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LETTERATURA: I MAESTRI: Parise: l’avventura, la morte

20 Marzo 2008

di Giorgio Bárberi Squarotti

[da: “L’Orologio   d’Italia – Carlo Levi ed altri racconti”, Kursaal, 2001]


[L’autore è uno dei maggiori studiosi della letteratura italiana. Numerosi i suoi saggi su Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Tasso, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Pascoli, D’Annunzio, Pirandello, Gozzano, Sbarbaro, Ungaretti, Montale, ed altri. È anche autore di libri di poesie, tra cui “Le langhe e i sogni”. Dirige la prestigiosa collana della UTET “Classici Italiani”. Sotto la sua direzione è stato completato e pubblicato il “Grande Dizionario della Lingua Italiana”, composto da XXI volumi, sempre della UTET]


Credo che possa essere opportuno partire, piuttosto che dal primo romanzo di Parise, quello che ne fondò imme ­diatamente la fama, cioè Il ragazzo morto e le comete, da quell’ambizioso tentativo dello scrittore di raccogliere, in una salda e ben circoscritta struttura narrativa, la summa di tutti i miti letterari con cui egli avverte la necessità di fare i conti, dalla memoria dell’infanzia secondo il canone di origine fra il proustiano e lo psicoanalitico, quale fu, in Italia, fissato negli anni Trenta, alla rievocazione degli ar ­chetipi familiari, dall’avventura d’armi e agguati e ristabi ­limento della giustizia e dei valori nella storia, all’iniziazione sessuale ambiguamente percorsa fra etero-sessualità e omosessualità, dal sogno all’esperienza della morte: che sono, appunto, i motivi raccolti a comporre La grande vacanza. Già il titolo è emblematico, La vacanza  è, in qualche misura (ingente), legata con l’infanzia e con l’adolescenza, e ha come faccia opposta la scuola. Si svol ­ge necessariamente in un altrove, si tratti di montagne o di mare o di campagna, cioè sempre in uno spazio alternativo rispetto alla vita e alle esperienze quotidiane, alle conve ­nienze sociali, all’ordine della famiglia e dei rapporti. La vacanza significa letteralmente l’assenza dagli impegni consueti: il vuoto del quotidiano, che si riempie, di conse ­guenza, di tutti i possibili momenti e le progettabili o offer ­te esperienze del nuovo, dell’inesplorato, dell’intentato, del soltanto, fino a quel punto, sognato o immaginato o spera ­to. È la contenitrice dell’imprevisto (e dell’avventura di conoscenza e di esperienza che ne discende). Le regole vi sono sospese: quelle sociali, scolastiche, morali, ma anche quelle della verosimiglianza, e il possibile sostituisce il reale. In più, la vacanza di Parise è ‘grande’: cioè assoluta e, al tempo stesso, tale da poter contenere in sé tutte le forme della finzione, del mito, del sogno, dell’avventura.
È naturale che per giungere al luogo della vacanza     i necessario un viaggio: che è, in genere, nel modo più sem ­plice, nello spazio alternativo rispetto alla città di partenza, oppure nel tempo della memoria, verso l’altra alternativa dell’infanzia e dell’adolescenza. Il viaggio segna lo stacco « fra la norma e l’eccezione, fra il quotidiano e il fantastico, il sogno, l’invenzione libera dell’esistenza là dove le noi me consuete sono sospese oppure possono essere disattese (come accade all’Agostino di Moravia nella sua vacanza marina). Ma il viaggio di Claudio e della nonna verso il luogo della vacanza, Beata Tranquilla, è qualcosa di infinitamente più radicale, tanto da apparire come un viaggio assoluto, che segna un taglio definitivo, senza ritorno o, al massimo, con un ritorno in forme così mutate dentro e fuori da apparire come una nuova nascita, oppure come un rientro dal regno dei morti. L’auto del prete, guidata folle mente per strade ripide, fra boschi e dirupi, in uno spazio incommensurabile, che da il senso del carattere alternativo del luogo della vacanza e della vacanza stessa, è il moder ­no mezzo di un rapimento più che un semplice strumento di viaggio.
L’accompagnatore, poi, è di quelli che subito si possono collegare con la doppia faccia di Dio e della Mor ­te: interprete dell’uno, custode e compagno della seconda fra gli uomini. Il viaggio di Claudio e della nonna si rivela subito come un viaggio nell’ai di là rispetto alla consueta sì, ma anche a ogni esistenza immaginabile e vivibile nella dimensione degli inferi e, insieme, del sacro: ma gli uni e l’altro non riescono a configurarsi, proprio per la guida insensata dello psicagogo, se non come alieni del tutto ri ­spetto alle letterarie destinazioni che li riguardano nelle vicende analoghe immaginate e narrate nel passato. Il ri ­schio continuo di precipitare in qualche burrone fa sì che la meta non possa non apparire che precaria, incrinata e turbata dall’insensatezza della guida o da una condizione di attuale degradazione che ne renda l’attingimento un rischio già preventivamente   mostrato   ai   viaggiatori   attraverso l’allegoria del percorso inattendibile e della guida automobilistica così perigliosa e temeraria fino a sfiorare l’orlo dei precipizi, che figurano con molta evidenza l’annullamento nell’abisso, la sommersione nel mondo ctonio.
La guida delle due persone che vanno verso la vacanza è delle meno sicure, come, invece, nel mito dell’esplorazione dell’ignoto ctonio e del sacro è, all’interno della tradizione letteraria. Il prete sa la strada, ma rischia a ogni istante di perdersi, insieme con le due persone che accompagna, rovinando nei precipizi che all’orlo della via si aprono: cioè, la sua funzione di guida delle anime alla ‘vacanza’ di Beata Tranquilla, che sem ­brerebbe indicare l’approdo della beatitudine e della sere ­nità, è del tutto inattendibile e precaria, e non si risolve, anzi, nell’opposta caduta agli inferi soltanto per il gioco del caso; e agli inceri, infatti, precipita il prete con la sua auto subito dopo aver lasciato la nonna e Claudio alla loro meta, sprofondando nel fondo melmoso e assorbente della valle, da cui non potrà mai più emergere, inghiottito defini ­tivamente dal mondo di sotterra. L’arrivo nel luogo della vacanza è, insomma, l’opposto di ogni incanto di allonta ­namento dallo spazio consueto dell’esistenza, per l’attingimento dello spazio dell’avventura, della felicità naturale, dell’idillio, dell’esperienza vitale: comporta e contiene in sé, invece, il pericolo del non arrivo, della mor ­te, della negazione della vacanza stessa, e Parise insiste proprio sulla casualità dell’approdo e sul significato cupa ­mente quanto follemente ammonitorio dell’oscura figura del prete e della fine del prete stesso con il suo mezzo meccanico e tutt’altro, di conseguenza, che favoloso e lie ­ve, ma piuttosto lugubre per le condizioni di inaffidabilità di motore e carrozzeria. Il precipizio ingoia prete a auto, e chiude, così, allegoricamente, la possibilità del viaggio di ritorno. Dietro, Claudio e la nonna vedono materialmente distrutto l’unico strumento e veicolo, nonché l’unica guida, in grado di riportarli alla vita normale dopo la vacanza.
L’arrivo a Beata Tranquilla è un evento assoluto, defi ­nitivo, e allora tutta la descrizione del viaggio finisce ad avere una luce sinistra e funebre. Il viaggio verso la vacanza     è     anche     il     cammino     verso     la     morte,     e     invece dell’occasione dell’esperienza alternativa rispetto alla quotidianità, tutto è sull’orlo dell’abisso del nulla (ed è un nulla infero di mota, di inghiottimento come di un cibo umano e meccanico da parte delle potenze ctonie), e soltanto un esile discrimine separa l’attingimento della meta dalla caduta nel baratro, in cui, infatti, dopo aver sbarcato Claudio e la nonna, finisce subito il prete con l’auto. L’inizio, in somma, apre una prospettiva cupa e ambigua sulla ‘grande vacanza’     e   su   tutto   quanto   le   si   riferisce.   La   scena dell’incidente è, infatti, descritta in modo tragico e grottesco al tempo stesso:

L’automobile era arrivata alla curva: e qui successe quello che doveva succedere. Girando, le ruote scivolarono su un tratto di terreno viscido e il paraurti posteriore andò a cozzare contro un mucchio di argilla; l’argilla resistette, l’auto scattò in avanti, li sollevò sulla strada e diede inizio a una curiosa danza che faceva sbellicare dalle risa la nonna. Il parroco, aggrappato al volante, faceva ogni sforzo per alzarsi dal sedile… Il portello si conficcò per terra come una specie di pernio, l’automobile si sollevò su tutte e quattro le ruote e Claudio la vide girare su se stessa e rove ­sciarsi completamente in aria di là della siepe. Poi una specie di clangore come quello immediatamente successivo al colpo dei piatti in un’orchestra, non molto forte e sospeso. A distanza di un minuto salirono altri suoni, come una specie di stramba composizione di molle di acciaio vibranti, di soffi e sibili, tutti suoni di strumenti scordati.

La scena è giocata sulla bizzarria dei movimenti per aria e degli urti dell’auto e la figura del parroco aggrappalo al volante nel tentativo di salvarsi e uscire fuori, fra le risa ­te della nonna e la strana musica quasi futurista di molle e altri ingranaggi, come se l’auto stesse morendo con un ac ­compagnamento funebre adeguato alla sua anima meccani ­ca, ma nel modo degradato di un’orchestra di strumenti scordati, non di un intonarumori adeguato. È il segno, fin dall’inizio, del doppio registro del romanzo: ci sono gli elementi costitutivi dell’avventura, del sogno, dell’esperienza di formazione, della vacanza come mo ­mento di contestazione e di capovolgimento della norma, ma tutto avviene in un contesto degradato, ferito dall’ambiguità, dall’errore, dalla confusione, dal dissolvi ­mento della vita e delle cose; e, del resto, la nonna dice, subito dopo l’incidente, che c’era, da aspettarselo, poiché il parroco era troppo ubriaco.
Le risa della nonna fanno da contrappunto al concerto meccanico degli ingranaggi dell’auto che si disintegrano. È la prefazione adeguata al luogo dove la vacanza ha da svolgersi: Beata Tranquilla non è più’ il lussuoso albergo di un tempo, quello che la nonna ricordava o fingeva di ricor ­dare, ma una specie di ospizio per vecchi, dementi, figure deformi, fra felci scomposte e ambienti depredati dell’arredo signorile del passato, fino ai coniglietti d’angora della signorina Cleofe non ancora apparsa e alle figure di negri vestiti come paggi veneziani con gli amorini nudi che appaiono indecentemente dalle pieghe dei turbanti, dipinti nel chiostro dove la nonna e Claudio vanno a Unire: i primi allusione al grado diminuito e degradato del ­le figure della tipica avventura dì sogno e di paese delle meraviglie di Alice, onde indicare subito che Claudio non è affatto destinato a ripetere quelle vicende di esperienza del mondo della non logica, della non realtà, anche se Bea ­ta Tranquilla è pure un luogo dove la ragione non ha spa ­zio e potere; i secondi allusivi dell’ambiguità sessuale del ­le esperienze di Claudio, quella dell’infanzia con la bambi ­na in teatro, durante una festa in costume, e quella a Beata Tranquilla con un essere che si offre al ragazzo, e potrebbe essere sia femmina sia maschio, ma, in questo caso, lasci ­vamente tentatore per un vero e proprio rapporto omoses ­suale. A Claudio i «rosei amorini » appaiono «cicciosi e senza sesso ». È il preannuncio di un’esperienza equivoca, ancora irrimediabilmente infantile, che lo attende a Beata Tranquilla, dopo quella eterosessuale con la bambina in maschera, che sfiora il vero e proprio rapporto, ma, dopo, Claudio è travolto dalla vergogna per le accuse che gli vengono severamente rivolte dalla madre della bambina di averla violentata e per il timore delle punizioni familiari e sociali (ma per un momento almeno l’essere ambiguo della cantina di Beata Tranquilla sembra non essere altri che la bambina del passato carnevale).

Per Claudio la vacanza a Beata Tranquilla è, in realtà, il ritorno a un tempo passato, quando aveva sei anni: ma c’è di mezzo l’oblio quasi completo del luogo e degli aspetti e dei frequentatori di quel tempo trascorso. La memoria ha subito un iato profondo. Il romanzo di Parise inizialmente intende comunicare anche questa notizia intorno alla struttura della narrazione. Non siamo di fronte alla ricerca del tempo  perduto dell’infanzia dal punto di       vista dell’adolescente: la memoria si è oscurata, Beata Tranquil ­la non è affatto l’occasione per lo scatto del ricordo e il conseguente confronto fra il Claudio bambino e il Claudio di ora, e anche il paragone fra il luogo signorile e diverten ­te che la nonna dice essere   stata Beata Tranquilla e l’attuale decadenza è escluso, e a Claudio non resta che vedere il posto come una novità, che è poi quella di una degradazione di oggetti, ambienti e persone, di irrimediabi ­le disfacimento. L’unico ricordo che resta in Claudio è quello degli abiti dei santi esposti a Beata Tranquilla, i quali sono continuamente mutati di vestiti, e l’altro della spinetta vietata, più, tuttavia, per non evocarne fuori le mu ­siche celate, il mistero, in altre parole, dei suoni, che per ­ché il bambino le potesse causare danni. È un divieto pro ­prio di un Eden, a cui si contrappone la biancheria ambi ­gua anch’essa dei santi, come se il sacro non fosse che la buccia esterna, l’involucro, d’altra parte di per sé alquanto corrotto e corroso, di statue, cioè di materia inerte, che si cerca surrettiziamente di rendere viva e attuale e credibile, vestendola dell’esteriorità degli abiti, cioè di un abbastanza miserevole gioco di apparenze. Quelli di Claudio sono ri ­cordi «inutili », non «formativi », non usabili per crescere nell’espe-rienza del mondo. L’Eden fu lì, probabilmente: ritornare a visitarlo e a viverci la «grande vacanza » non può che portare a coglierne tutti gli aspetti di decadenza e di miseria, ospizio, com’è diventato, di vecchi e di defor ­mi, cioè di un’umanità che si va dissolvendo, esempio del ­la decrepitudine e della disgregazione degradata degli uomini e delle cose.
Nella signorina Cleofe si concentra anche visivamente il genio del luogo:

Una gobbetta allegra in prendisole verde-limone balzò fuori Borrendo dalla sala d’entrata; le saltellavano intorno quattro o cinque conigli angora, gli stessi che la sera prima erano scappati via pieni di paura in mezzo alle piante. «Voi non immaginate quanto sia felice di fare la vostra conoscenza » gorgheggiò la signorina Cleofe con un grazioso inchino. Era proiettata fuori di colpo, volando sui gradini, contorta, simile a un ometto di gom ­ma da lattanti schiacciato in un fianco.

