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ARTE: I MAESTRI: Il Garboli critico che non conosciamo

5 Maggio 2008

Ha senso scatenare traumi con pupazzi?

di Cesare Garboli

[da “Il Mondo” del 6 novembre 1969]

MILANO. E’ viennese e si chiama Otto Muehl. Intellettuale (laurea in lettere e storia), quarant’anni, « sensazionalista », con più di una personale alle spalle.

Ma non ha ancora esposto a Kassel, la città tedesca che ospita la Quadriennale destinata col tempo a soppiantare Venezia. Lavora isolato (stile comune, del resto, a quasi tutti i giovani artisti del « re ­pellente »), anche se appare indiscutibile la sua parentela coi più noti americani come Se ­gal, per esempio, il costruttore di manichini secondo la tecnica dell’ingessatura, e soprat ­tutto Edward Kienholz, il più bravo di tutti, creatore di ambienti squallido-luridi del tipo stanza d’albergo o vecchia automobile sfascia ­ta con coppia.
Muehl si limitava una volta agli oggetti. Oggi è un creatore di « azioni », nel senso di rap ­presentazioni in atto del proprio lavoro crea ­tivo. Questo lavoro, questa fabbrica prevede come traguardo essenziale e traumatico la de ­gradazione (scenica) dell’umano a rifiuto or ­ganico, a immondizia. Non è una novità, d’ac ­cordo. Ma alla Galleria Milano, il 9 ottobre, la sera dell’inaugurazione della mostra « Irritarte » organizzata da Carla Pellegrini e presen ­tata da Lea Buoncristiano del Gesù Vergine (e come si fa, con un nome simile, a non darsi tutta alla dissacrazione), il giovane sensazio ­nalista si è prodotto in un taciturno numero-shock, ha « agito » sul vivo la propria maniera.

Ha infilato la segretaria della Galleria Mi ­lano tra due cubi di plastica, e ricopertala con un telo forato in modo che soltanto la testa ne emergesse, ha poi cominciato a « lavorare »     la     ragazza     con     sostanze     alimentari, con cibi cotti e crudi, e con liquidi in gran parte, ma non esclusivamente, destinati al consumo orale. Alla salsa   di pomodoro     (il   san ­gue?), si univa la colata delle vernici, il rosso e il chiaro del rituale uovo (implicazioni mestruali?) non si distingueva dalla vecchia e ca ­ra farina delle comiche.
Non ho assistito allo spettacolo, purtroppo, ne ho solo udito raccontare. E ho preso visione di alcuni fotogrammi, oggi incorporati alla mostra,   che   me ne hanno   restituito   il   movi ­mento, il dinamismo. Ma egualmente non saprei   dire   con   precisione   in   quali     termini,   e se teatrali o no, se consapevoli o no, la dichiarata finalità degradatoria dell’« azione » s’intrec ­ciava con la natura obiettivamente « scenica » di tutto   l’insieme.   Finzione   traumatizzante   e liberatoria, voglio dire, o happening tragicomico? Comunicazione d’angoscia o ironia? Living-art o maniera? Non si può mica prestare cieco credito alla virtù orrorosa del succo di limone… Dopotutto esiste anche un’estetica dell’at ­re, che vanta i suoi bravi diritti. Esperimenti del genere possono risolversi in una noia mor ­tale,,     è     vero,     ma     qualche     volta,     perché     no? anche in fatti   di   teatro indimenticabile.
Della   mostra     « Irritarte »,     che   ospita   nove artisti di diversa fisionomia e provenienza, ma tutti accomunabili nel segno dell’orrore come denuncia e contravveleno, come esorcismo, il pezzo di maggior rilievo resta ancora un am ­biente, questa volta statico,   dello stesso Muehl ispirato all’eccidio di Bel Air: la « stanza di Sharon Tate ». Ove si eccettui il titolo, in realtà, quanto alla messinscena, all’addobbo, il richiamo al fatto di cronaca si circoscrive a una parola dipinta sulla parete:   « Pigs ».
In omaggio a certe premesse   di arte   « po ­vera »,   che   pure   presiedono   a   questi   allesti ­menti del nauseabondo, al lusso hollywoodiano si contrappone   qui   (fermo il   disordine)   una miseria architettata in un gusto tra il contadino e il piccolo-borghese. Il letto della Tate in ferro,   di   quelli   che   ancora   si   vedono   nel contado     lombardo;     sopra,     sdraiato     in     diagonale, il fantoccio raffigurante l’attrice straziata, messo insieme con paglia e gesso, parrucca, guanti da chirurgo. Segni della violenza una corta ascia nel seno, una sega nel sesso, cui si aggiunge una bambolina di celluloide, proprio all’orifizio, a significare, suppongo la gravi ­danza dell’uccisa. Intorno gli sconci resti di un baccanale cruento: sangue dappertutto (ver ­nice color corallo), e un repertorio di oggetti forse condannabili per eccesso di banalità: cornici vuote, cinture falliche, pitale rovescia ­to, cestino da rifiuti, piatti sporchi, slip, reg ­giseno, carta carbone Pelikan, matita del ros ­setto, un pollo spennato, calze, sedia Ottocento, buccia di banana. Si poteva fare di meglio. Tra l’altro si ha l’impressione che il Muehl, viennese, abbia messo insieme la stanza alla rinfusa, a braccio, con quello che trovava.

