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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Balzac, Honoré de

6 Novembre 2007

La cugina Bette
Eugénie Grandet
Papà Goriot
Le illusioni perdute
Un tenebroso affare

“La cugina Bette”

1846. Trad. Lucio Chiavarelli

Se rimaniamo ammirati dei venti volumi che costituiscono il ciclo dei Rougon-Macquart di Zola, che dire della Commedia Umana, “forse il più vasto ciclo narrativo mai tentato da uno scrittore”, come si legge nella quarta di copertina dell’edizione 2003 di questo romanzo, pubblicato dalla Newton & Compton. Si resta addirittura annichiliti ove si pensi che Balzac scriveva congiuntamente due romanzi, questo e “Il cugino Pons”, che chiuderà il monumentale ciclo che si svolge tutto tra il Primo Impero e l’età di Luigi Filippo.

De “La cugina Bette”, Balzac scrive all’amata contessa polacca Eveline Hanska che, rimasta vedova nel 1841, l’autore sposerà il 14 marzo 1850, ossia qualche mese prima della sua morte, avvenuta il 18 agosto dello stesso anno: “terribile romanzo, poiché il carattere della protagonista è un miscuglio di mia madre, della signora Valmore e di zia Rosalie.” È noto l’odio per la madre, ma Balzac detestava anche la zia di Madame Hanska, Rosalie, che dall’alto della sua nobiltà trattava l’autore da miserabile parvenu. Quando esce il romanzo, Sthendal è morto da quattro anni e sulla scena francese, per restare nel campo della narrativa, sono apparse nuove stelle: soprattutto quelle di Victor Hugo (1802-1885), Alexandre Dumas (1802-1870), Eugène Sue (1804-1857), e Gustave Flaubert (1821-1880) che, abbandonati gli studi universitari per ragioni di salute, decide di dedicarsi interamente alla letteratura, dove muove in quegli anni i suoi primi passi.

“La cugina Bette” uscì in quarantuno puntate dall’8 ottobre al 3 dicembre del 1846 sul giornale “Constitutionnel” e fu scritto “senza un piano prestabilito”, costruendo l’intreccio a seconda di come veniva svolgendosi di puntata in puntata.

Il proposito di Balzac era quello di riguadagnare la popolarità d’un tempo, ora sbiadita da alcuni infortuni e dal successo enorme delle opere di Dumas (“I tre moschettieri” e “Il conte di Montecristo”, pensate, entrambe uscite nello stesso anno, il 1844!) e di Sue (“I misteri di Parigi”, 1842-1843), intenzionato a dimostrare a tutti che era sempre lui il migliore.

L’opera viene a cadere proprio alla vigilia del 1848 e tratteggia una società attraversata da frenesie, ansie e malumori che anticipano quasi profeticamente quei moti rivoluzionari che, a soli due anni di distanza, percorreranno e sconvolgeranno l’intera nazione, e non solo. I fatti narrati si svolgono sotto Luigi Filippo I, che fu re dei francesi dal 1830 al 1848, succedendo a Carlo X.

Nel romanzo, abbiamo a che fare con la cugina Lisbeth Fischer (Bette), soprannominata “la Capra”, “una zitellona rinsecchita, che pareva molto più anziana della baronessa benché avesse cinque anni di meno.” La baronessa è un altro dei personaggi importanti, si chiama Adeline, ha quarantotto anni ed è sposata a un libertino (“Volle rimanere bello a tutti i costi”) che la tradisce da molti anni, Hector Hulot d’Ervy, “intendente generale delle armate di Spagna.”, fratello minore del “celebre generale Hulot, dei granatieri della guardia imperiale, che Napoleone aveva creato conte di Forzheim”. Le fa la corte il vedovo Célestin Crevel, “bottegaio arricchito”, età cinquantadue anni, “dieci di meno del signor Hulot”, il marito di Adeline (di cui, fra l’altro, è amico intimo in “orgette a quattro”; “siamo diventati due fratelli.”), contando sul fatto che la famiglia Hulot si trova in ristrettezze economiche (“Siete già sulla via dell’ospizio”), proprio a causa delle folli spese del barone con le donne, una delle quali, la bella Josépha, cantante di successo, era prima amante di Crevel. Tra le due famiglie corre una parentela, giacché il figlio della baronessa, Victorin Hulot, avvocato, ha sposato la figlia di Crevel, Célestine. L’uomo, respinto ancora una volta, rinfaccia alla donna di essere costretto a mantenere il genero, che ha sperperato gran parte della ricca dote della figlia per aiutare il barone, suo padre, mentre la baronessa accusa l’ex bottegaio di aver mandato a monte il matrimonio dell’altra sua figlia, Hortense Hulot, con il consigliere Lebas. Inoltre, l’ex bottegaio ha l’ardire di giustificare la sua insistenza con queste parole: “Cercate di comprendere i miei diritti. Vostro marito, mia bella signora, mi ha tolto la felicità, la sola gioia che ho avuto da quando sono rimasto vedovo.” E: “E così quando mi sono visto turpemente ingannato dal barone, siccome le amanti, tra vecchi donnaioli, dovrebbero essere sacre, ho giurato a me stesso di prendergli la sua donna. Per giustizia.”; “Sono pazzo di voi, e voi siete la mia vendetta!” Ha, per giunta, mandato a monte il matrimonio di Hortense per avere un altro strumento di ricatto nei confronti della donna che, impossibilitata a dare una dote alla figlia, si vede offrire una discreta somma da Crevel e la certezza di fare convolare la figlia a nozze, se ella diviene subito la sua amante. Non mancano, come si vede, echi sthendaliani, e la figura della baronessa pare ispirarsi, in qualche modo, alla signora Ríªnal de “Il rosso e il nero”, del 1830.