Il personaggio è non soltanto deforme, ma anche sem ­bra artificiale, non di carne; e parla ininterrottamente, com ­piendo gesti strani e insensati (e ha anche atteggiamenti di seduzione, in seguito, impudichi, onde finisce ad apparire come l’incarnazione della femminilità a Beata Tranquilla, ma con molto di stregonesco, come un’Alcina definitiva ­mente rivelata nella sua deformità fisica, senza più il soc ­corso della magia a malgrado dei coniglietti d’angora). Analoghe sono le figure degli altri ospiti:

Passarono due vecchi, il primo completamente rapato, con la bocca piena di tabacco; il secondo sollevò in Claudio una certa infantile e ingiustificata ilarità per il suo curioso modo di cammi ­nare; pareva accucciato quasi fino a terra e camminava esatta ­mente così rasentando le erbe con il sedere… Una signora… in ­dossava un abito molto diverso dagli altri: nonostante i tagli nella seta, le sfilacciature e le coccarde di seta moire stinte e a macchie di acqua e di muffa, si poteva indovinare nell’abbondanza delle pieghe e dei merletti una grande eleganza… Aveva un braccio completamente rovesciato e muoveva il palmo della mano come se si fosse trattato del dorso: le dita si piegavano in fuori anziché in dentro e fu proprio in questo modo che raccolse da terra qualcosa: un orecchino, pareva.

È una processione di mostri, che fanno da accompagna ­tori della già alquanto mostruosa signorina Cleofe. Se Bea ­ta Tranquilla è stata un eden, ora è un giardino di Alcina senza magia, rivelato nella sua verità orribile e, insieme, ridicola e disgustosa, quanto anche paurosa: «Claudio per un istante ebbe molto freddo, sentì sul viso una corrente d’aria, di dove veniva? La signora? ». Il corsivo della domanda rimanda, con la ventata fredda sul volto di Claudio alla vecchia come alla figura della Morte: ma aneli deformata, che, con quel braccio e quella mano rivoltata raccoglie innaturalmente l’amuleto da terra, ovvero la traccia di un’eleganza e di una ricchezza che sono state cancellate; e gli abiti sì preziosi, ma laceri e coperti di muffa e bagnati alludono anch’essi a una Morte perfettamente ade ­guata all’abisso fangoso e umido in cui finisce l’auto con il parroco dentro, come se di lì la vecchia fosse venuta fuori, E successivamente il cieco signor Bortolo, che dice di es ­sere stato accecato dall’oculista, richiama la figura di Edipo, a cui abbia bucato gli occhi l”oculista’ inteso come colui che ha rivelato le verità insopportabile da vedere, a conferma del fatto che il romanzo di Parise allinea fin dall’inizio la sua galleria di miti nella luce ambigua e de ­gradata di un luogo che fu elisio ed edenico, e che ora è diventato un ospizio di vecchi e deformi, capitati lì dai miti più diversi, a recitare male le loro parti e a mettere in risal ­to la loro fisica e morale disgregazione.
Parise, insomma, popola il luogo della ‘grande vacanza’ di quelle forme e di quelle figure esemplari, ma colte ­nella loro grottesca rovina. Claudio visita il buco da cui si va a finire, come dice il contadino che incontra durante l’esplorazione, nell’inferno e dove c’è ancora, ma per poco, visibile l’auto con il parroco morto, mezzo fuori e mezzo dentro: «II buco è molto profondo, fondo, Gesù, conio l’Inferno, l’Inferno sicuro; butta su acqua ogni tanto ma niente acqua buona da bere, neanche per le bestie: sicuro, ma del resto è sempre vuoto, l’acqua torna indietro e lascia il buco tutto vuoto », dice il contadino a Claudio, e così il significato ctonio del luogo dove è finito il parroco con l’auto si chiarisce, e anche di quell’acqua di cui gli abiti della vecchia con il braccio rivoltato sono intrisi. L’acqua è maledetta, non purificatrice; e viene ben presto risucchia ­ta nell’inferno da cui è risalita alla superficie, non da una fonte, di conseguenza, ma da un fondo marcio, dove le co ­se e i corpi si dissolvono in liquidi velenosi.
L’alternativa all’ospizio che è Beata Tranquilla è la casa del contadino incontrato da Claudio sull’orlo della infernale: ma anche il mondo di questo è stregonesco ambiguo, con la porta di casa che sembra essere stata sconfitta, con il figlio Giovanni, che il padre dice di essere stato stregato da streghe che gli appendono alle bretelle “ghirlande malefiche, che lo rendono malato, e tutta una storia di tedeschi uccisi dal contadino e dai fratelli e buttati nel buco, dopo la morte dei quali sarebbero incominciate le fatture nei confronti di Giovanni. L’episodio ha venature dannunziane, dal Trionfo della Morte, anche là con un inondo contadino che ‘vede’ le streghe che vengono a succhiare il sangue del bambino; ma Parise rivolta e degrada l’allucinazione stregonesca nell’ambiguità di racconti e rivelazioni che non si capisce quanto siano veritiere e quanto, invece, siano il modo equivoco di invitare Claudio a venire in casa e a occuparsi di Giovanni, che, in seguito, apparirà coinvolto sempre nell’ambiguità fra fattura di streghe e vocazione al seminario, divenuta impossibile da seguire.
È, la casa del contadino, un’altra tappa del viaggio di Claudio fra le non meraviglie del mondo di Beata Tran ­quilla. L’esplorazione non porta a un accrescimento di co ­noscenza, ma a un’ulteriore ambiguità, quella del contadi ­no che si dice e forse non è affatto stato un comandante partigiano e quella di Giovanni stregato, con le ghirlande del male a portargli febbre e consunzione. Se il cittadino Claudio giunge a vedere e a percorrere il mondo della campagna, esso non gli appare affatto alternativo rispetto a quello della città, ma contraddittorio e vago e minaccioso esso stesso. Parise anche qui capovolge i miti letterari che ha di fronte: prima di tutto quello della primitività contadi ­na come autentica e sana e, comunque, come una faccia assolutamente diversa e opposta di esistenza, di costumi, di epifanie. Come la ‘grande vacanza’ è quella che avviene fra persone decrepite, deformi, insensate, così l’alternativa campestre e contadina è gravemente inferma per stregone ­ria o per l’oscuro rimorso non tanto di avere ucciso i tede ­schi con il badile e averli precipitati nel buco infernale, quanto per averli derubati dei denari che portavano addosso. C’è sempre un’ombra di colpa su tutti i personaggi, a cominciare da Claudio, o, piuttosto, di espiazione oscura che si deve compiere per chi sa quale infrazione o indecenza, sia che effettivamente ci sia stata oppure si tratti di qualcosa di indefinito, di misterioso (e qui si avverte, come pure ne Il ragazzo morto e le comete, la suggestione di Kafka).
Così accade che, nel ricordo, l’infanzia di Claudio si,i sotto il segno del disagio e dell’imbarazzo per quanto ha fatto con la bambina dai boccoli d’oro durante la mascherata di carnevale, pur consapevole come era della sua inferiorità sociale di fronte alla figlia di una contessa e per di più con i propri abiti in maschera del tutto inadeguati: un rapporto sessuale vero e proprio, quasi sotto gli occhi della contessa indignata, oppure soltanto un sogno di desiderio o ancora l’accettazione di un’iniziativa non richiesta e più subita che   voluta.   Il   carnevale   è   il   tempo giusto,   di ‘vacanza’ da doveri, convenienze, norme, in cui il rapporto con la bambina avviene (ma ambigua è, poi, la bambina stessa: così infantile o, in realtà, ben più matura e calcolatamente maliziosa?). Ma la sospensione delle regole in fa ­vore della mascherata non libera Claudio dal biasimo, dalla riprovazione della contessa e dei parenti, dalla condanna. La maschera è, del resto, il carattere distintivo dei perso ­naggi de La grande vacanza: gli abiti della signora quasi stracciati, ma che un tempo devono essere stati lussuosi, il prendisole della gobba signorina Cleofe, la parrucca che copre i lunghi capelli d’oro del ragazzo che cerca di sedur ­re (riuscendoci), nel sotterraneo, Claudio, la bambina mascherata della festa di carnevale, anni prima, i costumi va ­gamente settecenteschi degli uomini del sotterraneo, tutto un mondo di mascherati, ma con i segni della mascherata, festa o balletto osceno che sia o veglia funebre, ormai logori, corrosi, consunti, che stanno andando a pezzi, come a denunciare l’impossibilità, ormai, di condurre avanti la recita in costume, là dove regnano la vecchiaia, la deformi ­tà, la dissoluzione.

