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FUMETTI: Attilio Bertolucci: Fortunello, la Checca e i loro amici

15 Novembre 2008

[da: “Fortunello, la Checca e i loro amici”, Garzanti, 1965]  

Non so gli americani, che avevano tanto da scegliere, in materia, ma i bambini italiani fra il 1910 (anno della sua prima comparsa sul Corriere dei Piccoli) e, mettiamo, il 1930, che vede l’arrivo di Topolino e soci, hanno amato Fortunello più di tutti gli altri eroi della nascente, candida e facinorosa mitologia fumettistica. La scatola di conserva vuota, utilizzata come copricapo (erano i primi anni delle salse racchiuse in banda stagnata, o più volgar ­mente latta, da noi, e l’aurea saggezza che accompagna sempre la povertà suggeriva alle madri di famiglia i più vari usi dei recipienti nettati di contenuto e in tale modo resi degni di entrare nella sup ­pellettile domestica, e da qui nella pittura di Giorgio Morandi), c’entra moltissimo nella fortuna dello sfortunato Fortunello. Quelle madri che si diceva avevano del bello e del buono per sottrarre ai figlietti, in vena di travestimenti, il prezioso scatolame di ricupero, non ancora votato al sacrificio di massa sulle are impietose dell’Eco ­nomia di Consumo.
Comunque, ottenuto che si fosse, non era poi facile mantenerlo in bilico sulla testa, il cappellino fortunellesco: ci riuscivano i più bravi e protervi, i più lontani, come carattere, dal mite, gentile e malricambiato personaggio preso a modello.
L’altro personaggio amatissimo della combriccola era la Checca, la mula infernale. Allampanata e ghignante, chissà quali fondi di repressa aggressività andava a toccare nei piccoli italiani lettori del Corrierino perloppiù figli della borghesia, dalla magari minima sino all’alta: il popolo, per mancanza di lire, era escluso anche da questi lussi infinitesimi, allora.
In qualche modo, comunque, anche i suoi figli partecipavano, o di frodo, per mezzo di spiate, o per il debordare dalle barriere classistiche, di quell’incontenibile genìa, dalla favolosa America arrivata e dilagata in Italia.
Nel paese d’origine Fortunello si chiamava Happy Hooligan, la Checca, Maud. Erano comparsi la prima volta in un supplemento domenicale di quotidiano nell’anno 1899. Il loro creatore, voglio dire l’inventore delle storie e insieme disegnatore e coloritore delle figure e degli ambienti, si chiamava Frederick Burr Opper. Uno dei tanti talenti comici che gli Stati Uniti in via di vertiginosa tra ­sformazione da nazione agricola a industriale, da paese provinciale a metropolitano, seppe esprimere in quei tempi per divertire (e ammaestrare, castigando col riso i costumi) quelle folle eterogenee per razza e provenienza, fittissime e tuttavia, giusta l’espressione di Reisman, solitarie. Sullo stesso terreno fiorirà, di lì a poco, il genio di Charlie Chaplin. Il cui Charlot non è meno capro espiatorio di tutte le colpe di una società del nostro Fortunello. Oltre a Fortunello e alla Checca ruotano negli allegri e ribaldi fu ­metti di Opper tanti altri bei tipi dal cranio tondo e dall’occhio a globo, e dai più inverosimili abiti a scacchi, a strisce, a pois, colo ­rati in maniera inattesa, assurda e tonificante. Fra questi personaggi di contorno è da ricordare la coppia di complimentosi francesi Alphonse e Gaston, sempre in giro di qua e di là e sempre cacciati nei guai dalla loro ineffabile politesse.
Fortunello, nei guai viene cacciato dal suo buon cuore. Abbiamo nominato Charlot, le cui sfortune prendono origine sempre, come quelle dell’omino dal cappello di latta, da maldestri tentativi di raddrizzare almeno una parte dei tanti torti che vengono fatti a questo mondo, di venire in aiuto a chi si trovi, per qualsiasi ragione, malcombinato.
Anche qualcosa nell’utilizzo, che doveva essere comunissimo tra la poveraglia, di scatole vuote e simili aggeggi, anticipa in Fortunello Charlot. Il quale, in quel capolavoro immortale che è  Il monello, ostenta, come fosse un portasigarette in metallo prezioso tempestato di diamanti, la sua bella scatola di sardine pulita e lustra, stupenda. Fornita poi, naturalmente, della più estesa varietà di cicche pos ­sibile.
Ma nell’avventura di Fortunello inserviente dello scienziato in pro ­cinto di mostrare « l’anello mancante » (sorta di via di mezzo fra lo scimmione e l’uomo), non nasce, freschissima e irresistibile, tante volte in seguito tornata a funzionare nelle comiche cinematografiche dell’età aurea, da quelle di Charlot alle minori e quasi anonime, l’invenzione dello strumento da sistemare, troppo lungo e ingombrante per non finire, a ripetizione e con grande giustizia distribu ­tiva vuoi su questa vuoi su quella zucca di ascoltatore   (tutto un pubblico meraviglioso per barbe e dignità accademica) della dotta conferenza?
Si è insistito su questo parallelo, e bisognerà aggiungere per la ve ­rità che nei fumetti non può dispiegarsi l’infinita umanità del dickensiano creatore di storie e di personaggi che è Charlie Chaplin, perché è naturale che in una stessa e/tà e in uno stesso ambiente si tocchino le stesse piaghe, o almeno debolezze, si esprimano le stesse esigenze e si mostri alla fine lo stesso fondo, per così dire, ideologico. Nel nostro caso il tetragono, indistruttibile ottimismo dell’homo americanus prima delle sue grandi delusioni collettive: guerra mon ­diale, depressione economica e via.
Non è un caso però che l’atto di nascita di Fortunello sia da regi ­strare nel secolo scorso, sia pure sul suo spirare, nel 1899, mentre quello di Charlot viene più avanti negli anni, circa il 1913. Qual ­cosa ancora dell’epoca pionieristica, preindustriale rimane nelle sto ­rie di Opper, un residuato, ma come duro a morire: la Checca.
Il suo individualismo sfrenato, la sua cavallinità sia pure degradata (si tratta di una mula), vengono ben da quell’epico Ottocento americano che John Ford e Howard Hawks e tanti altri registi cinematografici ci hanno fatto conoscere nelle canzoni di gesta dei cappelloni.
In Charlot no, ormai cavalli e muli non si vedono più. È comparsa la Ford modello T e ha spazzato via tutto, gli scoppi del motore che non vuole partire hanno sostituito i ragli dei quadrupedi riottosi e scalcianti.
Non parliamo della meraviglia che sono i familiari di Fortunello (a differenza di Charlot, accasatissimo: non sposato, naturalmente, ma inserito in un nucleo nutrito e omogeneo), dal padre alla sorella, ai cugini zii e nipoti, tutti estremamente somiglianti a lui nei tratti della fisionomia, tutti abbigliati come lui in quella maniera impro ­babile, colorata, entusiasmante. E gli amici, o almeno le conoscenze, i comprimari, i caratteristi, i generici della stupenda commedia? Anch’essi assurdi, fantastici e tuttavia così radicati nel loro am ­biente e nella loro età da dirci di più sull’America e la sua condi ­zione umana fra la fine del secolo scorso e l’alba del nostro che tanti volumi di storia o di sociologia. A saperli ben leggere, si capisce, e a volerli in tal senso leggere.
Perché, prima, è la lettura a occhi rapidi, mobilissimi, quasi affa ­mati per seguire le storie nel loro svolgersi: quella dei ragazzi di ieri e dell’altro ieri e, ci auguriamo, di oggi e di domani.


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Bart