I temi del romanzo sono già tutti qui: la decadenza, l’ascesa sociale grazie alla ricchezza, la vanità, l’ambizione, la spregiudicatezza, gli intrighi, l’umiliazione, la depravazione. Ossia, i vizi della Parigi del tempo, che Balzac non ha mai mancato di denunciare nei suoi romanzi, una città dove dominano “l’incessante concubinaggio del lusso e della miseria, del vizio e dell’onestà, del desiderio represso e della tentazione sempre rinascente, che fa di questa città l’erede di Ninive, di Babilonia e della Roma imperiale.” Definirà la storia narrata nel romanzo come “serio e terribile studio di costumi parigini”. Ma deve ancora entrare in scena lei, Bette, la zitella che tutti li riassume, inasprendoli con il calcolo, l’odio e la perfidia. Sta conversando in giardino con Hortense, mentre in casa avviene quella conversazione sconveniente tra Crevel e la baronessa, e Balzac non ha ancora spostato su di lei le luci della ribalta, preferendo, con saggia regia, sfoggiare un ritratto a tutto tondo della baronessa e della sua fedeltà coniugale. Così sappiamo che, cresciuta in una famiglia di contadini, era dotata di una bellezza rara, notata da Hulot che la fa sua sposa. Trascorrono anni di felicità, in cui la vita di Adeline è cambiata radicalmente. Ora è ricca e ammirata, ma al culmine della felicità, ecco che al marito torna l’antico vizio per le donne. Non più giovane, è costretto a dilapidare il ricco patrimonio per destare l’attenzione delle più belle. La moglie sa, ma tace e quando scopre che il denaro scorre a fiumi impoverendo la casa, in silenzio, senza farne parola al marito, comincia a temere il peggio. Da quel momento la sua vita è una continua tortura: l’insicurezza e l’inquietudine accompagnano le sue giornate, non più serene e allegre come un tempo.

La cugina Bette è figlia del fratello maggiore di casa Fischer, e, al contrario di Adeline, è brutta, “magra, bruna, coi capelli neri lucenti, le sopracciglia folte e riunite, le braccia lunghe e forti, i piedi grossi, qualche verruca sparsa sul suo lungo e scimmiesco viso”. La baronessa l’ha chiamata a Parigi per darle una sistemazione. Le ha fatto imparare il mestiere di ricamatrice “presso i famosi fratelli Pons, ricamatori della corte imperiale.” La caduta di Napoleone stronca però le velleità di Bette, che aveva intrapreso una redditizia attività commerciale. Sfumata quindi ogni speranza di arricchirsi, Bette così pensa della cugina: “Adeline ed io siamo dello stesso sangue, i nostri padri erano fratelli: lei è in un palazzo, io in una soffitta!”, nonostante che la cugina e la famiglia Hulot continuino a interessarsi a lei e a proteggerla: “le avevano procurato l’indipendenza e viveva a Parigi a modo suo.”

Dire che Balzac sa irretire il lettore è affermare cosa nota. Lo ha saputo fare ai suoi tempi e continua a farlo oggi, come accade ai grandi maestri. Ciò che è da sottolineare è che egli non fa mistero dei suoi debiti verso l’Italia (le numerose parole ed espressioni in italiano: condottieri, la prima donna assoluta, dragone, patito, brio, in fiocchi) e la sua arte (Bronzino, Raffaello, Brunelleschi, Giotto, Michelangelo, Cellini, Canova, Correggio, Rossini, Paganini, Dante, Tasso, Ariosto, Machiavelli, la maschera di Pantalone, Vittoria Colonna, eccetera, per non parlare del capitolo XXIX, dove distribuisce lodi alla sagacia degli italiani, o quando nel capitolo XXXIX ricorda i monumenti “quasi eterni” dell’Impero romano, o i poeti romani, o nei capitoli finali quando loda la bellezza delle donne italiane nella figura della piccola Atala), anche qui a somiglianza del suo predecessore Stendhal (1783-1842). Allorché cita Napoleone – ma è solo l’esempio più eclatante, venendo da un francese – lo fa anche con queste parole: “L’imperatore, da buon italiano amante del fasto”, nonostante si sappia quanto Napoleone, non solo lui ma soprattutto lui, abbia inciso sulla grandeur della Francia e quanto quella superba nazione, che gli ha riservato come degna sepoltura lo stupendo “Dome de Les Invalides” (1675-1706), ne vada orgogliosa. Troveremo più avanti alcuni bei capitoli, a partire dal LV, dedicati all’arte e agli artisti, dove tornano nomi di italiani e dove possiamo leggere: “Il lavoro costante è la legge dell’arte, come quella della vita, perché l’arte è creazione idealizzata. Per questo i grandi artisti, i poeti completi non aspettano né le ordinazioni né i clienti; ma producono oggi, domani, sempre.”

Balzac procede nella narrazione attraverso la messa a fuoco dei suoi personaggi, in modo da offrire al lettore le chiavi per misurare le loro azioni. Abbiamo visto già Adeline e Crevel, Hector Hulot, poi Bette e Hortense, il fratello maggiore di Hulot, la famiglia Marneffe, e così via. Essi costituiscono piccoli mondi che vanno a congiungersi all’interno del mondo più ampio rappresentato dalla società parigina del tempo, della quale diventano espressione paradigmatica. Nelle conversazioni, nei segreti, negli intrighi, nelle vanità e nelle umiliazioni del piccolo nucleo familiare, noi leggiamo l’intero universo parigino, appariscente, enfatico, tutto lustrini e perbenismo esteriori, ma pervaso e contaminato dalla gelosia, dalla ambizione, dalla ipocrisia, dalla depravazione e, infine, dalla disperazione. Le propaggini di un tale nucleo si allungano poi, come tentacoli morbosi, all’interno di altri microcosmi dei quali catturano e diffondono i medesimi miasmi.