Il rapporto con l’essere ambiguo del sotterraneo, forse ragazzo e forse ragazza, che con malizia invita Claudio ad accertarsi del suo vero sesso,   ma poi lo respinge con qual ­che lacrima e infinte proteste, e protesta anche quando Claudio gli toglie la parrucca-maschera e ne rivela i lunghi capelli biondi, come quelli «della bambina di anni prima, riproduce specularmente quello infantile, ma ne è anche l’alternativa omosessuale, erme Claudio accetta come espe ­rienza curiosa, compreso il bacio sulla bocca e le carezze, davanti agli uomini vestiti come personaggi settecenteschi di servitori, partecipi della s«cena con risatine, approvazio ­ni, ammiccamenti equivoci,     al fine di rilevare al massimo il carattere di spettacolo di teatro della scena erotica, e di acuirne così l’ambiguità, come era anche accaduto per il rapporto con la bambina, anch’esso con spettatori, teatrale, di conseguenza, col margine di recitazione e di finzione che compete allo spettacolo di teatro. Ed è da dire, del re ­sto, che la teatralità è una dimensione costante de La gran ­de vacanza, fino all’acme costituito dallo spettacolo di tuo ­ni, fulmini, vento, pioggia,     grandine del temporale, quasi messo su dal prete per recitarvi dentro il ‘miracolo’, che è una reinterpretazione degli spettacoli che Cotrone organiz ­za e dirige nella villa degli     Scalognati ne I Giganti della Montagna di Pirandello, a     testimonianza dell’attenzione acutissima con cui Parise mette in opera il suo vasto siste ­ma di citazioni e di rifacimenti letterari.

In fondo, come uno spettacolo di danza si svolge l’incidente del parroco e della sua auto, Cleofe recita piro ­ettando la sua entrata in scena, la nonna partecipa attiva ­mente allo spettacolo con i salti di umore, i capricci, le conversazioni bizzarre e un poco enigmatiche, le alternan ­ze di giovanile arroganza e di senili lamenti La ‘vacanza’ è, insomma, una recita nell’albergo, diventato ospizio, di Beata Tranquilla: è infinta e, di conseguenza, sempre un poco sopra le righe, e Claudio vi si trova coinvolto, come in un’occasione di esperienze che non possono essere, tut ­tavia, di vita e di maturazione, perché non sono ‘vere’, ma recitate in maschera, col gusto sottile dell’inganno e con l’ambiguità della doppia funzione dei personaggi, uomini e donne e, al tempo stesso, attori. L’edifìcio, poi, così isolato, raggiunto dopo un viaggio folle e senza punti di riferi ­mento riconoscibili, sotto la guida del parroco forse ubriaco e su un’auto inaffidabile, cioè nella discrezione dell’altrui capriccio, appare come castello, ritrovo di vec ­chi, ospizio, luogo di cospirazioni, come quella dei contadini che vorrebbero riprendere le armi e andare alla caccia dei fascisti e dei tedeschi che dicono ancora essere nume rosi nei boschi e sulle montagne, con le infere viscere del sotterraneo dello spettacolo osceno del ragazzo-ragazza, zoo di coniglietti d’angora e del fenicottero del colonnello, vecchio anch’esso, vagante per i corridoi e le stanze, spor ­co, bisbetico, palcoscenico di litigi, di giochi di carte, di balletti deformi, di seduzioni, corte dei miracoli umana e animalesca, anticamera dell’inferno evocato dal contadino come quello che ha la porta d’ingresso proprio dove è ca ­duto il parroco con la sua auto. Se Claudio per una volta può pensare di avere toccato l’occasione della nuova e di ­versa iniziazione sessuale con il ragazzo-ragazza, anche questo, che dovrebbe essere il grande momento vitale, non appare altro che una recita degradata, e colui che si offre a Claudio in realtà gli si sottrae nel momento stesso, e si di ­verte con la propria ambiguità, per lasciare Claudio sospeso, insoddisfatto, come beffato dalla partecipazione lasciva e irridente degli spettatori che assistono alle effusioni dei due.
Lo stesso accade per l’altra esperienza, che Claudio pensa di potere compiere: quella dell’avventura eroica, lui che è troppo giovane per avere potuto prendere parte alla Resistenza, e sente di avere fallito l’occasione della storia. Ma anche l’impresa notturna degli ex partigiani contadini non è che una parodia di cospirazione: è agguato a chi non c’è, attraversamento di strade e di borghi per nulla perico ­losi, è cagione di limitato stupore, ci sono armi, sì, portate con grande abbondanza, ma per uno scopo che si rivela inesistente, infondato, pura fantasia di menti ancora legate a un passato ormai perduto, e ossessionate da un presente delusivo e mediocre. Non ci sono, sui monti, né fascisti né tedeschi. Non c’è per Claudio nessuna possibilità di riscat ­tare la sua tardiva nascita, con un’azione eroica. Anche l’impresa notturna finisce ad apparire una mascherata, rile ­vata dalle armi e dall’abbigliamento. È una specie di teatri ­no dell’assurdo, tale perché il tempo è sbagliato, e quello attuale non comporta più armi e armati, non riesce neppure a comprenderne il significato, se non come una sorta di bizzarro passaggio di maschere. È questo l’unico episodio in cui Claudio tenta di uscire da Beata Tranquilla, rompen ­done le dimensioni letterarie, eden in dissoluzione, Paese delle Meraviglie, Castello di Kafka, che via via sembri es ­sere, ma sempre nella prospettiva della decadenza e della degradazione, del capovolgimento di quei miti letterari e ideologici, dei personaggi che li abitarono o vi agirono, nel tempo della loro autenticità, non più ammissibile nel tem ­po moderno di dissoluzione, di abbassamento e di invilimento dei modelli e delle idee.
Se una controfigura di Dio c’è a Beata Tranquilla, è probabilmente il prete che è signore dei fulmini, durante il temporale. Ma si tratta di una specie di giocoliere, di pre ­stidigitatore, di incantatore, in questa funzione degradan ­dosi la condizione divina. Certamente kafkiana è l’insistenza sulla bizzarria degli abitanti di Beata Tranquil ­la e sulla ritualità di ciò che accade: le apparizioni della signorina Cleofe e degli altri personaggi, gli animali, i vec ­chi, il gioco di carte sempre alquanto funebre, come se la vecchia signora vi reggesse la parte della Morte che si gio ­ca i presenti. Di contro all’edifìcio in superficie c’è l’alternativa infernale del sotterraneo, con lo spettacolo osceno del ragazzo-ragazza e con gli spettatori che recita ­no la parodia di giudici infernali delle gesta e dei compor ­tamenti sessuali di Claudio e del suo partner, ma in realtà ne sono più complici e tentatori, anch’essi immersi nel gio ­co, omologo di quelli degli ospiti di sopra (che si riunisco ­no intorno a una roulette, fin troppo evidente immagine dell’aleatorietà del caso e della vita in quell’ospizio di de ­formi e di candidati alla morte, ma tenacemente legati alla loro decrepitezza). I personaggi del sotterraneo sono sicuramente esseri demoniaci, ma anche la loro parte è degradata, invilita. Il loro è un povero inferno di piccole tenta ­zioni di peccato.
Il     romanzo     si     chiude     sulla     morte     della     nonna, nell’indifferenza degli ospiti di Beata Tranquilla, perché sta per avere luogo la grande festa di settembre, che chiude trionfalmente la ‘grande vacanza’. La morte della nonna getta Claudio nel mondo, senza più nessuno. «Senza nessuno, con pochi soldi e una casa in affìtto ». In realtà, Claudio non si è impadronito dell’esperienza del mondo, dove abiterà in affìtto, non come un proprietario di luogo dove vivere. Sarà sempre un ospite, ora che ha fallito la vacanza di Beata Tranquilla, anche per la sua oscura colpa di chi capisce, sì, molto, ma sempre in modo precario e incompleto o troppo tardi, onde ciò che gli accade oppure ciò che fa non gli serve, non lo conduce a nessuna maturazione. La morte della nonna lo fa uscire a forza dall’infanzia: «Già si vedeva […] abbandonare la grande vacanza, i suoi anni giovani ». Dovrebbe esserci, a questo punto, la conclusione dell’esperienza con l’attingimento della maturità da parte di Claudio. Non è così: il protagonista di tante vicende a Beata Tranquilla, lo spettatore di tante scene di teatro della magia, dell’orrore, della licenziosità, della compresenza di Dio e dei diavoli, viene gettato senza nulla nel mondo della città. Il ritorno topico del viaggio di esperienza, che è il romanzo nella tipicità della sua struttura, avviene nella cit ­tà di partenza, ma lasciando Claudio confuso, smarrito, senza nessuna sicurezza, abbandonato alla vita dalla nonna morta. La grande vacanza è finita, ma senza nessun van ­taggio e nessuna esaltante esperienza della sospensione del tempo e della norma per potersi poi appropriare meglio dei segreti del mondo.

La ‘grande vacanza’ si conclude, per Claudio e per la signorina Cleofe, che chiede al giovane se può scendere con lui in città, mentre si sta organizzando e già, anzi, ini ­ziando la festa di Beata Tranquilla: «Già vedeva il palazzo della villeggiatura tutto pieno e scintillante di luci colorate, i palloni veneziani illuminare il cocuzzolo come un grande incendio e le ombre dei vecchi e delle vecchie girare da una finestra all’altra rigide e senza spessore simili agli spettri di una lanterna magica ». Gli abitanti di Beata Tran ­quilla appaiono agli occhi di Claudio (alla vista vera o alla mente) per quelli che sono veramente, cioè spettri;   e l’illuminazione festosa è pure quella rivelatrice della verità di larve vane che sono gli ospiti del palazzo-ospizio. La festa è una festa di morti.   La vacanza è stata quella degli inferi, allora: fra i simulacri della non vita, per decrepitez ­za o per follia o per condizione demoniaca o per incapacità di esistere attualmente e autenticamente nel presente, per la nostalgia insensata di un     altro tempo della storia e della vita stessa, a meno che, i n realtà, i contadini che furono partigiani non siano tutti morti anch’essi nel loro tempo, e adesso non siano che ombre che recitano l’avventura e l’impresa notturna. La festa è lugubre, mortuaria. La non ­na, che muore prima della, festa, finisce a rilevarne meglio la funzione: il viaggio a quello che fu il lussuoso albergo di una vacanza nel passato     non è che l’itinerario verso la morte, in mezzo a una schiera di persone che sono, in real ­tà, già morte e che per la nonna vengono a costituirsi come preparatori e aiutanti del   suo percorso verso la morte. Le uniche due persone davvero vive, Claudio e la signorina Cleofe, ripartono verso La città, rifiutandosi alla sinistra festa delle ombre. Gli incontri di Claudio si rivelano, con ­clusivamente, non altro che dialoghi e visioni di fantasmi: forse anche soltanto della memoria, come quello con la Signora che è anche la nave che Claudio bambino si è co ­struita nella prima vacanza a Beata Tranquilla, cioè è l’incarnazione dello strumento e della guida nel mare della futura esistenza, mentre gli scarponcini della Signora assu ­mono la funzione della madeleine di Proust nella rinascita del passato.

La Signora ha il deposito di storie da raccontare, di esperienze da riversare su Claudio bambino prima, e adesso adolescente, ed evoca la figura di Max il bavarese e tutte le vicende di incontri e luoghi favolosi di una geografia europea di altri tempi; e l’apparizione demoniaca, nelle parole della Signora, della «signora grassa », persecutoria e ossessiva, atroce infine, quando appare nuda, con i peli del pube lunghi fino a terra, viene a definire più chiaramente anche nel passaggio fra i due tempi di Beata Tranquilla, il segno di simbolicità e di mortuaria dissoluzione sotto cui l’intera ‘vacanza’ di Claudio è collocata; e la morte, infatti, e il diavolo e la carne repellente o deforme o sessualmente ambigua non possono certamente, per Parise, essere un’educazione alla maturità, ma, al contrario, un accumulo di irrisioni, di fallimenti, di confusioni dei sensi e della mente, di velleitarie speranze, di impossibili aspirazioni, di incomprensioni radicali, anche nei confronti dei comporta menti della nonna, che pure è l’unico legame d’affetti e di vita che rimane al ragazzo. Il vuoto del ritorno alla città si chiarisce in questa luce negativa. Il ‘castello’ ovvero l’eden non è più percorribile e sperimentabile per la matu ­razione, perché i valori vi si sono capovolti, e il demoniaco più abietto e volgare ha preso il posto del sacro, con tutta la degradazione della scena mediocre di teatro. La vacanza non ha significato affatto l’occasione di sperimentare spa ­zio e tempo alternativi alla norma della città e della socie ­tà, ma, anzi, è stata l’immersione nella degradazione del mondo, senza scopo, assurda, come ruotante su se stessa a vuoto.
Il ragazzo di quindici anni de Il ragazzo morto e le co ­mete non arriva a conoscere questa rovina, perché la morte lo arresta prima. Claudio ne è certamente la prosecuzione di esistenza e di curiosità, nell’ipotesi che il ragazzo non incontri la fucilata misteriosa, in una notte come le altre, che lo uccide. Ma il dopo, rispetto all’infanzia per Claudio e a tutta la concentrazione rapidissima di azioni, esperien ­ze, situazioni, vicende, per il ragazzo, non offre davvero che la parodia di persone, cose, eventi: ed è un grottesco sinistro, mortuario, soprattutto vano. Ne Il ragazzo morto e le comete il protagonista è privato del nome, anzi, nel tito ­lo, fin dell’esistenza: è già morto, prima ancora che il romanzo ne racconti la brevissima vita e le circostanze della stessa morte. Ciò che lo individua è il fatto di essere un ragazzo morto, dietro il quale ci sono le comete del malaugurio (o delle feste del canale, ma così cupe e funebri). Ne Il ragazzo morto, come ne La grande vacanza, lo spunto (come è stato subito detto) può essere trovato in Altre voci altre stanze di Truman Capote, dove la lunga vacanza di un ragazzo lontano dalla madre occupa buona parte della narrazione; poi si può riconoscere un dopoguerra che oscil ­la fra Vittorini e Berto (il costruttore di barche e il collo ­quio con il ragazzo morto da parte dell’amico Fiore, per quel che riguarda Conversazione in Sicilia; le compagnie dei ragazzi fra le rovine della città distrutta dai bombarda ­menti, per quello che si riferisce a Il cielo è rosso). Ma Pa ­rise tende più verso le allegorie di Vittorini che verso la Treviso rasa al suolo di Berto: in entrambi i casi, tuttavia, ne capovolge i termini e i significati, e, in ogni modo, tra ­sfigura in tale contesto altre citazioni letterarie (come quel ­la di Kafka, anzitutto).
Nel primo romanzo di Parise dominano le tenebre. È un mondo notturno, raramente attraversato da qualche luce, come per la festa del canale. Il mondo uscito fuori dalla guerra è ottenebrato. Non vi appaiono ancora luci di tempi nuovi. Gli si addice l’ombra, poiché è un mondo in rovina, un luogo infero, la chiesa è sconsacrata, le statue che la ornavano sono cadute o sbrecciate, le case sono semidi-strutte, e in esse si annidano, più che abitare, gli uomini, come i topi che vengono fuori dalle profondità ctonie dal canale, figure di un inferno nauseoso, abietto, animalesca ­mente squittente, epifanie demoniache, ma al livello più degradato e ciecamente feroce; e il canale stesso e le strade sono piene di fango fra gli scheletri delle costruzioni e i mucchi delle rovine. Il ragazzo di quindici anni non appar ­tiene a quel mondo: va a scuola e, di conseguenza, è ricco, come di lui dice all’inizio l’amico Fiore. Se scende fra il fango, le rovine, con gli amici del canale, con i gruppetti dei giardini, con Squerloz, con Antoine, e si aggira nella semidistrutta città della notte, è perché lì vuole compiere la sua scelta d’esperienza, al di fuori, per quanto è possibile, della norma, in quella specie di ‘vacanza’ che è il mondo dopo la guerra e tutti gli sconvolgimenti che ha provocalo. La sua è un’esplorazione dell’ombra: con il senso del gio ­co, al principio, poi con la consapevolezza di giocarsi la vita.

Parise, sì, accumula, ma per rapidi scorci, le vicende della vita d’infanzia e di adolescenza, ma esse appaiono come brandelli di una letteratura che si sta disfacendo in fretta, e invece dell’idea delle esperienze giovanili come di quelle decisive per l’uomo futuro e, di conseguenza, da analizzare minuziosamente, c’è quella di una storia senza significato al di là dei minimi e comuni accadimenti di gio ­co e di avventura e di irriverenza di ogni infanzia, che si pongono come fatti assoluti, perché il ragazzo è morto e non c’è futuro per lui, né educazione da compiere nel mon ­do, né maturazione. Sulla morte del ragazzo di quindici anni ruota il romanzo, e per questo l’indicazione è subito nel titolo: essa da il senso alle apparizioni dei personaggi straniti, bizzarri, un poco folli, agli atti che il ragazzo e l’amico Fiore compiono, a quanto accade ad Abramo, a Squerloz, a Primerose, a Edera, ad Antoine, a tutti gli altri. Tutto è una volta per tutte accaduto, e non ha senso per quel tempo futuro che è morto con il ragazzo. Squerloz, che si siede in riva al canale, lui che è un costruttore di barche, cioè, al tempo stesso, colui che offre lo strumento per navigare al di fuori della città di rovine, del fango, dei topi, ma illusivamente, perché le sue acque sono quelle non libere di un canale, e, insieme, il Caronte di quel fiume ctonio sulle cui rive tanta parte delle vicende del romanzo si svolge, ma incapace, in realtà, di traghettare nessuno, innamorato di animali notturni e infernali, come il gufo reale, la civetta e il topolino bianco; il padre di Abramo che si butta nel canale per uccidersi, ma viene subito ripe ­scato in modo grottesco, fra le risa e la pietà delle figlie; l’omosessuale Antoine Zeno, che rievoca Parigi, amori sfarzosi e oppressivi, tempi di raffinatezza e di lussi, un mondo dorato e un poco crudele, che, nella sua intrinseca ambiguità, getta tuttavia l’unica luce di un’alternativa rispetto alla guerra, agli stracci, alle rovine, e offre le figure del sogno e del diverso a Fiore e al ragazzo di quindici an ­ni; Primerose, la ragazzina con le gambe rattrappite, ma con il resto del corpo perfetto, che la madre pone nuda nel letto con il ragazzo; sono la popolazione di un mondo irre ­ale, senza continuità nello spazio e nel tempo, sempre con lo stesso scenario e con l’impressione che tutto quanto vi accade non sia scandito in un prima e in un poi, ma avven ­ga contemporaneamente.
Questo aspetto del romanzo è acuito dalla presenza, accanto ai vivi, dei morti, come se non avessero mai la ­sciato i loro luoghi, e appena a poco a poco perdessero consistenza, si deformassero, diminuissero di qualche parte del corpo, vincendo così il peso che ancora li trattiene nel ­lo spazio ossessivo in cui vissero. Allora si può dire che la notte dominatrice del romanzo non è che la forma visiva dell’atmosfera di morte, passata o in atto o incombente, che domina nella città in rovina e in un dopoguerra che non è l’inizio dì un futuro diverso, ma il prolungarsi di te ­nebre. Si pensi al modo in cui Parise capovolge l’esperienza infantile del sesso nel rapporto fra il ragazzo e la paralitica Primerose (che avrà, ne La grande vacanza, la continuazione nella signorina Cleofe, a segnare l’evento del sesso di un senso di angoscia, di deformità, di irregola ­rità fisica). È l’opposto delle molte avventure della memo ­ria infantile che il romanzo degli anni Trenta (e anche do ­po) ha proposto: Vittorini, Bilenchi, Pratolini, Alvaro, ecc. L’iniziazione sessuale avviene con una ragazza che è, al tempo stesso, bellissima e deforme. È il rapporto con l’estremo della grazia e l’estremo della repulsione, per di più con la madre di Primerose a fare da pronuba. Anche l’esperienza del sesso non può essere descritta che come un evento assoluto: vale in sé, come esempio di un evento di scoperta di vita che, in realtà, è l’esperienza di un mo ­stro, di un essere mezzo vivo e mezzo morto, e allora ecco che il ragazzo compie, in questo modo, un’ulteriore tappa verso il suo destino funebre. Così la grande festa del canale e del fiume, coni le barche addobbate e le luminarie, ha un che di spettrale, non diversamente dall’altra festa di Beata Tranquilla. È come una festa di morti e per i morti, e Squerloz ne è proprio al centro, come colui che dei morti è il traghettatore. La processione delle barche è un corteo funebre. Il ragazzo si inventa Ahmed, il sogno di un viag ­gio con la barca fino all’Oriente, ma, come per tutti i so ­gni, è breve fantasia di cartapesta, con luoghi di maniera e cercatori di perle altrettanto manierati, è l’inserzione di un mondo di immaginazioni infantili che suona assurda, men ­tre le barche corrono sul canale e sul fiume, nere, per una ben povera meta, e il padre di Abramo si sta scavando una buca nella stanza dove abita per mettervi dentro la barca-bara, perché ha deciso che è il giorno della sua morte (e l’identificazione della barca con la bara, di origine melvilliana, è ben significativa).
Ne Il ragazzo morto c’è il viaggio, a un certo punto, di conoscenza e di esperienza del mondo come arte e bellez ­za, quello a Venezia: «Squerloz gli aveva parlato tanto di San Marco e di Venezia che il ragazzo non seppe fare a meno di andarci ». È la meta suprema, quella che offrirebbe al ragazzo l’alternativa totale rispetto alla sua città semidistrutta, alla notte perpetua delle rovine, del canale, dei quartieri miseri e funebri in cui il ragazzo si aggira e ha amici e incontri. Ma il viaggio fallisce. Il ragazzo non vede affatto Venezia e non giunge a San Marco. Si ferma prima, in una sorta di pensione equivoca, frequentata da ballerine, a metà fra un bordello e un luogo di incontro, di transito, di breve ospitalità per persone che giungano nella città del mito, alla soglia del ‘castello’ kafkiano. Nel ‘castello’ il ragazzo non penetrerà mai, non avrà l’esperienza della di ­vina bellezza. Resta ai margini, bloccato dalla tenutaria ambigua della pensione, dalle ballerine, dalle conversazio ­ni equivoche fra seduzione e lusinghe, soprattutto dall’infermità che lo coglie. C’è una ragione intrinseca alla natura del ragazzo (la malattia, appunto), che gli impedisce di giungere a San Marco e salvarsi dalla vocazione delle tenebre e della morte. Se il ragazzo potesse vedere San Marco (il divino, il bello assoluto), potrebbe scampare al suo destino, quel senso di colpa che gli è addosso sarebbe vinto, e non dovrebbe più ritornare da Squerloz, da Antoine, dal padre di Abramo e da tutti gli altri, fra rovine e tenebre, o vi ritornerebbe così mutato da non dover più te ­mere la persecuzione, l’inseguimento, la condanna, la mor ­te. Ma la malattia lo arresta nel viaggio verso la salvezza, Dio, la luce. È il segno irrimediabile della condanna, che si porta dentro, ma che si fa evidente nel momento in cui il ragazzo è giunto in prossimità del luogo di grazia e di bel ­lezza, che significherebbe, se riuscisse a raggiungerlo, la liberazione dalle rovine della città, delle tenebre, dalla chiesa invece diroccata e sconsacrata sulla piazza intorno a cui si aggira.

Senza vedere Venezia e San Marco, il ragazzo ritorna al suo destino, che è di morire. È, la sua, una morte miste ­riosa: due colpi nella notte, che lo uccidono, senza che si sappia chi abbia sparato né perché (anche se c’è qualche oscura allusione a traffici e sottrazioni di materiali dai de ­positi degli Americani). La morte violenta è inevitabile, per quanto il ragazzo cerchi di fuggire: e tutta la parte con ­clusiva del romanzo, prima della riapparizione dopo morto, ma anche nel racconto del ragazzo morto all’amico Fiore, non è che una vana fuga, sempre nelle prospettive falsate dei muri sbrecciati, delle nicchie vuote della chiesa diroccata, fra i mucchi di macerie che descrivono passaggi e sentieri nella piazza, nelle infinite tenebre di una notte che sembra uguale e senza fine. Il ragazzo sa di essere stato condannato, misteriosamente: e allora la memoria va al destino del protagonista de Der Prozess di Kafka. La colpa è, in fondo, quella di essere. Il viaggio è fallito, quello nel ­la dimensione diversa che avrebbe potuto salvare il ragaz ­zo. In tutto quello che ha fatto c’è il senso di una fatalità di colpa che neppure è bene riconoscibile, ma che opprime. In realtà, non c’è mai stato nulla da fare, per il ragazzo. Le favole dell’infanzia e del sogno sono vane, non servono a nulla: né la splendida vita e gli abiti sfarzosi di cui parla Antoine, né il pallone su cui Antoine, Fiore e il ragazzo si immaginano di salire, figura di un’ascesa in alto, nel cielo, di una liberazione totale dalla realtà, ma inconsistente, pa ­role che i tre si raccontano per un gioco abbastanza disperato.
Dice conclusivamente il ragazzo morto a Fiore, prima di andarsene con gli altri morti, in risposta a Fiore che gli ha detto che, eppure, ci deve essere una salvezza:

Caro mio…, hai fatto male a crederci, sapevi che non era possibile. Anch’io una volta credevo in tutte quelle belle cose: il pal ­lone, i meravigliosi vestiti di Antoine, i morti che aiutano i vivi; sono tutte menzogne, credi a me. Mi hanno forse dato una mano, per tirarmi fuori dai guai? Non hanno fatto niente, proprio niente I morti sono stati gentili, ma in fin dei conti non mi hanno voluto con loro, sai cos’hanno fatto? Mi hanno mandato via: forse è gii. sto. Chi ha fatto qualcosa per me? Forse il pallone o i vestiti ti i Antoine? No, caro mio, nessuno: tutti hanno voltato la faccia dall’altra parte e mi hanno lasciato andare. L’aiuto, bell’aiuto eh? sono state due pallottole roventi dentro la testa, qui.

Dalla condanna misteriosa alla morte a quindici anni non c’è rimedio né c’è possibilità di fuga; e nessuno può dare aiuto, né i sogni dei vivi né la protezione dei morti, i quali, anzi, scacciano il ragazzo, che ha tentato di celarsi fra loro, per evitare la morte. Sarcasticamente, il ragazzo morto osserva che l’unico aiuto per uscire dalla sua condi ­zione di inseguito e condannato sono stati i due colpi di fucile nella testa: la fine, cioè, di ogni angoscia e di ogni timore della persecuzione e della morte proprio nella mor ­te, per quanto dolorosa (tanto è vero che il ragazzo si tiene sulla ferita il fazzoletto inzuppato d’acqua). A differenza de! personaggio di Kafka, il ragazzo non passa attraverso le vicende di un assurdo e burocratico processo, ed è, allo ­ra, più vicino all’altro personaggio kafkiano, quello di Amerika, che è un ragazzo di sedici anni che commette una colpa senza quasi accorgersene, e di qui deriva la cacciata dalla famiglia e dalla patria (dall’eden violato) e l’invio in America.

Ma il personaggio di Parise vede eseguita la condanna a morte, a cui nessuno lo aiuta a sfuggire. Dice il ragazzo morto a Fiore:

C’è da dir poco. È stato un brutto affare, ecco tutto, non so neanch’io com’è stato e chi sia stato, del resto non m’importa. Uno o l’altro fa lo stesso. Non si va a cercare, Fiore, chi è stato e perché mi hanno messo in questa brutta condizione, non lo si va a cercare. Non ci si guadagna nulla, si resta come si è, perché nessuno ti può aiutare quando sei così […] Sono scappato per tutta una notte fino al mattino, e sai a che cosa è servito? A niente. È inutile scappare; caro, se qualcuno ti cerca ti pesca dappertutto.

Il ragazzo morto sa che è inutile scappare di fronte al giustiziere che cerca il colpevole per eseguire la condanna. E vano cercare chi sia stato a uccidere così come chiedersi come e per opera di chi sia potuto accadere al ragazzo di essere inseguito e, alla fine, ucciso. Nel momento in cui il ragazzo è morto ed è divenuto ‘nessuno’ (come il protago ­nista del pirandelliano Uno, nessuno e centomila, ecco che può dimenticarsi nei piccoli animali del prato, nella contemplazione di lucertole, bisce d’acqua, formiche, cioè della vita che va avanti a malgrado di tutto, senza chiedersi il perché degli avvenimenti: e soltanto la neve, allora, è nemica, perché nasconde quel brulicare di esistenze che non corrono il rischio dei sogni, delle condanne metafìsi ­che, delle fughe, delle inchieste su ragioni e responsabili della morte. Non c’è nulla da conoscere, nessuna esperien ­za serve ormai più. L’infanzia dei sogni non significa nul ­la, non offre alt-ernative e soccorsi di illusioni alla condi ­zione di chi è dovuto morire. Non c’è nulla che possa esse ­re d’aiuto. La condanna del vivere è assoluta, inevitabile, inconsolabile.
Il romanzo di formazione finisce con l’estremo capo ­volgimento della struttura e dei meccanismi. La morte non è un’esperienza, è un evento assoluto; e tali, allora, finisco ­no con l’apparire tutti gli avvenimenti, esempi, non episo ­di, fatti senza sviluppo e futuro, chiusi nella loro assolutezza. Le avventure giovanili sono del tutto gratuite. L’unico ammaestramento è quello che il ragazzo morto da a Fiore, che piange sulla morte dell’amico, e ha voluto incontrarlo e vorrebbe vederlo ancora e sapere le cause di ciò che è accaduto:

«Basta, è ora che me ne vada », dice il ragazzo, stringendosi nella giacca. «Ah! Ah! Fiore, in fondo non è poi una tragedia, succede sempre così », e si stende sul capo il fazzoletto inzuppate). «Sai cosa succederà a noi? Io andrò per i fatti miei, come hanno fatto tanti altri prima di me, e tu troverai un altro amico. Certo In troverai, e questa volta non morirà così presto. Ciao, Fiore ».

Il ragazzo morto afferma che la morte non è parte di tragedia, ma un evento abituale, che ha colpito tanti altri prima di lui. È la negazione anche di questa possibile di ­mensione del romanzo. Il ragazzo se ne va, ma senza quel la vergogna che il protagonista de Der Prozess sente che sopravviverà alla sua esecuzione. Se ne va per i fatti suoi: la contemplazione, per esempio, dei piccoli animali del prato. La battuta è ironica nel senso della negazione della possibilità di trasformare il romanzo di un ragazzo di quindici anni ucciso da due colpi di fucile, di notte, mentre fugge da una persecuzione misteriosa, in una rappresentazione di tragedia della morte infantile, prima dell’esperienza del ­la vita. Ma, nel momento stesso in cui nega da sé la tragedia, il ragazzo continua ad avvolgersi intorno alla testa il fazzoletto inzuppato, per lenire il bruciore delle due pallot ­tole che gli hanno trapassato il capo.
Qui si esprime il senso supremo di dolore e di dispera ­zione, che sigla la vicenda del ragazzo di quindici anni. La morte non ha significato alcuno. Resta un avvenimento che non da origine né a inchieste, né a ricerca di motivazioni, né a rimpianti eccessivi, ma soltanto alla verifica che, di fronte a essa, non ci sono aiuti che giungano a soccorrere e a salvare. L’unico augurio che il ragazzo morto fa a Fiore e di trovarsi un altro amico, che non morirà così presto e non lo lascerà, di conseguenza, solo, ma potrà condividere so ­gni e illusioni ed esperienze per la vita futura. Il dialogo conclusivo fra Fiore e il ragazzo morto contraddice anch’esso alle istituzioni letterarie: non è una rivelazione, anzi ne è il rifiuto; non è una consolazione, anzi ne è il capovolgimento; non soccorre affatto il vivo a comprendere i meccanismi dell’esistenza e a chiarire ciò che in essa è oscuro, come la morte notturna per le due fucilate; non libe ­ra affatto Fiore dall’angoscia. Come già nel viaggio nottur ­no fra i morti, il ragazzo non reca al suo interlocutore nulla, se non un addio vuoto, desolato. Così i morti non ave ­vano affatto compiuto la loro parte, come nei modelli ome ­rico, virgiliano, dantesco, di rivelatori della verità della vita, della storia, del futuro. Anzi, avevano respinto il ra ­gazzo, non lo avevano accolto per proteggerlo, non gli ave ­vano garantito quella vita che egli aveva loro chiesto, al ­meno nella forma dell’ammaestramento e dell’illuminazione intorno ai modi di evitare i pericoli e di raggiungere il proprio futuro. Antoine ha raccontato a Fio ­re e al ragazzo il suo sogno di una giovinezza di sfarzo nel ­la sospensione della norma per il tramite dell’omosessualità e di Parigi, ma ora non restano che abiti quasi stracciati, logori, lisi, figura della corrosione di quel sogno, e c’è la vecchiaia di Antoine, che finisce a friggere pesciolini insieme con Fiore, fra il fumo e il puzzo che di ­sgustano il ragazzo   morto quando appare per l’ultima volta nel romanzo; e in fondo la giovinezza in ambienti così fa ­volosi non era stata che una lunga schiavitù, anche crudele. Parise, sia ne Il ragazzo morto e le comete, sia ne La grande vacanza, costruisce narrazioni fondate sulla reinterpretazione di luoghi letterari e miti, ma investiti da una disperazione fonda che ne mostra la capovolta faccia grot ­tesca, inferma, mortuaria, degradata. Lo scontro fra l’infanzia e l’impassibilità di esperienza e maturazione nel mondo ne è un motivo essenziale: e il risultato sono il falli ­mento, la rivelazione del nulla, la morte. Né la tragedia, né il grottesco, né 1 ‘itinerario verso il futuro di conoscenza possono più essere fatti oggetto di rappresentazione, ma la dissoluzione e la degradazione di tali strutture della narra ­zione. Il sogno neon salva dalla morte, non è un’alternativa. L’essere ragazzo e lo sperimentare la ‘grande vacanza’ non significano più nulla. Per questo ogni futuro è muto, e non c’è verità.


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Bart