dal Castello a Palomar: il destino della letteratura

di Giorgio Bárberi Squarotti
[da: “L’Orologio   d’Italia – Carlo Levi ed altri racconti”, Kursaal, 2001]


[L’autore è uno dei maggiori studiosi della letteratura italiana. Numerosi i suoi saggi su Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Tasso, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Pascoli, D’Annunzio, Pirandello, Gozzano, Sbarbaro, Ungaretti, Montale, ed altri. È anche autore di libri di poesie, tra cui “Le langhe e i sogni”. Dirige la prestigiosa collana della UTET “Classici Italiani”. Sotto la sua direzione è stato completato e pubblicato il “Grande Dizionario della Lingua Italiana”, composto da XXI volumi, sempre della UTET]


Il castello dei destini incrociati si apre con la premessa canonica di un’avventura di libro di fiabe o, meglio, di po ­ema ariostesco: l’arrivo sul far della notte in un castello nel mezzo di un fitto bosco, dove trovano rifugio «quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti ». Ma il narratore coglie nel luo ­go un che di ambiguo: come se si trattasse di un castello degradato a taverna oppure di una taverna con pretese di castello. Fin dall’inizio, nel décor perfetto in apparenza dell’avventura c’è qualcosa che non funziona: il luogo non è effettivamente quel che dovrebbe essere, come se il de ­miurgo della possibile vicenda o, meglio, dell’incontro di tante diverse e interessanti persone capace per naturale figliazione letteraria di dare origine a una decameroniana narrazione di novelle o di storie personalmente vissute o da altri udite avesse commesso subito un imperdonabile sba ­glio, non mettendo esattamente come sarebbe stato necessario le cose a posto, anzi facendo una certa confusione fra osteria e castello, ambizione di innalzamento sociale e de ­gradazione da una nobiltà e da un’eleganza antiche.
È un segno preliminare: in uno spazio così ambiguo non potranno le narrazioni svolgersi secondo il canone del ­la brigata, riunita dalle circostanze esteriori (la notte, nella situazione specifica), che si intrattiene con il piacere della parola che fa esistere gli esempi dell’infinita varietà dei casi e dei caratteri umani, delle possibilità della realtà e di quelle più avventurose e gradevoli dell’invenzione. E, su ­bito, infatti, il protagonista e narratore scopre che nessuno parla in quel luogo, e anch’egli vorrebbe incominciare la conversazione con la frase di trito più semplice e banale, ma non riesce a emettere la voce. La parola è diventata impossibile, non risuona più nello spazio che la tradizione le ha deputato da sempre.
Se non si può più parlare, ecco che, allora, neppure più può darsi il cronista che scriva ciò che si è detto, e con la scrittura, così come la Bradamante de Il cavaliere inesistente, riferisca a tutta l’infinita posterità dei lettori le vi ­cende e i personaggi che la brigata, riunita nel castello (o nella taverna che sia), ha fatto esistere con le sue diverso narrazioni. La letteratura, come ordinata composizione nel ­la scrittura di ciò che i narratori hanno detto per trascorrere nel modo più elevato e intellettualmente degno il tempo di una costrizione, il vuoto della vita di una notte in un castel ­lo che da ricetto ai viandanti sorpresi nel fitto bosco dal calare delle tenebre, si trova di colpo a essere diventata impossibile perché manca e si è perduta irrimediabilmente la parola; e tutti l’hanno perduta, uomini e donne, viandan ­ti e partecipi dei cortei regali, con profondo terrore e orro ­re,     perché     nulla     più     potrà     essere     raccontato,     mai: «Abbiamo perso la parola tutti, nel bosco, tutti quanti sia ­mo intorno a questa tavola, uomini e donne, benvestiti o malvestiti, spaventati, anzi spaventosi a vedersi, tutti con i capelli bianchi, giovani e vecchi, anch’io mi specchio in uno di questi specchi, di queste carte, ho i capelli bianchi anch’io dallo spavento », dice il narratore all’inizio de La taverna dei destini incrociati, che costituisce la seconda parte del libro; e si chiede, allora: «Come faccio a raccon ­tare adesso che ho perduto la parola, le parole, forse pure la memoria, come faccio a ricordare cosa c’era lì fuori, e una volta ricordato come faccio a trovare le parole per dir ­lo; e le parole come faccio a pronunciarle, stiamo tutti cer ­cando di far capire qualcosa agli altri a gesti, a smorfie, tutti come scimmie ». Ne La taverna c’è un che di tragico nella scoperta della perdita della parola, mentre ne Il castello il tono è piuttosto di fiaba, come se fosse un di più di avventura il fatto di non avere più la parola. Il fatto è che, senza parola, non esiste più neppure la memoria, e tutto si dissolve inesorabilmente, allora, e scompaiono anche le cose perché non possono più essere nominate; e allora soltanto le carte dei tarocchi possono essere assunte ancor a come il surrogato della parola, come le immagini che pos ­sono, combinandosi variamente secondo l’intenzione dei presenti, raccontare una vicenda, rievocare un fatto, definire le cose, far esistere nel tempo ciò che il tempo si è già portato via.