Ma perché mai, alla fine, questa stanza non suscita alcun orrore. Dobbiamo in ­tendere che si tratta di una strage « vi ­sta da un bambino »? Dissacrata da uno sguar ­do insieme superiore e infantile? Ma nem ­meno questo è vero. Intanto c’è uno sba ­glio: che senso ha scatenare traumi con un pu ­pazzo? Errore tecnicamente inverso, ma più grave di quello che portava il Muehl a fruire per la sua « azione » di un corpo vivente: dove la svista stava nel non accorgersi, ahimé, che siamo tutti dei rifiuti organici già così come siamo, senza bisogno di spalmarci i capelli di chiara d’uovo. Non c’è nessuna frittata che pos ­sa degradarci di più. E magari fosse questa cucina un raccapriccio il vero strazio di un orrore.
Maggior successo che nell’ordine dello shock, forse la poetica dell’irritarte potrebbe a mio parere conseguirlo sul tema dello squallore e del sudiciume. Ma qui nuoce al senso della mostra, con tutto il rispetto per la fatica degli organizzatori, la sede in cui essa è allestita. Per queste messinscene ci sarebbe voluto un ambiente reale addirittura in vetrocemento, tutto un avvenire tecnologico. Invece la Gal ­leria Milano è sita in una buia viuzza del cen ­tro storico più abitato, e anche all’irritarte si accede, come in genere a tutte le mostre, sul tardi, a sera già inoltrata, tra le sette e le otto. A quell’ora è già notte, a Milano. E luci fila ­mentose, al neon, sbiancano nei bar, nella rosticceria di fronte, dove si aggrappano al ban ­co al chiudersi della giornata, stracchi consu ­matori del solito espresso, della mescita o del « tosto ».

Ai letti sfatti dell’irritarte, a quelle escre ­scenze, alle gabbiette polverose alle assi, ai collages di biglietti e scontrini usati, si arriva attraverso una porticina che fiancheg ­gia il chiuso cancello di un androne, e dall’uscio, al suo misero « drin », si è costretti a spiare nella portineria, si sentono o si fiutano odori. Poi il cortile, altra porticina col vetro, e la segretaria dietro il banco sudicio. Elenchi telefonici, o residui di vecchie mostre si ammuc ­chiano nelle stanze del piano di sopra, bivacco di artisti, mercanti, critici… Dove tocchi ti sporchi, ti sgualcisci. E non si pensa a quelle mostruosità premeditate, che stingono su uno squallore vivo, indaffarato, ma al loro traffico, alla fatica di metterle insieme, di allestirle, di curare i ritagli delle recensioni. In tema di squallore difficilissimo è per l’arte competere con certe immagini della vita.
Quando esci in via Manzoni finita la visita, in cerca di un tassì, non sai che cosa ti abbia depresso di più, se il raccapriccio delle novità rivoltanti, scandalose, o una pietà decrepita, al contrario, domestica e volgare.


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2 Comments

  1. Pingback by ARTEI MAESTRI Il Garboli critico che non conosciamo | arte — 30 Giugno 2008 @ 14:52

    […] Original post by Bartolomeo Di Monaco […]

  2. Commento by Nickolas — 15 Agosto 2013 @ 23:28

    Great article.

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Bart