Balzac non dimentica di essere l’autore, di “Eugénie Grandet” (1833), di “Papà Goriot” (1834), delle “Illusioni perdute” (1843), opere che congiuntamente a “Splendori e miserie delle cortigiane”, che uscirà nel 1847, ad un anno di distanza da “La cugina Bette”, costituiscono il mosaico della rappresentazione meno effimera e più convincente della società francese di quel tempo, al punto che Friedrich Engels dichiarerà di aver imparato più dal “reazionario” Balzac che da tutti gli economisti. Infatti sono frequenti le frasi che, con un brillante colpo d’ala, disegnano un’abitudine, un costume, una tendenza che appartengono non al singolo o a quella data famiglia, ma alla società parigina. Qualche esempio: “la tavola è il più sicuro termometro del patrimonio delle famiglie parigine.”; “Certe donne, ligie ai loro doveri, virtuose e belle, tornano a casa di cattivo umore, quando non hanno raccolto, durante la passeggiata, il loro mazzolino di sguardi.”; “Lasciate fare a una parigina per ventiquattro ore e vi sconvolgerà un ministero.”; “A Parigi la maggior parte delle buone azioni sono delle speculazioni, come la maggior parte delle ingratitudini sono delle vendette…”; “Gli interessi finiscono sempre per contrastarsi e dividersi, le persone viziose si intendono sempre.”; “Nelle classi inferiori la donna non è soltanto superiore all’uomo, ma quasi sempre è lei che comanda.” Esse denotano un’osservazione mai fine a se stessa, sibbene accompagnata da un’arguzia che interroga, riflette e giudica. Quasi sempre il risultato sono il sarcasmo, la denuncia e la condanna. Il Balzac che nel corso della sua intensa e breve vita (morì a 51 anni) è corso dietro alle donne e ai debiti, immerso nei travagli e nelle delusioni di ogni genere, non ha mai ceduto di una sola spanna il privilegio di osservare dall’alto tutte le miserie e i falsi splendori di quel mondo che pure lo affascinava e lo vinceva. Non è facile.

Valérie Fortin, “giovane, piccola, svelta, bella, elegantissima, profumata”, sposata all’impiegato Jean-Paul Stanislas Marneffe, figlia naturale di “uno dei più celebri luogotenenti di Napoleone”, il conte Montcornet, abituata, grazie al padre, al lusso, morto quest’ultimo, vive nell’indigenza, ma non manca di iniziativa, incoraggiata dall’insulso e pronubo marito. È uno dei ritratti, insieme con quello della “perfida” e “venale” Josépha, esemplificativi dei sentimenti e delle perspicaci qualità di osservatore di Balzac. Scrive riguardo a Valérie: “Valérie è una triste realtà modellata dal vivo nei minimi particolari.” Quanto la brutta cugina Bette si muove sotterraneamente nell’intrigo e nella silenziosa costruzione della sua vendetta contro chi è migliore di lei, altrettanto Valérie si muove alla luce del sole ostentando la sua bellezza e i suoi capricci.

È in questo modo che irretisce il libertino Hulot, proprio nel momento in cui è stato abbandonato da Josépha per un altro che può assicurarle l’agiatezza, e proprio quando la figlia Hortense incontra Wenceslas Steinbock, “conte e scultore”, il giovane e pallido artista di cui, già prima di vederlo, si è innamorata a sentirne tessere le lodi da Bette, che vive nel suo stesso stabile e vorrebbe averlo tutto per sé. Balzac avvia così due percorsi paralleli: quello del padre che si sente rigenerato a nuova vita con l’incontro della bella Valérie, con la quale immagina di rimediare allo scacco subito da Josépha; e quello, lontano dal vizio e pervaso di giovanile candore, della figlia che, sentendosi un peso per la sua famiglia (“io so che una fanciulla da marito che non si sposa è una croce molto pesante per dei genitori onesti.”), pensa già di sposare colui che considera “un grande artista”, dal sicuro avvenire, del quale ha comprato una scultura che guidica premonitrice del suo successo: “L’autore di un gruppo simile deve fare fortuna”. E, riferendosi alla cugina Bette: “E la cugina Bette dovrebbe sposare quel ragazzo, lei che potrebbe essere sua madre?…”

Come si vede gli elementi per tessere una trama complessa, intricata e in grado di attrarre il lettore, non solo dell’Ottocento, ci sono tutti. Balzac resta un maestro ancora oggi e molti autori non si rendono forse conto di avere più di un debito di riconoscenza nei suoi confronti. La modernità di Balzac sta tutta nella osservazione e costruzione di una società che ha in sé gli stessi vizi del passato e gli stessi dell’avvenire. Egli ne fa emergere il cuore pulsante, il motore che la rende sanguigna e vitale, uguale a se stessa e perpetua.

