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FUMETTI: Max e Moritz

28 Febbraio 2011

[da: “Enciclopedia dei fumetti”, a cura di Gaetano Strazzulla, Sansoni, 1970]

L’AUTORE

WILHELM BUSCH – « Mi sembrava che la xilo­grafia si prestasse in modo particolare alla ca­ricatura. 1 tratti essenziali incisi nel legno, e non sempre precisi, davano l’impressione di una voluta ingenuità nell’esecuzione del dise­gno, secondo la corrente dei pittori naîf, piut­tosto che di una caricatura del personaggio ritratto ». Così Wilhelm Busch, primo di sette figli, nato a Wiedensahl (Hannover) il 15 aprile 1832, ricorda nella sua autobiografia i giorni in cui — stabilitosi a Monaco ed entrato a far parte del cenacolo artistico della Kunstleverein iniziò la sua vasta opera di narratore grafico.

Gli anni dell’infanzia li aveva passati nella casa paterna, non certo riscaldato da trepida affet­tuosità o soddisfatto nei piccoli desideri in­fantili. La madre, donna bigotta e severa, l’aveva abituato a una dura disciplina, in ciò anche appoggiata dal marito, un modesto negoziante di alimentari, il quale affermava in ogni sua manifestazione il rispetto più rigido del confor­mismo. Per il giovane, quando venne deciso che sarebbe andato a vivere con uno zio pa­store protestante a Ebergötzen, il distacco dalla famiglia non rappresentò quindi un trauma, anzi fu l’occasione propizia per sottrarsi a un am­biente che non gli concedeva il minimo slancio.

Con lo zio, appassionato naturalista e dotato di buona cultura e di curiosità letterarie, Busch aveva quasi dieci anni — entrò in contatto con la piccola umanità di un villaggio di cam­pagna: fabbri, contadini, tavernieri, mugnai, gen­te minuta, esuberante e disposta a gustarsi la vita nella sua pienezza.

Dopo la scuola superiore di Luëthorst e dopo aver frequentato il corso di matematica pura al Politecnico di Hannover si iscrisse all’Acca­demia di Belle Arti di Dusseldorf. Frequentando questi istituto, Busch chiarì definitivamente il proprio futuro e si convinse che nulla più della pittura l’avrebbe stimolato a realizzare le proprie ambizioni. Passato quindi all’Accademia di An-versa, si applicò con entusiasmo allo studio dell’opera di maestri quali Rubens, Mais, Te-niers, anche se era scritto che non avrebbe mai realizzato le proprie aspirazioni. O, almeno, non nella forma e nella misura su cui tante volte aveva fantasticato da ragazzo. La caricatura, cui si rivolse più per divertimento che per convinzione, lo allontanò a grado a grado dalla pittura per avviarlo verso espe­rienze grafico-letterarie che, in pochi anni, gli avrebbero dato notorietà e benessere. I giorni della sua formazione culturale (i primi approcci con il mondo della natura a fianco dello zio pa­store, la curiosità per Kant e le teorie darwi­niane, la scoperta di Schopenhauer, gli inse­gnamenti dei fiamminghi), ma anche le stagioni dure dell’infanzia, rifluirono in un ribollente in­treccio di suggerimenti e di stimoli che la ma­turazione artistica riuscì solo in parte a miti­gare nella loro naturale — e talvolta anche vi­scerale — asprezza.

Dal 1859, quando per la prima volta un suo disegno venne pubblicato dal Fliegende Blätter (il famoso settimanale umoristico fondato da Caspar Braun e Friedrich Schneider nel 1844), Busch s’impegnò a realizzare rigorosamente le sue convinzioni, puntando sulla comunica­zione immediata delle sue parabole (« se una vignetta ha bisogno di essere spiegata, vuoi dire che non vale nulla ») e, per altra via, su una personale inedita struttura compositiva. Nacquero così i bilderbogen, ossia quei rac­conti per immagini che gli storici pongono alla base della comic art. Die Fliege (La mosca), Die Maus (Il topo) o Der Floh (La pulce), piut­tosto che altri racconti senza didascalie tutti realizzati tra il 1860 e il 1865, rappresentarono un puntuale banco di prova per quella che sarà la tematica della sua opera: un discorso « mo­ralistico » radunato sotto il denominatore co­mune di una comicità sempre pungente, spesso cattiva, intramata di violenza e di risarcimenti personali, di umori velenosi nei confronti di una società ipocrita e di macabri scherzi giocati alla morale corrente.

Prima del 1878, quando decise di tornare nel suo villaggio natale, tre creazioni — di stile decisamente eterogeneo e di impostazione al­trettanto contrastante — lo portarono alla cele­brità: la favola « infantile » di Max und Moritz, disegnata nel 1865, e le irriverenti agiografie di Der Heilige Antoni us von Padua (Sant’Antonio da Padova) e di Die fromme Helene (La pia Elena), rispettivamente del 1871 e del 1872. Se la prima apre il contrastato dibattito circa gli effettivi meriti « educativi » degli apologhi bu-schiani, apologhi che riverberano un’aggressi­vità e una amarezza che non possono non sconcertare anche il lettore adulto per la per­fidia della chiusa — e ciò vale per un’altra sua notissima fiaba, quella di Diogenes und die bösen Buben von Korinth (Diogene e i monelli di Corinto) — le altre due storie testimoniano il fervore con cui egli condivise la violenta on­data anticlericale del suo tempo. Assieme a Pater Filizius (Padre Filizius, 1872), Sant’Antonio e La pia Elena formano una triade pamphletistica di generosa disposizione sati­rica e di eccellente livello artistico: forse il meglio della monumentale produzione di Busch, un disegnatore e letterato che nel costume con­tadino, nella poesia popolare e anche nell’ico­nografia spontanea (la pittura naïf di cui tante volte ha parlato) ha recuperato matrici argute e provocatorie per le sue amare e spesso bru­tali rilevazioni sociali.