Il castello contiene una serie di confessioni autobiografiche, ciascuno narra la propria vicenda, magari da diversi punti di vista; e c’è ancora un margine di gioco in tutto questo, come una sfida che i presenti nel castello accettano nei confronti della privazione della parola, per ripetere una volta di più, pur nella difficoltà causata dalla perdita della parola, lo schema della narrazione di novelle. Ne La taverna, invece, la situazione si è rivoltata nell’orrore, nella tra ­gicità: persa la parola, tutto è perduto per sempre, e nulla più ha senso, perché non può essere fissato e definito e consegnato ad altri, che verranno dopo. Per questo color o che sono presenti nella taverna, con le carte dei tarocchi, finiscono con il rinarrare e ricostruire l’intera serie delle storie e delle invenzioni della letteratura. Le figure dei tarocchi, come già ne Il castello, sono l’unico linguaggio rimasto: che è quello dell’immagine, poiché la parola è perduta. Che cosa può fare lo scrittore (tutti i narratori di storie che sono ospiti del castello e che si ritrovano nella taverna, dopo aver attraversato il bosco che ha portato loro via la parola), altro che servirsi dell’unico strumento di narrazione e di memoria che rimane, cioè dell’immagina? Ma le immagini non servono per la comunicazione della vita, bensì per la funzione di racconto di storie che è stata della letteratura, finché c’è stata la parola, oppure sono affannosamente prese, mescolate, accostate, combinate perché la memoria di ciò che è stato detto con le ormai scom ­parse parole possa risorgere, e, sia pure schematicamente, ma non per questo senza la possibilità di riletture critiche, di reinterpretazioni, di giudizi, di scoperte fino a quel mo ­mento non ancora compiute e pronunciate, tutto l’enorme deposito dell’invenzione letteraria possa essere ripercorso e riesaminato. Ne La taverna si dimostra che anche nel linguaggio delle immagini la rilettura delle vicende che la letteratura ha inventato e raccontato non può essere neutra ma comporta sempre un’aggiunta, ogni volta, di ermeneutica, che chiarisce meglio i significati, fa vedere ciò che meno bene prima si era visto, rivela anche ciò che mai nessuno aveva osservato. Le carte dei tarocchi disegnano con il loro linguaggio figurativo le vicende e le opere, le situazioni e i personaggi della letteratura, ma disegnano anche interpretazioni critiche, così come accade per ogni rilettura dei testi e delle opere della letteratura.
Il narratore del libro ha perso la parola in quanto autore possibile di ciò che, nel castello, la brigata che vi si è trovata per la notte potrebbe raccontare, ed egli se ne farebbe, allora, cronista e trascrittore, così come lo scrittore ha sempre fatto; ma a poco a poco i vari personaggi del castello si rivelano per le figure della letteratura, che hanno perso anch’esse la parola e, di conseguenza, non possono più ripetere le loro vicende, non possono più offrirle allo scrittore moderno, che è anche lettore e critico, perché le inter ­preti ancora una volta. Le carte divengono il surrogato del ­la parola: possono essere collocate in modi diversi, combi ­nate secondo diversi rapporti, diverse collocazioni, diverse successioni, e, in questi modi, offrono non soltanto la ripresentazione per figure delle vicende e dei personaggi della letteratura, ma anche le occasioni per nuove forme di lettura e di spiegazione, per nuove considerazioni, soprat ­tutto per quello che è il tipico spazio dello scrittore moder ­no, cioè lo spazio del rifacimento, della riscrittura, con il vantaggio di poter portare, nel ricomporre quello che già è stato detto, la novità delle figure, e anche l’enigmaticità e la conseguente necessità di interpretazione e di commento delle figure stesse; e vengono a rilevare l’ambiguità della letteratura, onde i personaggi della taverna superano stre ­nuamente il limite di tutti i Pierre Menard, legati alla paro ­la, al modello, fino al limite estremo della ripetizione lette ­rale. Il rischio delle carte è che esse si mescolino o, peggio ancora, che rilevino conclusivamente la loro contradditto-rietà e confusione di figure che di per sé finiscono a non potersi bene distinguere in quello che vogliono significare, volta presentate, come segno di uno fra tutti gli infiniti simili, ma pure profondamente, nel valore e nella lezione, diversi che la letteratura offre; e si accentua allora il pericolo di scambi e di equivoci, là dove nella letteratura la parola è la fonte, sempre, della chiarezza delle parti, dei tempi, delle situazioni:

«Per tutt’e tre le tragedie l’avanzare del Carro di guerra d’un re vincitore segna il calare del sipario. Fortebraccio di Norvegia barca sulla pallida isola del Baltico, la reggia è silenziosa, il con ­dottiero entra tra i marmi: ma è un obitorio! ecco stecchita tutta quanta la famiglia reale di Danimarca. O Morte altera e snob! Per invitarli a quale festa di gala nelle tue spelonche senza uscita hai fatto fuori tanti altolocati personaggi in un colpo solo, sfogliando l’almanacco di Gotha con la tua falce-tagliacarte?
No, non è Fortebraccio: è il re di Francia sposo a Cordelia che ha attraversato la Manica in soccorso a Lear, e stringe da vi ­cino l’armata del Bastardo di Gloucester, conteso tra le due regi ­ne rivali e perverse, ma non farà in tempo a liberare dalla gabbia il re folle e la figlia, chiusi lì a cantare come uccelli e a ridere alle farfalle. È la prima volta che un po’ di pace regna in famiglia: basterebbe che il sicario ritardasse qualche minuto. Invece arriva puntuale strozza Cordelia ed è strozzato da Lear che grida: – Perché mai un cavallo, un cane, un topo hanno vita e Cordelia non respira? – e a Kent, al fedele Kent, non resta altro augurio da fargli che: – Spezzati, cuore, ti scongiuro, spèzzati.
A meno che si tratti del re non di Norvegia e non di Francia ma di Scozia, il legittimo erede del trono usurpato da Macbeth, ed il suo carro avanzi alla testa dell’esercito inglese, e finalmente Macbeth sia costretto a dire: – Sono stanco che Il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino le carte del gioco, i fogli dell’in-folio, i frantumi di specchio del disastro ».