Bette ricama i suoi progetti nella penombra. La sua presenza è avvertita e incombe su ogni sviluppo del romanzo. È da lei che corre Hulot per incontrare Valérie, la quale si è agghindata, sicura del proprio charme, “per piacere al barone, e piacere abbastanza per avere il diritto di essere crudele, di farlo sospirare, come si fa con i bambini”. Astuta, “senza aver promesso nulla”, pretende dal barone che il marito occupi il posto di sottocapo e ottenga addirittura la croce della Legion d’onore. Riesce perfino ad abbindolare la zitella, mostrandosi premurosa con lei, chiedendole consigli e adulandola. Ma la troppa confidenza che si stabilisce tra le due, la cui conseguenza è la scaltra rivelazione dell’imminente matrimonio tra Hortense e Wenceslas, è la molla che mette in azione le perverse e temibili qualità di Bette, che si vede sottrarre proditoriamente il suo protetto: “Di colpo la cugina Bette era ridiventata se stessa”; “Ella fu l’odio e la vendetta senza transizioni”. Inizia da qui la sua furia, che sa tuttavia controllare dietro la solita maschera di acquiescenza e umiltà. Viene da ricordare il personaggio di Dickens, Uriah Heep, in “David Copperfield”, che è del 1850, ossia di quattro anni dopo. È meraviglioso che due grandi maestri, divisi dal mare, che forse non si sono mai incontrati, dipingano con tratti quasi simili l’animo di due personaggi che avranno tanto rilievo nelle loro storie. Dirà Bette della cugina Adeline: “Oh! Adeline, me la pagherai, ti farò diventare più brutta di me!…” E all’astuta Valérie, che sa come manovrarla, così parla, disvelandosi, della famiglia Hulot: “Oh! voi non sapete, voi non sapete cosa sia quella genia! È l’ultimo loro colpo quello che uccide! E ne ho ricevute delle ferite all’anima! Voi non sapete che dall’età della ragione sono sempre stata sacrificata ad Adeline.”; “Durante ventisei anni non ho avuto che i loro avanzi…”

L’alleanza tra le due fa da vigoroso propulsore alla storia. Se la cugina Bette è la raffigurazione della gelosia e della perfidia (“uno Jago e anche un Riccardo III”), Valérie lo è dell’astuzia e dell’egoismo (una “maligna intelligenza di creola parigina”), giacché “Per lei la vita doveva essere tutta piacere e il piacere doveva essere senza difficoltà.”

Bette comincia, così, a tramare la sua vendetta, e corre da Crevel, di cui conosce bene l’invidia nei confronti di Hulot, che gli ha soffiato l’amante. Balzac ha deciso, dunque, di partire all’attacco e di distendere quella trama intrigante e intricata che caratterizza i romanzi del tempo, orientati a suscitare morbose curiosità e pruriginose attese da parte dei lettori. Non è a caso che quasi tutti siano preceduti dalla pubblicazione a puntate su qualche rivista. Del resto, Dumas e Sue furoreggiavano; avevano raccolto l’enorme successo proprio facendo leva su questi sentimenti e Balzac non vuole essere da meno pur di riconquistare la popolarità un po’ appannata dagli ultimi infortuni letterari e non solo. Non dimentichiamo che appena due anni prima è uscito “Il conte di Montecristo” e gli intrighi, le invidie che portano alle disgrazie e poi alla vendetta di Edmond Dantes scorrono a fiumi nel romanzo di Balzac.

La cugina Bette si è messa all’opera, dunque, ma i suoi movimenti restano nell’ombra: “vi dominava come una potenza occulta, alla maniera dei gesuiti.” Ella sa scegliere le strade più sicure per colpire al cuore la famiglia Hulot. Quando il barone è al colmo della felicità, poiché è riuscito a far sposare la figlia Hortense al timido scultore Wenceslas, divenuto celebre, ed ora perciò può coltivare la sua passione per la bella e scaltra Valérie, la perfida cugina mette sulla strada della cortigiana il ricco Crevel. Questa capisce subito che può mungere molto denaro dalle debolezze dell’ex bottegaio, e così comincia ad “abbindolare per bene quest’uomo nel quale vedeva una cassaforte a getto perpetuo.”, sapendo bene che “I raggiri dell’amore venale hanno un fascino e una grazia maggiore di quelli dell’amore autentico.”

Valérie è disegnata come donna diabolica, alla quale nessun uomo può resistere, se ella non vuole, mossa cinicamente dall’interesse per una vita agiata e invidiata: “attirava tutti gli sguardi, eccitava tutti i desideri dell’ambiente dove brillava sola e incontrastata.”; in breve era riuscita a racimolare ben “centocinquantamila franchi di risparmi.” Soggetto che pare muoversi in autonomia, dotato di una spiccata personalità, ma in effetti è dai disegni revanscistici di Bette che la sua vitalità prende le mosse: “Lisbeth pensava, la signora Marneffe agiva. La signora Marneffe era l’accetta, Lisbeth era la mano che l’impugnava”.

Quando anche Valérie s’incapriccia di Wenceslas, già sposato con Hortense, è a Bette che si rivolge e questa le promette che lo avrà tutto per sé. Ormai la vendetta, che persegue “con una logica spietata”, è la padrona assoluta della sua mente e del suo cuore, disposta per questo scopo a cedere e a rinunciare lei stessa al suo giovane e amato protetto.

I segni delle ferite che va infliggendo agli Hulot si fanno sempre più profondi e letali. Quanto più gli Hulot corrono verso la rovina, tanto più Bette si sente felice, ringiovanita, imbellita e piena di ambizioni. Riferendosi ad Adeline, un giorno dice: “Quando lei sarà nel fango, io sarò la contessa di Forzheim!…” Infatti, questo è un altro dei suoi progetti per dominare gli Hulot: sposare il fratello maggiore del barone, maresciallo di Francia, stimato e potente.

Bette ha questo di particolare, rispetto ad altri protagonisti cattivi della letteratura: la sua cattiveria, il suo odio non travolgono il personaggio; sembrano quasi muti, nascosti, timorosi di apparire. Bette si muove sulla scena senza che niente del suo corpo (che, fra l’altro, non si abbrutisce sotto quel peso, ma si rigenera ad una specie di nuova giovinezza) manifesti il segno della sua perversità. Uriah Heep di Dickens, a cui si è fatto riferimento, ha scritto in faccia la sua malvagità; chiunque lo incontri, osservatore quel tanto che basta, non può non avvedersene. Di Bette, invece, vanno affermandosi la sua generosità e la sua bontà. È sempre più la confidente amata e apprezzata degli Hulot, che nulla sospettano dei suoi disegni, meno che meno l’ingenua Adeline, che le ristrettezze economiche hanno reso malinconica e triste. Il marito, infatti, è ormai indebitato fino al collo e deve fronteggiare non solo la concorrenza di Crevel, ma quella del ricco brasiliano Henri Montès de Montéjanos, barone pure lui, che è stato il primo amore di Valérie e, ricomparso improvvisamente nella sua vita, riaccende in lei la mai sopita passione. Come non pensare alla figura della GrusÄ•nka de “I fratelli Karamazov” (1880) di Dostoevskij?