Convintosi che il pubblico non riusciva ad afferrarne compiutamente il significato pole­mico, Busch, che in inizio aveva di malavo­glia sopportato di corredare le sue storie dise­gnate con scheletriche didascalie, si dispose a rinsanguare sempre più i testi e giunse, in breve, a un altro personale primato: quello di veder mutati in forme proverbiali i suoi distici rimati. Migliaia di versi, elementari e facilmente ritenibili a memoria, si andarono così colle­gando alle vignette, componendo un tutt’uno di straordinaria efficacia comunicativa. Negli anni che seguirono il suo ritiro a Wied­ensahl, Busch, vivendo quasi del tutto isolato, portò a termine altre storie di notevole pregio polemico, sempre determinate da un profondo pessimismo e da una lucida rivolta verso l’Or­dine. Possono citarsi Die Knopp Trilogie (La trilogia di Knopp), un aspro affresco di vita borghese, Flipps der Affe (Flipps la scimmia), un movimentato racconto concluso dall’uccisio­ne di Flipps da parte dei paesani, e Hans Eckebein, storia di un corvo infelice che finisce impiccato. Busch, la cui ultima opera — Schein und Sein (Apparire ed essere) — apparve po­stuma, morì il 9 gennaio 1908, a Mechtshausen, nell’Harz, avendo pubblicato due raccolte di poesie, eseguito oltre duemila schizzi e dipinto più di mille quadri a olio, tuttavia mai esposti.

I PERSONAGGI

MAX E MORITZ (Max und Moritz) – Effigiati an­che in un francobollo delle poste tedesche, i due celeberrimi discoli hanno fatto il giro del globo, resi popolari da milioni di esemplari dell’ormai più che centenaria favola di Busch, Prototipi, oltre misura, della birbanteria infan­tile, dell’irriverenza verso il mondo dei grandi e di una viscerale disposizione alle malefatte per il gusto di screditare le forme tradizionali, Max e Moritz si pongono alle radici di un sin­golare albero genealogico: quello dei bambini terribili. Coetanei di due altri furfantelli ideati dallo stesso autore, i « monelli » di Corinto, che finiscono schiacciati come frittate dalla botte del pacifico Diogene esasperato dalle loro beffe, i ragazzetti « … invece di studiare / ed il bene praticare, / ci facevan le risate / e passavan le giornate / inventando dei malanni / e Dio solo sa qual danni… »

La loro storia, suddivisa in sette capitoli, ha come sfondo un ambiente contadino e come protagonisti le figure tipiche di un villaggio: il maestro Lämpel, un fornaio, il sarto Blöck, la vedova Bolte, il fattore Mecke e uno zio dei piccoli demoni, unico elemento con cui mini­mamente si fa cenno alla loro famiglia. Se non fosse infatti per questo zio Fritze, che i nipoti scuotono dal sonno avendogli messo in letto un gran numero di maggiolini, si potrebbe an­che sostenere la tesi che Max e Moritz siano soli al mondo, decisi a vendicarsi di una comu­nità che li esclude proprio per la loro condi­zione di trovatelli.

Conoscendo la biografia di Busch, è abbastanza evidente che le tavole di questa « favola » — al pari del resto di molte altre — traducono le esperienze personali dell’autore, il suo ran­core per una giovinezza non goduta, la delu­sione degli affetti mancati, la rivincita — in­somma — per quanto il mondo chiuso dei suoi parenti gli ha negato fino al giorno in cui non è stato allontanato da casa. Max und Moritz è stato sempre guardato (e come tale si è conquistato una popolarità incre­dibile) come una lettura tipicamente infantile, dotata cioè di quelle peculiarità che rendono una storia adatta a suggerire i buoni principi e a stimolare il rispetto dell’ordine. La sua con­clusione violenta — i bimbi vengono triturati dal mulino in briciole e quindi mangiati da due anatre — è stata per anni considerata un giu­sto ammonimento, un bau-bau da manovrare come opportuno correttivo. Forse Busch si proponeva anche finalità di questo tipo, ma ben più gli premeva rivoltarsi contro una so­cietà miope, bigotta e avversaria di ogni ri­forma. Questa società l’aveva scandagliata fin dai giorni delle sue prime esperienze artistiche e per questo conoscerla dal didentro ne ripro­vava senza esitazione gli schemi mentali. Max e Moritz — che trent’anni dopo dovevano dare origine ai Katzenjammer Kids di Rudolph Dirks — sono in definitiva più vittime che car­nefici, vittime che non chiedono pietosa bene­volenza: essi si battono, come possono, contro la cecità di un mondo che non vede la propria fine, riparato com’è dall’ingannevole e ancor per poco intoccabile paratia di un quieto fo­colare.


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Bart