Alla fine dell’opera, Calvino propone un’ipotesi di de ­finitivo disastro, di totale apocalissi di ogni linguaggio, anche di quello figurativo delle carte dei tarocchi, con il quale il gruppo del castello e della taverna ha surrogato la parola perduta e ha ripercorso e rifatto l’intera tradizione della letteratura. All’eroe della vanità dell’azione, dell’inutilità e dell’ingannevolezza dei vaticini, quindi anche dei progetti e delle ambizioni, della meditazione con ­clusiva sulla confusione fragorosa che è la storia, non altro che una brutta e informe vicenda di teatro, mal recitata, per giunta, toccherebbe il compito di dichiarare finito anche l’impegno combinatorio delle carte per resuscitare e salva ­re, nel silenzio della parola, le vicende e i significati della letteratura. Le carte si confonderebbero in modo inestrica ­bile, non più si combinerebbero secondo un senso, un in ­tento, un’interpretazione, una ricerca di significato: quelle del gioco dei tarocchi, ma anche quelle dell’edizione sha ­kespeariana, dell’in-folio che contiene le tragedie. Macbeth, che è il liquidatore della storia nella tragedia di Shakespeare, potrebbe essere anche il liquidatore dell’ultimo tentativo di salvare dal nulla del silenzio le ormai impro ­nunciabili parole della più alta letteratura. Ma il dissolversi del mondo e il precipitare del sole sono pur espressi con le carte; e la sintassi del mondo è quella che ha concesso di combinare le carte fino a ritrovare, con esse, i processi e i modi della costruzione letteraria prima che quella che tiene insieme le strutture dell’universo. L’apocalissi, alla fine de La taverna, è di carte e di carta: una volta ricomposte tutte le storie che la letteratura ha inventato, una volta ripercorse avventure, sofferenze, guerre, disfatte, vittorie, vicende, personaggi, Lear come Faust, Justine come Edipo, Parsifal come Bradamante, La taverna sigilla la probabile o, alme ­no, desiderata conclusione della sintassi del mondo scritto, per la stanchezza di Macbeth di vedere tutto ripetersi anco ­ra una volta, quando la perdita della parola nel bosco dan ­tesco e ariostesco sembrava aver reso impossibile la me ­moria e, di conseguenza, anche quella forma suprema di memoria che è la letteratura.
Alla fine de Il castello c’è piuttosto l’indicazione di una circolarità che ricomincia da capo, senza mai un punto di arrivo: «Sfuggita all’agguato, l’eroina s’era celata sotto i panni d’una ostessa o ancella di castello, come noi la vede ­vamo ora tanto in persona quanto nell’arcano della Temperanza mescere un purissimo vino (quale i motivi bacchici dell’Asso di Coppe garantivano). Eccola ora apparecchiare una tavola per due, attendere il ritorno dello sposo, e spiare ogni muovere di fronda in questo bosco, ogni tirar di carte in questo mazzo di tarocchi, ogni colpo di scena in questo incastro di racconti, finché non si arriva alla fine del gioco. Allora le sue mani sparpagliano le carte, mescolano il maz ­zo, ricominciano da capo ». Ne Il castello il gioco riprende dopo che il gioco è finito.
Le possibilità combinatone delle carte sono infinite, e infinite storie possono, allora, essere intrecciate, ogni volta ricominciando da capo (ma le stesse storie possono ripeter ­si all’infinito nella ripetizione rituale delle disposizioni delle carte: è la stessa cosa). Nella perfetta strategia co ­struttiva di Calvino, le vicende che gli ospiti del castello-osteria raccontano con le carte sono quelle che, in qualche modo, discendono dalla rassomiglianza fra il narratore e la carta che egli sceglie per dare inizio alla storia: sono auto ­biografìe, o pretendono di presentarsi e di farsi leggere co ­me tali. Al contrario, le vicende de La taverna sono quelle supreme della letteratura, sempre più alte, sempre più tese al sublime. Il castello contiene vicende che sono fra la let ­teratura e la vita, in qualche parte ancora incerte e ambigue fra l’una e l’altra; la taverna, così fumosa e degradata, con ­tiene, invece, il pieno dispiegarsi delle seduzioni e delle suggestioni e delle magie della letteratura, sia pure in tutte le loro inquietanti ambiguità. La taverna conclude a un’ipotesi di stanchezza per i giochi di carte che sono la letteratura, mentre nel castello tutto si riannoda da capo nella combinazione delle carte che è anche la combinazio ­ne della vita, ma ormai null’altra che quella delle carte può svolgersi e attuarsi, soltanto nelle carte l’eroina, salvatasi, può attendere lo sposo, che ritornerà solamente nel nuovo gioco delle carte che avrà inizio dalle mani dell’eroina do ­po che le carte stesse saranno state mischiate per cancellare quello che hanno raccontato con le loro combinazioni.