La gelosia, che fa la sua comparsa per la prima volta nell’animo del barone, acuisce, all’età cui è giunto di sessantatre anni, il senso del decadimento e della sconfitta, così come avviene – ricordate? – per il professor Hunrat nel romanzo omonimo di Heinrich Mann, del 1905, più conosciuto con il titolo del celebre film “L’angelo azzurro” di Joseph von Sternberg, del 1930. La miscela degli ingredienti che Balzac sa dosare con sapiente regia, è ora divenuta esplosiva, giacché vi sono molti fili della trama da cui il lettore è avvinto e dei quali attende con avidità la conclusione. Bisogna ammettere che Balzac incarna forse l’espressione più emblematica del romanzo ottocentesco che, se ha avuto in altri scrittori autorevoli esponenti, raggiunge e realizza tuttavia nel narratore di Tours il più alto e significativo connubio tra creatività e aderenza al reale per quanto concerne la rappresentazione degli uomini e della società del suo tempo. Si può dire che raramente in uno scrittore la finzione narrativa è così rappresentativa di una società come in Balzac. Si pensi a Valérie, a come sa armonizzare tra loro, la cortigianeria, la bellezza e l’astuzia femminile. Balzac ne fa indubbiamente un simbolo della Parigi di allora: “Parigi è la sola città nella quale possiamo vivere felici.”, dice Valérie al focoso brasiliano che vorrebbe condurla lontana da quel mondo, e al quale ha promesso il matrimonio, una volta che sarà diventata vedova.

Valérie è donna che sa muoversi in mezzo agli uomini, sa eccitare, “quell’artista dell’arte amatoria”, le loro passioni allo stesso modo che sa controllare le proprie. Di Henri, il barone brasiliano, confida a Bette: “Questo morone è tornato troppo presto!” Infatti, è ancora forte in lei il desiderio di togliere il bel Wenceslas a Hortense, spalleggiata in questo perverso disegno da Bette, che così ricambia la confidenza: “Hortense mi aspetta domani; è in miseria. Per aver mille franchi, Wenceslas ti abbraccerà mille volte.” La miseria di Hortense deriva dal fatto che, ad un certo punto, stornato dalle delizie dei primi tempi del matrimonio, Wenceslas a poco a poco perde la voglia di lavorare e quando lo fa le sue opere risultano brutte: “L’ispirazione, questo parossismo del parto intellettuale, fuggiva a volo spiegato davanti al suo fiacco amante.”

Una parentesi va fatta riguardo allo scorrere del tempo. Balzac racconta come se gli avvenimenti si susseguissero uno dietro l’altro, in una serie continua, ed è ciò che avverte il lettore. In realtà ci sono sbalzi anche di anni, che Balzac non ha mai intenzione di rimarcare, facendo intendere con ciò che il tempo non conta nell’unica trama che la storia intreccia per le azioni degli uomini. La sola annotazione dello scorrere del tempo, la si trova espressa incidentalmente in alcuni personaggi, come il barone Hulot e la stessa Valérie, ad esempio, di cui vengono ogni tanto ricordate le età, sempre progressive. Non è una scelta di poco conto nella filosofia generale di questo romanzo, in cui non deve essere mai il tempo protagonista, anche se le sue tracce scorrono sul volto dei personaggi, sibbene i vizi e i capricci degli uomini.

I capricci di Valérie, ad esempio, non hanno requie. Le fa gola perfino Stidmann, lo scultore amico di Wenceslas, il quale ha un’infatuazione per Hortense, di cui vorrebbe diventare l’amante, se non l’ostacolasse la sua amicizia con il marito. Con la complicità di Bette, ecco che Valérie riesce a riceverli entrambi in casa sua. Si fa talmente bella che, guardandosi allo specchio, esclama: “Sono da mangiare!”

Pensate, Balzac, maestro indiscusso nella rappresentazione di una società frivola e corrotta, dove i matrimoni hanno senso solo se accompagnati dall’adulterio, così si esprime sull’amore coniugale e sulle debolezze dei mariti: “Molti uomini vogliono avere queste due edizioni della stessa opera, sebbene sia un’immensa prova di inferiorità in un uomo il non saper fare di sua moglie la propria amante. La varietà in questi casi è un segno di impotenza. La costanza sarà sempre il genio dell’amore, l’indice di una forza immensa, quella che costituisce l’essenza d’un poeta! Bisogna saper avere tutte le donne nella propria donna”.

Wenceslas, sotto il “colpo di sperone dato da Lisbeth”, è già conquistato dalla donna.

Il romanzo tuttavia, nonostante Valérie sia sempre alla ribalta, sotto i luminosi riflettori che condizionano e offuscano il protagonismo degli altri personaggi (“quella donna è un demonio; tutti quelli che la vedono l’adorano; e lei è così viziosa, così appetitosa!…), ha la sua spinta propulsiva, non tanto nel suo splendore e nella sua miseria morale (“la signora Marneffe è cento volte più depravata di Josépha”), ma – non dobbiamo dimenticarlo – nel puro odio e nel desiderio della vendetta della più oscura e nascosta Bette. L’odio è più forte e duraturo dell’amore, ci fa intendere ad un certo punto Balzac: “Amore e odio sono sentimenti che si alimentano da sé: ma tra i due è l’odio a durare di più.” Una qualità particolare di Balzac è quella di impreziosire i suoi romanzi, non solo questo, della sua vasta cultura, senza che essa dilaghi e opprima il lettore. I suoi riferimenti alla storia, ai miti, alla letteratura, sono rapidi, quasi furtivi, ma aprono minuti spazi di luce e per un attimo ci trasferiscono altrove. Congiuntamente ad una saggezza pratica che consente all’autore di inserire aforismi, massime e brevi riflessioni, ogni romanzo di Balzac si trasforma agli occhi del lettore in una lezione e in una esperienza di vita.

