzgerald scrive erroneamente flaire. (N.d.t.)
(3) Juvenalia per Juvenilia è ben riscontrabile dal lettore italiano; ma non altrettanto appare il rapporto tra vicarious (vicariante, sosti ­tutivo, ecc.) e vagarious che sarebbe stata la parola giusta per «biz ­zarro, stravagante », ecc. (N.d.t.)
(4)Pantechnicon: letteralmente, autofurgone per trasporto di mobili e masserizie. (N.d.t.)


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4 Comments

  1. Commento by felice muolo — 10 Dicembre 2007 @ 17:32

    Letto e apprezzato. Grazie.
    Lui, Hemingway, Faulkner, Joyce resteranno fino alla fine dei tempi. Al contrario della odierna giovane narrativa italiana che sa di latte, sperma, lamenti, ammucchiate, droga, anmmazzamenti e soprattutto pancia piena!

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 10 Dicembre 2007 @ 18:32

    Grazie te, Felice.

  3. Commento by matteo — 12 Dicembre 2007 @ 18:11

    Ho letto Il grande Gatsby e alcuni racconti di F.S.Fitzgerald e li ho trovati entrambi stupendi; forse non moderni ma veramente intriganti, in special modo il romanzo. Vorrei leggere Ultimi Fuochi, quando ne avrò la maniera.

  4. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 12 Dicembre 2007 @ 19:54

    Ciao, Matteo.

    In questo spazio spero di poter pubblicare altre cose interessanti, scritte da autori celebri.

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