Le avventure ariostesche, così frequenti nel castello come nella taverna, rappresentano l’archetipo di tutte le avventure possibili, e proprio per questo costituiscono il punto di riferimento dei giochi dei tarocchi che vengono combinati dagli ospiti del castello e dagli avventori della taverna. Ne La taverna le riletture della letteratura portano anche ali’autocitazione di Calvino: anche la letteratura ap ­pena scritta è diventata oggetto di combinazione di imma ­gini per poter ancora essere detta, visto che la parola ormai tace. Il libro si chiude su se stesso oltre che su tutti i libri. La letteratura può essere proseguita soltanto se è ripresa e ripetizione di ciò che, nel passato, è stato scritto, perché ormai la parola è muta, tagliata; ma tale condizione è vera per ogni letteratura, e la scrittura, allora, del libro non fa che ritorcersi continuamente su se stessa, non fa che ripete ­re le stesse figure delle carte, infinitamente interpretabili, a seconda della posizione che è fatta loro occupare nell’impegno combinatorio di ospiti e avventori, non può mai andare più in là, veramente aspirare a un gioco nuovo, perché tutti i giochi coincidono con quanto già è stato in ­trecciato come combinazione di personaggi, di situazioni e di eventi. Anche se gli ospiti del castello possono combi ­nare le carte secondo storie che sembrano quelle tradizionali dei narratori di novelle di tipo decameroniano, tuttavia il risultato rimane sempre quello di un intreccio di carte, si tratti del ladro di sepolcri oppure dell’alchimista che ven ­dette l’anima o della sposa dannata. Sono sempre storie esemplari, come quelle di un prontuario di esempi di com ­portamento e di azioni a maggiore e opportuna edificazio ­ne dell’anima. Gli ospiti del castello fanno a volta a volta assistere gli altri a vicende che sono marcate e caricate di drammaticità o di avventurosità o di lezioni morali, e vi assistono quando tocca loro guardare le combinazioni di carte che sono proposte loro davanti.
L’opera appare, allora, come una dichiarazione di poe ­tica e un discorso sulla letteratura che coinvolge la scrittura di Calvino a partire dalla fine degli anni sessanta. È un compendio ambizioso delle vicende e delle forme della letteratura, e si pone, di conseguenza, anche come una de ­nuncia di fine nella morte della parola e nella sostituzione di essa con l’immagine. L’ironia è sui limiti della nuova modalità di ripetizione e interpretazione della letteratura. Se l’autobiografìa (la vita) non può essere detta che con le e che sono deputate anche a raccontare la letteratura, ecco che la conclusione non può essere che l’assoluto trionfo della letteratura: ma ogni riscrittura non può che essere in falsetto, non può che presentarsi anche come pa ­rodia, e l’aspetto tragico, che pure brivida sotto la scrittura di Calvino, nasce dalla coscienza di essere giunto a un li ­mite estremo della letteratura, che ha perduto l’uso della parola e non può compiere i suoi giochi in altro modo che, letteralmente prendendo il termine di gioco, con le carte del gioco dei tarocchi. Ma se la letteratura è arrivata a tale punto, significa che non c’è più nessun rapporto fra vita e letteratura, fra linguaggio (delle immagini, sostituite alla parola) e realtà. Non c’è più nulla di nuovo da inventare: tutto ciò che lo scrittore può fare è combinare all’infinito, fino alla stanchezza suprema, le carte che riportano sempre le stesse figure, e tutto ciò che ne nasce è soltanto la varia ­zione delle collocazioni reciproche e successive delle carte, con cui si può agganciare ancora la vicenda tratta dal deposito della letteratura del passato. Le storie che nascono dalle immagini ripetono quelle della letteratura. Ospiti di un castello o avventori di una taverna, gli uomini si spec ­chiano sempre soltanto nella letteratura: ma questa è figu ­rata sulle carte, sul loro gioco, non parla più, non è più me ­moria, ammonizione, inno, espressione di vita, rappresentazione di storia e di idee.
Ne Le città invisibili (1972) soltanto due sono coloro che compiono il gioco combinatorio: Marco Polo e il Gran Kan Kublai; ma il procedimento è lo stesso. Marco Polo, per incarico dell’imperatore, viaggia per l’impero onde poi potergli descrivere le città che esso contiene, dal momento che l’imperatore non può muoversi dalla sua capitale e dal suo palazzo che sono il centro dell’impero, e ormai tutte le conquiste sono state fatte e domina la pace, né Kublai più deve partire alla testa del suo esercito. Ma le città che Mar ­co descrive sono le città possibili, quelle che, con il proce ­dimento della combinazione degli elementi che costitui ­scono per definizione la città, possono essere formate.
Marco non descrive nessuna città esistente, ma cerca di esaurire nei suoi racconti il catalogo delle città che potreb ­bero esistere, ma anche il catalogo dei viaggiatori che giungono via via a tali città possibili, e delle esperienze che le città suggeriscono loro e del sentimento che destano. Marco Polo, che possiede la parola, non fa che servirsene per far essere ciò che egli via via costituisce come luoghi visitati con la diversa combinazione di palazzi, vie, cupole, abitanti, occupazioni, paesaggi che circondano le città stes ­se: Kublai pretende la conoscenza del suo impero, che Marco allarga infinitamente presentandoglielo come il luo ­go senza limiti e confini del possibile, cioè come il domi ­nio della letteratura, che non ha come proprio oggetto la storia e la vita come sono, ma come potrebbero essere, non il dato e l’oggetto e il fatto, ma i dati e i fatti e gli spazi e i luoghi che potrebbero essere e che la parola fa esistere in modo definitivo non appena li ha fissati nel racconto, così moltiplicando specularmente all’infinito il reale, ma anche, alla fine, cancellandolo, in quanto esiguo punto di partenza per un’impresa catalogatoria e classificatoria che tende all’esaurimento, impossibile ma accanitamente perseguito, del possibile. I viaggi di Marco, a un certo punto della con ­versazione con l’imperatore, appaiono puri viaggi nella mente:

KUBLAI: Non so quando hai avuto il tempo di visitare tutti i paesi che mi descrivi. A me sembra che tu non ti sia mai mosso da questo giardino.
POLO: Ogni cosa che vedo e faccio prende senso in uno spa ­zio della mente dove regna la stessa calma di qui, la stessa pe ­nombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie. Nel mo ­mento in cui mi concentro a riflettere, mi ritrovo sempre in que ­sto giardino, a quest’ora della sera, al tuo augusto cospetto, pur seguitando senza un attimo di sosta a risalire un fiume verde di coccodrilli o a contare i barili di pesce salato che calano nella stiva.
KUBLAI: Neanch’io sono sicuro d’essere qui, a passeggiare tra le fontane di porfido, ascoltando l’eco degli zampilli, e non a cavalcare incrostato di sudore e di sangue alla testa del mio eser ­cito, conquistando i paesi che tu dovrai descrivere, o a mozzare le dita degli assalitori che scalano le mura d’una fortezza assediata.
POLO: Forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate, e mai abbiamo interrotto, tu di sollevare polvere sui campi di battaglia, io di contrattare sacchi di pepe in lontani mercati, ma ogni volta che socchiudiamo gli occhi in mezzo al frastuono e alla calca ci è concesso di ritirarci qui vestiti di chimoni di seta, a considerare quello che stiamo vedendo e vivendo, a tirare le somme, a contemplare di lontano.
KUBLAI: Forse questo nostro dialogo si sta svolgendo tra due straccioni soprannominati Kublai Kan e Marco Polo, che stanno rovistando in uno scarico di spazzatura, ammucchiando rottami arrugginiti, brandelli di stoffa, cartaccia, e ubriachi per pochi sorsi di cattivo vino vedono intorno a loro splendere tutti i tesori dell’Oriente.
POLO: Forse del mondo è rimasto un terreno vago ricoperto da immondezzai e il giardino pensile della reggia del Gran Kan. Sono le nostre palpebre che li separano ma non si sa quale è den ­tro e quale è fuori.