Il bel capitolo LXIII, dedicato alla seduzione di Valérie nei confronti di Wenceslas, ne è uno dei tanti esempi. In esso, in più, si rinsalda, con la gioia di entrambe, l’alleanza tra la donna ammirata e contesa e la cupa e aspra Bette. La prima bisbiglierà all’orecchio dell’altra: “La tua vendetta è compiuta. Hortense piangerà tutte le sue lacrime e maledirà il giorno in cui ti ha rubato Wenceslas.” E Bette, di rimando, insaziabile: “Fino a che non sarò la signora marescialla, non sarò soddisfatta.”

In tutto questo movimento convulso e complicato, Adeline è il personaggio quasi immobile, docile, ma forte, umile, ma superbo, che incarna il sacrificio di sé, dei suoi sogni, delle sue speranze, del presente e dell’avvenire per la onorabilità e l’unità della famiglia. È colei che raccoglie i cocci della disgregazione morale e materiale della sua famiglia, nel tentativo di ricomporli, stremata nella resistenza ad un disegno perverso che ha le sue radici nella società in cui vive. Tristezza, solitudine e dolore sono i corollari della sua bellezza, non inferiore a quella di Valérie, se non fosse che è priva di quella luce malevola e seducente che arreca il vizio.

L’innocenza di Adeline, come del resto quella della figlia Hortense, appare sottomessa e opaca rispetto alla perversa e viziosa scaltrezza di Valérie. Lo stesso Balzac definirà Valérie come “la sorella borghese della signora de Merteuil”, la protagonista del famoso romanzo di De Laclos, “Le relazioni pericolose”, del 1782. Accorgendosi di essere incinta, Valérie arriva a concepire addirittura il disegno di informare separatamente i suoi amanti che ognuno di loro è il padre del nascituro (ben cinque, con il marito!). Balzac fa di lei, insomma, l’esempio di come una donna viziosa possa distruggere una famiglia, nonostante che quest’ultima sia presidiata da un’altra donna, debole tuttavia giacché provvista soltanto della sua virtù.

Lo si vedrà compiutamente allorché la sventurata Adeline, per salvare la famiglia, si offrirà, ma invano, al ricco Crevel, che aveva respinto appena tre anni prima, e che la umilierà. Ma Balzac, che ha un debole per la virtù, saprà donarle di nuovo tutto il suo splendore. Pensate, Josépha, che era stata l’amante di Hulot, la bella e ricca attrice che poteva permettersi molti uomini ai suoi piedi, quando si vede comparire nella sua casa Adeline, stremata dalla sofferenza e dal dolore, che sta cercando suo marito, di cui non ha più notizie da oltre due anni, “sentì perfino il bisogno di umiliarsi di fronte a quella grandezza che aveva subito intuito.” La scrittura di Balzac ha una scorrevolezza e una plasticità tali, ora che la trama sta sciogliendosi, che il lettore ha la sensazione di avere davanti a sé scene e personaggi come se anch’egli ne facesse parte. È verso il finale che compare, a mirabile esempio, la figura superbamente descritta con pochi cenni, della signora de Saint-Estève (uno dei suoi tanti nomi, un altro è Nourrisson), una vecchia che ” Sebbene vestita con eleganza, pure spaventava per l’espressione di fredda cattiveria che si leggeva su quel viso volgare, orribilmente rugoso, pallidissimo. Marat, fosse stato donna e di quell’età, sarebbe stato, come la Sain-Estève, l’immagine vivente del Terrore. Quella vecchia sinistra aveva nei piccoli occhi chiari la cupidigia sanguinaria delle tigri. Il suo naso schiacciato dalle larghe narici ovali che sembravano soffiare fuochi d’inferno ricordava il becco dei più feroci uccelli da preda. Sulla sua fronte bassa e crudele dominava il genio dell’intrigo. Lunghi peli, disseminati in tutte le rughe del suo volto, rivelavano la virilità dei suoi progetti. Chiunque avesse visto quella donna avrebbe pensato che nessun pittore era riuscito a rappresentare così bene il volto di Mefistofele.” Solo pochi autori, e tra questi senza dubbio Dickens, Hardy e Zola, possono vantarsi di essere riusciti a fare altrettanto. Leggete come si è ridotto il barone Hulot, che per non farsi trovare dalla giustizia non porta più il suo nome, mentre è ricercato dalla moglie e dal figlio Victorin, ai quali Bette, pur sapendo che è finito nelle braccia di nuove amanti, non rivela mai il nascondiglio per lasciare nelle ambasce la cugina e la sua famiglia, che ha deciso di distruggere: “un vecchio che pareva avesse ottant’anni, coi capelli completamente bianchi, il naso rosso dal freddo in un viso pallido e rugoso come quello di una vecchia, camminando con passo strascicato, calzato di pantofole di panno, curvo, coperto da un pastrano in alpagà spelacchiato senza decorazioni, lasciando vedere ai polsi le maniche d’una maglia e i polsini d’una camicia di un giallo incerto, apparve guardando attorno timidamente”.

Mentre Hulot raggiunge il livello più basso di degradazione, il personaggio di Adeline, nel frattempo, rimasto a lungo offuscato dalle luci diffuse su Bette, e soprattutto su Valérie, avanza ora sulla scena a piccoli passi giacché Balzac ha deciso di innalzare la sua virtù a tale livello che, senza che Adeline lo chieda, riesce a conquistare il cuore e la devozione di un’attrice come Josépha. Con questa unione, Balzac oltrepassa addirittura i personaggi per mettere in scena, in realtà, direttamente come protagonisti, la virtù e il vizio. I personaggi non ne sono, a questo punto, che degli strumenti. Da una parte Adeline e Josepha, dall’altra, a rappresentare il vizio, Bette e Valérie, alleate.

L’affetto che Balzac nutre per Shakespeare è continuamente alimentato dalle citazioni presenti nel romanzo, ma addirittura arriva a dedicargli un omaggio esplicito con la costruzione di un personaggio, il brasiliano Henri Montès de Montèjanos, “il nostro bronzeo barone”, che ha in Otello il suo originale. Allorché viene a sapere dei tradimenti di Valérie, che credeva tutta sua e di poter sposare, non si contiene più e minaccia di ucciderla: “Montès era spaventoso a vedersi, e più spaventoso ancora udirlo! Ruggiva, si torceva, tutto quanto toccava veniva spezzato, il legno di palissandro pareva essere di vetro.” E dopo questo omaggio al cigno di Stratford-upon-Avon, egli lo fa a se stesso nelle parole che mette in bocca al dottor Bianchon, che ha in cura Adeline e la sta guarendo parzialmente dai suoi mali: “Da dove viene questo male profondo?” domanda al medico la baronessa, riferendosi alla corruzione e ai vizi della società. Così risponde il medico: “Dalla mancanza di religione e dal fatto che in questa società tutto è dominato dal capitale, che non è altro che egoismo materializzato. Il denaro, un tempo, non era tutto per l’uomo; altri valori avevano la preminenza nella sua vita. Vi erano la nobiltà d’animo, il talento, i servizi resi allo Stato; ma oggi la legge fa del denaro una misura valida per ogni cosa e lo considera come base del merito politico! Certi magistrati non sono eleggibili, Jean-Jacques Rousseau stesso non sarebbe eleggibile! […] Ecco ciò che dicono tutti quelli che osservano, come faccio io, la società nelle sue miserie.”

Balzac non rinuncia, tuttavia, in questo romanzo, a fare ciò che gli è permesso come autore, e il lettore si accorgerà presto che tutti i nodi verranno al pettine e là dove c’è stato dolore ci saranno la gioia e la consolazione, dove invece hanno dominato il vizio e la perversione, una giustizia che non appartiene agli uomini, si servirà proprio degli uomini affinché le tragedie che ne conseguono siano da severo monito per l’avvenire: “La vita non continua se non si riesce a dimenticare.” Non sarà così per due soli personaggi: Bette, piegata dalla sconfitta e dall’odio, ma arresa solo davanti alla morte, e il barone Hulot, che il vizio, che sembrava sopito, conduce di nuovo lontano.

Honoré de Balzac: “Eugénie Grandet”

 (trad. Grazia Deledda). Hugo, Balzac, Zola dominano la scena letteraria francese ed europea dell’Ottocento. Questo romanzo esce nel 1833, due anni prima di “Papà Goriot”, e ha un successo grandioso. Vi dominano le figure di papà Grandet e della figlia Eugénie, dal padre educata all’avidità del denaro. Attraverso uno stile e una narrazione esemplari, ispirati alla massima chiarezza, l’autore fa il ritratto feroce di una borghesia che sacrifica ogni valore alla conquista del denaro. Balzac è un osservatore attento soprattutto dei caratteri e riesce ad offrili come visti sotto una lente d’ingrandimento. Qui è la povertà morale che predomina. Nella prima parte segnalo le pagine dedicate all’innamoramento di Eugénie, davvero magistrali. Dalla traduzione nientemeno che del premio Nobel Grazia Deledda, riporto queste frasi: “questo giovanotto non è buono a nulla… S’occupa più dei morti che del danaro.” “Gli avari non credono nella vita futura, poiché per essi il presente è tutto”; “la miseria produce l’uguaglianza.” e “Questo ha la donna di comune con l’angelo: gli afflitti in lei trovano rifugio.”

Honoré de Balzac: “Papà Goriot”

 (trad. Renato Mucci). L’avidità di denaro la fa da padrone anche in questo romanzo, e attanaglia i sentimenti delle figlie del vecchio Goriot che stravede per esse, egoiste e ingrate, e sacrifica tutti i suoi beni. Con uno stile ricco, pieno di umori, Balzac ancora una volta posa la sua lente d’ingrandimento sui caratteri dei personaggi, in una Parigi che si alterna tra i quartieri eleganti, dove dominano il pettegolezzo, la gelosia, il lusso sfrenato e i quartieri, come quello dove vive Papà Goriot, in cui si respirano rassegnazione e squallore. Segnalo nella prima parte del libro il discorso che il misterioso Vautrin tiene al giovane Eugenio di Rastignac sulla vita. Per la traduzione di Renato Mucci, riporto le seguenti frasi: “esistono individui nati mercenari che non fanno mai del bene ai loro amici o conoscenti, perché vi sarebbero obbligati, mentre, rendendo un servizio a sconosciuti, ne riscuotono un guadagno d’amor proprio; più la cerchia degli affetti è vicina a loro, e meno amano; più si estende, e più essi sono servizievoli.”; “non diverrete mai niente in questa società, se non avrete una donna che s’interesserà di voi.”; “la fortuna è la virtù!”; “Chi non ha frequentato la riva sinistra della Senna, tra la via Saint-Jacques e la via dei Saints-Pères, non sa nulla della vita umana!”; “Avrò un’opinione incrollabile il giorno in cui avrò trovato tre teste d’accordo sull’uso di un principio, e attenderò a lungo!” “I popoli venerano la libertà come un idolo; ma dov’è sulla terra un popolo libero?”; “I padri debbono sempre dare, se vogliono essere felici. Dare sempre, è il vero modo di essere padre.”; “La patria perirà, se i padri sono calpestati… tutto crolla se i figli non amano i loro padri.”; “Oh, sì, c’è un Dio, e deve averci preparato un mondo migliore, altrimenti la nostra terra è un non senso.”