I colloqui fra Marco e Kublai, che interrompono di trat ­to in tratto la descrizione delle città possibili, sono vere e proprie dichiarazioni di poetica. Progressivamente, i due interlocutori arrivano a chiarirsi che non esiste altro che l’invenzione della letteratura da parte di Marco e l’ascolto di tale invenzione da parte dell’imperatore. La realtà non esiste o, se esiste, non è definibile, circoscrivibile, descri ­vibile: è un altrove, che è sempre irraggiungibile, si tratti dei campi di battaglia o delle mura assediate di Kublai op ­pure dei mercati dove Marco commercia le spezie o delle stive delle navi il cui carico egli sorveglia, oppure del giar ­dino dove avviene la conversazione. Né i due conversatori possono essere certi di essere davvero il mercante venezia ­no e l’imperatore del Catai: tutto potrebbe essere un sogno della letteratura, che è capace di combinare gli elementi costitutivi dell’idea di città nei modi più diversi, facendo così esistere un’infinità di città dall’esistenza della scrittu ­ra, la quale, tuttavia, non è affatto meno certa e meno con ­creta dell’esistenza delle cose che si dicono reali, e queste, da parte loro, non sono più salde e sicure delle creazioni della mente. La certezza della storia e del mondo è perduta: ciò che si può fare ancora, a questo punto, è affidarsi all’invenzione della letteratura, si tratti dei personaggi che si chiamano Kublai Kan e Marco Polo e che potrebbero benissimo essersi inventati come tali, oppure dello splendi ­do giardino del palazzo imperiale, che potrebbe non essere altro che il frutto di una creazione della letteratura. Tutto è nella mente: se sia anche fuori o se ci sia davvero qualcosa fuori non è possibile sapere. Allora, bisogna raccogliersi strenuamente sulla combinazione delle forme della lettera ­tura. Essa non ha fine, ma ha anche il privilegio di poter offrire un catalogo di possibili che non è meno ontologica ­mente esistente di ciò che si pretende tangibile e obiettivo. Ne Le città invisibili Calvino considera il problema del ­la parola e della letteratura da un punto di vista opposto e complementare rispetto a Il castello dei destini incrociati: in quest’opera, la fine della parola era surrogata dall’immagine, non per dare una raffigurazione e una rappresentazione alla vita e alla storia, ma per poter ancora prolungare e far esistere la memoria della letteratura, per forza di combinazione di immagini; ne Le città invisibili, invece, la parola è tutto, e la realtà della vita e della storia non esiste più, se mai qualche volta è esistita, oppure non conta nulla, nulla può dare di certo e di autentico, è inco ­noscibile, là dove è conoscibile e fruibile ciò che la mente inventa, le cose che mette insieme per combinazione degli elementi costitutivi, i racconti di viaggi, le visite alle città, le osservazioni su di esse, le avventure che vi si svolgono, le infinite ambiguità che presentano nell’assoluta arbitra ­rietà di combinazione di forme da cui nascono, unita con la perfetta normalità e concretezza degli elementi che le co ­stituiscono come possibilità ed esempi.
Lo spazio e il tempo non esistono più o sono reversibi ­li: nell’immagine dell’atlante sono presenti tutte le forme delle città presenti, passate e future, finché ci sarà la morte delle forme: «II catalogo delle forme è sterminato: finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città conti ­nueranno a nascere. Dove le forme esauriscono le loro va ­riazioni e si disfano, comincia la fine delle città. Nelle ultime carte dell’atlante si diluivano reticoli senza principio né fine, città a forma di Los Angeles, a forma di Kyoto-Osaka, senza forma ». Se la parola muore e non resta per comunicare che l’immagine, anche le forme tendono ormai a tacere: l’immagine, opportunamente combinata con altre immagini nelle carte da gioco, rinarra l’intera vicenda della letteratura; le forme ugualmente si combinano in infiniti modi, fino a costituire tutte le città possibili nell’in ­venzione della mente che dilata spazi, crea movimenti, fa esistere avventure, fa trascorrere tempi, fa udire voci e suo ­ni, fa sorgere e precipitare muri, percorre vicoli e strade imperiali, vede le forme delle future Amsterdam e New York, delle passate e distrutte Troia e Micene, suscita im ­pressioni, angosce, appagamenti, piaceri, terrori all’interno dei nomi delle più lontane e disperse e anche invisibili città che nascono dalla forza mitopoietica della letteratura, e, dopo, esistono, nella memoria di Marco e di Kublai, o sull’atlante che contiene tutte le forme possibili di città. Ma c’è un limite anche alle forme, una mutezza delle for ­me. Il discorso di poetica di Calvino allude a un tempo contemporaneo in cui la parola muore (e resta soltanto l’immagine) e muore la forma, e rimane, allora, soltanto una serie di non forme, un magma di linee, di reticoli senza principio né fine, una confusione di astrazioni. Le non for ­me sono al di là del possibile che è il dominio della lettera ­tura. Dove non c’è più forma, non ci sono più neppure la scrittura e la letteratura, che è combinazione di immagini o di forme (che è la stessa cosa), non ha più spazio.
La descrizione delle città dell’impero di Kublai può ridursi alla descrizione dell’ultima casella della scacchiera, da cui è stato tolto via il re dopo lo scacco che lo ha vinto e cancellato: ma perché anche la nuda e deserta casella di legno è una forma che contiene in sé, nella sua estrema limitatezza, un’infinità di spazi possibili e di tempi trascor ­si, ed eventi e fatti e situazioni vi sono contenuti e non at ­tendono altro che la capacità del “lettore” che li faccia evi ­denti, li riveli, li traduca nella parola. Nell’ultimo collo ­quio fra Kublai e Marco si dice:

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.
Dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.
E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Anche Le città invisibili sono un’opera scritta sull’orlo del silenzio, non meno de Il castello dei destini incrociati: ed entrambe, di conseguenza, sono un’ininterrotta dichia ­razione di poetica, una riflessione per exempla sulla letteratura. La letteratura può cercare di riconoscere e rivelare poi che cosa non è inferno (quell’inferno un poco sartrianamente definito come quello che «formiamo stando insie ­me »), e può salvarlo. Il catalogo delle città possibili è quel ­lo che salva dallo sfacelo le cose, perché da loro una for ­ma, quella forma che ormai le città degli uomini stanno perdendo, nella proliferazione delle città senza forma. La città è l’opera della ragione, il luogo della comunità, per quanto, poi, possano sembrare assurde e incomprensibili tante delle incarnazioni storielle o fantastiche che se ne sono avute e che se ne hanno nelle parole delle relazioni di visite e viaggi che Marco Polo espone a Kublai Kan.

Inventare città secondo tutte le gradazioni e le capacità combinatorie del possibile significa salvare qualcosa dall’inferno, anzi uscirne fuori, per contemplare con la lu ­cidità della mente ciò che la parola fa esistere. Polo è lo scrittore che offre lo spazio della salvezza dalla corsa del mondo verso l’assenza della forma all’imperatore che sa molto bene che è migliore ventura restare, non oltrepassare monti e fiumi, non viaggiare per il suo impero, perché, pascolianamente, il sogno e la letteratura sono l’infinita ombra del vero, e allora l’unico compagno necessario è lo m nitore che sogna le città possibili e da loro forma e le fa esistere nella parola, saldandole dalla degradazione dell’inferno delle non forme in cui sta precipitando il mon ­do. La letteratura è, sì, ridotta a una sorta di operazione combinatoria, si tratti di carte dei tarocchi oppure delle forme delle città e dei loro nomi. Nel momento che prece ­de (o già un poco segue) il silenzio della letteratura e la dissoluzione delle forme del mondo, non c’è, però, altra possibilità che di combinare le varie parti o opere o aspetti di ciò che è stato detto o di ciò che appartiene al dominio specifico della letteratura, che è il possibile. La letteratura nel tempo dell’informe che incombe non inventa più nulla, non può inventare più nulla: può, appunto, difendere le forme che esistono per la propria passata forza o quelle che sono state ancora costituite con l’impegno visionario e con l’abilità delle variazioni e delle disposizioni dello scrittore moderno. Può, insomma, nel castello e nella taverna, ripe ­tere la letteratura del passato; ne Le città invisibili, conservare le forme combinandole insieme, e anche offrire una sorta di catalogo utopico di forme, staccate dalla realtà sto ­rico-fenomenica, perché in questa è irrimediabile la disso ­luzione, non c’è scampo allo sfacelo. Nell’opera di Calvino, proprio per questo non ha vero spazio il fantastico, ma, piuttosto, essa è il luogo dell’allegoria, che, come è noto, è una figura della letteratura oltre che una rivelazione, un messaggio per figura.
Al di là de Le città invisibili non ci può essere che la meditazione sopra il pericolo che la letteratura stessa perda la forma e si dissolva. Se una notte d’inverno un viaggiato ­re è proprio il discorso, condotto con un margine di ironia e di gioco, intorno alla dissoluzione delle forme della lette ­ratura. L’opera che è cercata nel libro è sempre diversa da quella che via via sembra presentarsi e rivelarsi; e allo stesso modo l’autore si muta in altro nome, altro volto, al ­tro tempo, altro paese d’origine, altro programma di scrit ­tura, altro stile, altro modo d’essere. Esiste in troppi modi diversi perché si possa dire che esista davvero, così come l’opera inizia in troppe forme diverse perché ne possa essere identificata la forma complessiva. È sempre soltanto un frammento, pronto a trasformarsi in un altro frammento, all’infinito: e tutti i diversi frammenti difficilmente ritrovati e compulsati e tradotti dalle lingue più astruse forse non sono che il frutto di un’unica, infinita falsificazione. Il fatto è che qui il gioco della letteratura si è fatto lieve, ironi ­co, perdendo quel che di tragico aveva ne Il castello e ne Le città invisibili: forse tutta la letteratura non è che un am ­masso di apocrifi, adatti, al più, alle analisi dei critici e dei gruppi di studenti, secondo metodi sociologici o formali, tanto quel che i testi sono non conta assolutamente nulla, tutto ormai predicandosi dei testi in astratto, come puro lavoro di combinazioni teoriche e generiche. La letteratura certamente esiste, perché ne restano frammenti e tracce: ma esistono molto meglio le disquisizioni su di essa come pura occasione e pretesto. Il volume completo di cui il pro ­tagonista è alla caccia per vedere, da buon lettore, come la storia vada a finire non esiste o, piuttosto, è tutti i libri pos ­sibili della letteratura del passato, e ugualmente, allora, non esiste. Neppure la biblioteca di Babele a cui, alla fine, dopo le più strane avventure con autori scomparsi o perseguitati, contesi fra due lingue e due popoli, autori di falsifi ­cazioni o di opere perdutesi nelle redazioni delle case editrici, il protagonista ricorre, può offrire una soddisfazione alla ricerca della letteratura perduta: che parla, ha sempre la parola, lascia consistenti tracce di sé, ma, poi, non è più raggiungibile, come, invece, era possibile fare con le carte dei tarocchi ovvero nelle conversazioni fra Marco Polo e Kublai Kan. I libri nella borgesiana biblioteca ci sono, ma non si trovano più. Non resta che salvare i frammenti di volta in volta trovati nei modi più avventurosi e precari, e scrivere il libro che li contenga tutti, con la loro natura di incipit a cui non segue nessuno sviluppo, non si unisce nessuna conclusione, né è possibile neppure ipotizzarne qualcuna.

La letteratura inizia le sue storie, ma non esistono più svolgimenti e finali. L’enciclopedia moderna della letteratura non può essere, allora, che la raccolta di tutti gli inizi: la conclusione è, in qualche modo nella vita (il protagonista sposa Ludmilla, la ragazza che via via è comparsa,  commentatrice, intralciatrice, collaboratrice, ironizzatrice, autrice di enigmi, durante la ricerca a del romanzo che non è mai quello stesso che sembrava       essere, che incomincia sempre in modo diverso, che si perde nei modi più strani e incredibili, per caso o per eventi ostili). Oppure la vera conclusione è nella letteratura: è «nel nuovo libro che con ­tiene tutto ciò che, enciclopedicamente, secondo diversi stili, diversi contenuti, diverse forme, si è proposto al pro ­tagonista come inizio del libro introvabile. È nel falsetto della ripetizione della letteratura     (narrativa, questa volta) attraverso il gioco, sempre lievemente parodico, della ri ­scrittura secondo i modi di… Alla   fine c’è, appunto, la pro ­sopopea del libro che contiene tutti gli altri libri: «Ora siete marito e moglie, Lettore e Lettrice. Un grande letto matri ­moniale accoglie le vostre letture     parallele. Ludmilla chiude il suo libro, spegne la sua luce, abbandona il capo sul guanciale, dice: – Spegni anche tu. Non sei stanco di leg ­gere? E tu: – Ancora un momento. Sto per finire Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino ». Il libro che si può leggere è quello che racchiude tutti i frammenti dei libri che non si trovano più, smarriti o dispersi o anche del tutto falsificati e apocrifi. Il libro, tuttavia, trionfa defi ­nitivamente. Il Lettore e la Lettrice hanno, in fondo, sol ­tanto fìnto la vita: in realtà, la loro vita non è altro che let ­tura, perfino a letto. Il matrimonio non è che la conclusio ­ne di rito del libro: ma, oggi, esso è in funzione della lette ­ratura.     Ciò     che     resta,     alla     fine,     è     il     nuovo     libro sull’impossibilità di trovare i libri, di leggere i romanzi dopo le prime pagine, di identificare gli autori, di cono ­scerne nazionalità, intenzioni, poetica, lingua, età. La lette ­ratura è ormai irrimediabilmente     incompiuta e perduta, ma è anche tutto quello che rimane, non diversamente da come concludevano d’accordo Kublai e Marco. Se non che i due personaggi de Le città invisibili hanno di fronte l’inferno del mondo che perde le forme, così come i personaggi de Il castello dei destini incrociati subiscono la perdita della parola, mentre il protagonista di Se una notte d’inverno un viaggiatore si imbatte, sì, in poliziotti, falsari, spie, studen ­ti in rivolta, studenti sociologizzanti o formalizzanti, funzionari sbadati di case editrici, librai confusionari e som ­mersi dai libri, lettori di biblioteca alquanto enigmatici, ma tutti fanno parte di un grande gioco ironico, di una sorta di balletto della letteratura, nel quale il libro intero, compiuto, esemplare, più non si ritrova. Non c’è più l’atmosfera tesa e intellettualmente un poco febbrile de Le città invisibili, né il senso, insieme, di angoscia e di rivincita sulla perdita della parola che è ne Il castello. C’è, invece, l’avventura, che è della scrittura, capace di mimare gli stili, i modi di narrare, le forme più diverse. Il libro, se esiste davvero, è quello che si compone via via con i frammenti dei libri perduti: è la biblioteca di Babele ovvero il negozio del li ­braio, fatti unico libro, perché non è più possibile pensare al luogo di tutti i libri esistenti e di tutti i libri possibili, ma, nello stato di corrosione della parola, soltanto allo spazio dove sono raccolte le tracce lasciate dalla letteratura, insie ­me con le avventure e le vicende occorse per raccogliere i frammenti dei romanzi che forse esistono, forse sono stati scritti, forse sono stati perduti o distrutti o smarriti, forse sono stati cancellati dal potere, forse sono soltanto falsifi ­cazioni e scherzi di qualche geniale falsario, forse sono, invece, davvero non i resti di ciò che è ignoto e si desidere ­rebbe poter conoscere, ma ciò che rimane dei libri del pas ­sato, confusi in una sorta di destino di dissoluzione. Il trionfo finale è certamente della letteratura, se il Lettore risponde alla Lettrice che, prima di spegnere la (decisamente allegorica) luce e piombare nel buio vuoto dell’assenza della parola, vuole concludere la lettura dell’ultimo romanzo di Italo Calvino: ma, forse, a ben ve ­dere, questo stesso trionfo è ambiguo. Il Lettore potrebbe semplicemente essere nella situazione in cui è all’inizio, e trovarsi di fronte al libro che incomincia, sì, ma poi non va avanti a causa della confusione dei sedicesimi che lo com ­pongono. E tutto, allora, ricomincerebbe da capo. L’ironia e la parodia finiscono a equilibrare l’aspetto, nel profondo, drammatico, della situazione della letteratura. Anzi, la pa ­rodia viene a confermare tale stato corroso e difficile: si può, infatti, fare la parodia soltanto quando la fiducia nella verità della letteratura è venuta meno.

Ma non resta, alla fine, altro che la letteratura: non se ne esce in nessun modo. E allora la poetica della letteratura da salvare dal silenzio e dall’inferno, il privilegio della let ­teratura, comunque avvalorato e difeso, si trasformano nel gioco della letteratura, nel piacere del falsetto. Sotto, ci può anche essere la sfida alla scrittura attraverso la scelta enciclopedica: ma è una sfida che moltiplica i libri, sia pu ­re ridotti a un solo capitolo o ad ancor meno. Forse, la nuo ­va scelta di Calvino dipende dall’immersione nella con ­temporaneità dei seminari universitari, dei librai sommersi dalle novità librarie, degli agenti segreti di qualche potere dittatoriale che sequestrano manoscritti, dei sempre più numerosi scrittori che vivono falsificando i testi, costruen ­do infinite e sempre nuove opere apocrife, che godono nel mescolare l’autentico con il non autentico, in un mondo dove, del resto, l’inautenticità è almeno altrettanto frequen ­te, anzi è molto più diffusa del fatto o dell’oggetto o del testo autentico.
L’ironia si fa perfino un poco troppo cordiale in Palomar. e lo sviluppo è senza dubbio significativo. L’arte combinatoria, in cui Calvino indica consistere la letteratura dei tempi moderni, dopo che la grande letteratura del pas ­sato si è trovata di fronte alla perdita della parola, quell’opera di combinazione degli elementi narrativi e tra ­gici, che può dare origine a un’infinità di testi attraverso l’arte della variazione e della disposizione e, soprattutto, permette di rifare e ricomporre i libri del passato, in Se una notte d’inverno un viaggiatore viene a essere corretta deci ­samente da Calvino: la combinazione vera e propria non c’è più, perché la riscrittura non va mai fino in fondo, e, se mai, c’è un principio di arte combinatoria, ma anch’esso finisce interrotto, e la somma di tutte le interruzioni non fa che meglio rilevare il falsetto con cui gli elementi e le forme sono riprese e abbandonate, assunte e perdute. In Palomar il protagonista unico dei racconti viene a collocare se stesso come oggetto di ironia e, di conseguenza, è oggetto di ironia la posizione dello scrittore come di colui che guarda con attenzione maggiore degli altri uomini il mon ­do anche quotidiano e minuto intorno a sé, e sa, soprattutto, guardare anche se stesso come se fosse altro da sé, per ­cependo tutto l’iato che c’è fra ciò che appare e ciò che è, ciò che si sente dentro e ciò che si fa, ciò che si vorrebbe compiere e ciò che gli altri vedono compiere. È una soluzione minimale per la letteratura, una sorta di “letteratura debole”, che non può andare molto al di là dello sguardo sulle cose, sulle minori vicende del reale, sullo stacco che c’è fra la coscienza del signor Palomar e le reazioni degli altri, i fatti che gli avvengono intorno.

Si tratti della ragazza nuda sulla spiaggia o delle due tartarughe o del negozio di formaggi o del geco, la lettera ­tura rappresenta sempre il rapporto fra le cose e lo sguardo del signor Palomar, ma non può andare al di là, non inter ­preta, non crede affatto di contenere verità e messaggi, e neppure è angosciata dalla coscienza della precarietà. Non è più arte combinatoria: è, piuttosto, ironica cronaca del minimo vitale, del minimo sociale, del minimo di pensiero e di meditazione, del minimo di rapporti con gli altri. Al più, può diventare il minimo dell’osservazione interiore, la decisione di guardare da un certo punto in poi non più al di fuori, ma dentro se stesso, senza molta speranza di poter giungere a grandi osservazioni, così come la contemplazio ­ne del cielo stellato non può portare molto al di là del rico ­noscimento di «un universo pericolante, contorto, senza requie come lui », allo stesso modo che la realtà che lo cir ­conda è sempre l’uguale spettacolo di «vie piene di gente che ha fretta e si fa largo a gomitate, senza guardarsi in faccia, tra alte mura spigolose e scrostate ». Tutto quello che si può vedere fuori è ripetitivo e delusivo: ma dentro c’è il limite della morte: «”Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, – pensa Palomar, – e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine”. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore ». La letteratura dello sguardo e della descrizione di ciò che si vede sulla terra, in cielo, su una spiaggia, in un negozio di formaggi, non ha davvero vita lunga: troppo dipende dall’autore e dal limite della morte. Decidere di descrivere ogni istante della propria vita come sfida alla morte non serve proprio a nulla, non fonda una letteratura che salvi dalla fine.
Il grado minimale della letteratura che in Palomar Calvino tende a fondare ha davvero in sé poca possibilità di esistenza e di durata. Ironicamente, col suo carattere ”debole”, viene a sparire nel momento stesso in cui Palo ­mar crede di essere arrivato a trovare la formula che, dopo la verifica della fragilità e della scarsa consistenza di ciò che lo sguardo può vedere, possa dare origine a una lettera ­tura capace di sfidare la morte, così come, appunto, alla letteratura compete da sempre in forza del proprio nome che più dura e più onora: la descrizione di sé e di ogni istante della propria vita, che è argomento e oggetto insie ­me ben certo e destinato a moltiplicare le proprie occasioni indefinitamente. Ma la “debolezza” di questa scelta fa sì che tale progetto letterario si concluda subito: la dissolu ­zione della letteratura programmata è in diretto rapporto con la fragilità dell’autore, che ha scelto tale minimalità di scrittura e di tematica. Basta che la morte colga l’autore perché tutta la sua letteratura abbia fine, anzi neppure pos ­sa estrinsecarsi, così come non accadeva con l’ambizione suprema della letteratura come catalogazione del possibile ne Le città invisibili e neppure in quell’altra scelta minima ­le, ma, tuttavia, piena di fiducia e di volontà di resistere alla perdita della parola, che è quella de Il castello dei de ­stini incrociati. L’ironia della morte cancella il progetto di scrittura di Palomar: la letteratura non è per nulla una garanzia contro la morte.
La scelta della rappresentazione del difficile rapporto fra le cose e le parole nell’ambito limitato dello sguardo che si fissa sul particolare non porta a grandi risultati: for ­se, soltanto alla saggezza della sentenza conclusiva con cui Palomar commenta di volta in volta ciò che ha visto. Ma è una saggezza tutta chiusa in se stessa, che potrebbe essere manifestata forse se Palomar riuscisse nell’intento di de ­scrivere momento dopo momento la propria vita. Il suo progetto conclusivo è, in realtà, già il risultato che costitui ­sce il libro; e, di conseguenza, Palomar può morire. Ma la sua morte è pure un sigillo di fine per la sua idea di lettera ­tura: oltre lo sguardo e la descrizione della vita istante do ­po istante non resta nulla, nessuna possibilità di continua ­zione si può dare.
La letteratura minimale ha anche minimali spazi in cui svolgersi, tempi limitati, sfide, ironicamente sia pure, di non grande vigore e portata. L’idea di letteratura di Palo ­mar sembra uscire fuori da un disastro avvenuto, da una perdita della parola che c’è stata, ma che, in qualche limi ­tata misura, è stata sanata. La letteratura come arte combinatoria è abbandonata: si propone la letteratura come arte della minuzia, del particolare. La proposta non può che essere avanzata ironicamente. Ma è siglata dalla morte del protagonista. È come un’idea gettata verso il silenzio, che è non soltanto quello della parola tagliata e cancellata o del libro che non si trova più o che neppure esiste al di là del primo capitolo o che non è che una falsificazione, un apocrifo, ma è quello ben più amaramente definitivo della morte. Il libro è scritto, questa volta, fino in fondo (ma an ­che Se una notte d’inverno un viaggiatore finiva a risultare dalla registrazione del non essere del libro cercato, era la storia di una letteratura a pezzi, impedita, ridotta a fram ­menti, e il libro veniva fuori proprio dalla verifica ripetuta dell’inesistenza o dell’apocrificità del libro). Ma è la storia di una minimalità di programmi di scrittura e di risultati. La letteratura non cede il campo, ma lo riduce per propria scelta al minimo. La sua non è più una tragedia, ma lo spa ­zio di un’ironia piena di saggezza e di malizia, senza dram ­mi, se non quella morte che inesorabilmente mette fine alla scrittura e segna la conclusione del libro.

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