Honoré de Balzac: “Le illusioni perdute”

 ( trad. Maria Luisa Spaziani). Possiamo immaginare che un autore che nel corso della sua vita ha scritto più di novanta romanzi, molti dei quali autentici capolavori costituenti il corpo della “Commedia umana”, abbia avuto in sorte una lunga vita; invece Balzac si spense all’età di 51 anni. Si resta, quindi, stupefatti di questa sua qualità narrativa che ha dato al mondo una gran copia di gioielli letterari, tra i quali Le illusioni perdute, scritto tra il 1837 e il 1843. I mali dell’editoria e del giornalismo occupano gran parte di questo romanzo, che narra la storia di Lucien Chardon de Rubempré, un giovane dotato di bellezza e di ambizione, che parte dalla cittadina di Angoulíªme alla volta di Parigi col miraggio del successo nel bel mondo. Dovrà ricredersi e subire molte umiliazioni, tra le quali il suo ritorno a casa in povertà, dopo aver rovinato anche la sua famiglia. Balzac ha uno stile rotondo, capace di descrivere tutte le situazioni, sia che appartengano all’ambiente raffinato e aristocratico, che a quello impregnato di miseria e di squallore. Le Gallerie di legno, dove si contrattano i manoscritti di autori celebri o sconosciuti e si vendono i libri; o il teatro dell’Opera, e più ancora quello del Panorama-Dramatique, dove Lucien incontra l’attrice Coralie, che gli sacrificherà la vita; la prima passeggiata di Lucien per le strade di Parigi, restano pagine indimenticabili. È interessante mettere a confronto la descrizione, per esempio, del teatro Panorama-Dramatique, con quella celebre del Teatro delle Variété di Zola, che è del 1880. Non manca nel romanzo una delle caratterizzazioni più riuscite dello scrittore, presente in molte sue opere, quella dell’avaro, rappresentata qui dalla figura del vecchio Séchard.

Alcune frasi contenute nel romanzo, nella traduzione di Elena Giolitti: “Ogni uomo superiore s’innalza al di sopra delle masse, il suo successo è quindi in ragione diretta col tempo necessario per apprezzare l’opera. Nessun libraio vuole aspettare. Il libro di oggi dev’essere venduto domani. Con questo sistema, i librai rifiutano i libri sostanziosi ai quali occorrono alti, lenti consensi.”; “La coscienza è uno di quei bastoni che ognuno prende per picchiare il proprio vicino, e di cui non si serve mai per sé.”; “Il giornalismo, invece di essere un sacerdozio, è divenuto uno strumento per i partiti; da strumento, si è fatto commercio; e, come tutti i commerci, è senza fede né legge.”; “La stampa sta ai manoscritti come il teatro sta alle donne, essa mette in risalto le bellezze e i difetti; uccide così come fa vivere: un errore salta allora agli occhi altrettanto vivamente che i bei concetti.”; “I partiti sono ingrati verso i loro uomini più esposti, essi abbandonano volentieri le loro pattuglie avanzate. Soprattutto in politica, è necessario a quelli che vogliono arrivare di andare con il grosso dell’armata.”; “esiste un uomo a un tempo attore, principe e rivestito d’uno splendido sacerdozio, il poeta, il quale sembra non far nulla e nondimeno regna sull’umanità, quando ha saputo ritrarla.”

Honoré de Balzac: “Un tenebroso affare”

 (trad. Paolo Guzzi). Del 1841, questo romanzo appare contorto nella trama e meno limpido nello stile rispetto agli altri qui trattati. C’è una congiura di monarchici contro Napoleone Bonaparte, che viene scoperta. Ne fanno parte alcuni parenti della bella contessa Laurence de Cinq-Cygne, che, insieme con l’amministratore e fedele Michu, si adopera per salvarli. Graziati da Napoleone, i gemelli Marie-Paul e Paul-Marie de Simeuse fanno la corte alla bella cugina. Anche uno dei fratelli d’Hauteserre, Adrien (l’altro è Robert), è innamorato della donna. Quando tutto sembra tornare nella normalità, ecco che degli strani congiurati rapiscono Malin, un alto dignitario dell’Impero, nemico della contessa, la quale, insieme col fedele Michu e i quattro giovani suoi parenti, viene accusata del rapimento. Sarà prosciolta, ma il processo si concluderà con la condanna a morte di Michu, e ai lavori forzati per i quattro giovani. Laurence, insieme con il vecchio marchese de ChargebÅ“f – consigliata da Talleyrand – corre a chiedere la grazia a Napoleone, impegnato nella battaglia di Iena contro i prussiani. La ottiene per i quattro giovani, ma non per Michu, che sarà giustiziato. Quando tutti i protagonisti di questa vicenda saranno morti, tranne Laurence, si conosceranno i veri colpevoli.

Ecco alcune frasi contenute nel romanzo: “Niente risulta così formativo per il carattere di una persona quanto una costante dissimulazione in seno alla propria famiglia.”; “Da quando la società civile ha inventato la Giustizia, non ha mai trovato i mezzi per dare all’imputato innocente un potere uguale a quello di cui dispone il magistrato contro il criminale.”; “Se è vero che, durante i processi, la verità assomiglia spesso a una bugia, è anche vero che la bugia assomiglia molto alla verità.”; “La società umana procede come l’oceano, riprende il suo livello, il suo cammino dopo un disastro e ne cancella le tracce con l’avvicendamento dei suoi divoranti interessi.”


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart