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LETTERATURA: TEATRO: I MAESTRI: Alan S. Downer intervista Edward Albee

21 Marzo 2008

Il teatro straniero non è mai tradotto ma sempre “adattato” cioè falsificato al pubblico americano

[da. “Il Dramma”,   n. 2, novembre 1968]

D.: Signor Albee vorrebbe dirci qualcosa circa la sua formazione e perché ha scelto il teatro invece di un altro mezzo di espressione?

Albee: Prima di tutto devo dire che è molto simpatico e anche poco comune che uno scrittore di teatro sia chiamato a discutere sulla situazione del teatro in America. Nel nostro paese, infatti, si pensa che il teatro consista solo in edifici, attori, produttori e pubblico e non anche di scrittori. Ma ciò che lei vuole sapere è cosa mi ha spinto a scrivere opere teatrali piuttosto che altri generi letterari. Dobbiamo tornare indietro di parecchi anni. A sei anni decisi che volevo diventare uno scrit ­tore e cominciai a scrivere poesie. Questa mia decisione penso sia stata determinata dal fatto che pensavo che scrivere fosse molto più semplice che lavorare – ora so che è il contrario -. A ventisei anni mi accorsi che i miei versi erano sì migliorati negli ultimi venti anni, ma non tanto da potermi considerare un poeta. A quindici anni avevo già scritto il mio primo romanzo, e a diciassette, il secondo. Credo che si possano considerare due dei peggiori romanzi che siano mai stati scritti in America. Essendo uno di quegli scrit ­tori che io scherzosamente chiamo crea ­tivi, non credo che potrei mai scrivere dei saggi. Intanto ero arrivato alla soglia dei trent’anni ed ero ancora ben deciso a diventare uno scrittore, così non mi rimaneva altro che provare a scrivere per il teatro. Forse il fatto che la mia famiglia mi aveva mandato a teatro fin da quando avevo cinque anni, ha avuto il suo peso nella mia decisione, come pure il fatto di aver cominciato a leg ­gere testi teatrali – cosa che ben pochi fanno – a dieci, undici anni; o forse più semplicemente perché pensavo che non ci fosse altro che avrei potuto provare, o ancora altre ragioni, non so.

D.: E’ vero che lei ha detto che, sebbene come romanziere fu un fallimento, la sua prima opera tea ­trale fu subito rappresentata?

Albee: Non ho detto però, che, alla lunga, potrei rivelarmi un fallimento anche come scrittore di teatro. Tuttavia quando ho cominciato a scrivere com ­medie come un regalo per i miei trent’anni, per la prima volta nei venti ­quattro anni della mia vita di scrittore, ho avuto la piacevole sensazione di star facendo qualcosa che realmente volevo. La mia prima commedia, « The Zoo Story » fu rappresentata un anno dopo che io la scrissi, prima a Berlino Est e, dopo sei mesi, negli Stati Uniti. Da al ­lora ho scritto sette, otto, nove com ­medie – non mi ricordo quante – e tutte sono state rappresentate, ognuna con diverso successo o insuccesso, com ­merciale o di critica.

D.: E’ rimasto sorpreso che la sua prima commedia sia stata rap ­presentata in Germania, prima che negli Stati Uniti?

Albee: Forse avrei dovuto essere sor ­preso, ma quando io scrissi la mia prima commedia, non avevo idea di cosa sarebbe successo dopo. Ero total ­mente all’oscuro di ciò che accade nel mondo professionistico del teatro; così un bel giorno mi trovai a Berlino Est per assistere alla rappresentazione di « The Zoo Story » in tedesco. Fu una simpatica esperienza, e fu anche l’unica volta che assistetti alla primissima rappresentazione di un mio lavoro; da allora, le mie commedie mi colpiscono di più e mi sembra abbiano maggior significato in una lingua che non capisco piuttosto che in inglese.

D.: Le sue commedie sono state rappresentate in diversi paesi europei, non è vero?

Albee: Sì, ho assistito a delle rappresentazioni in Germania, in Cecoslovacchia e in Inghilterra; mi dispiace di aver perso quelle che sono state fatte in Giappone e in America Latina.

D.:  Pensa che le commedie straniere   arrivino   più   facilmente   di prima,     qui     in     America?

Albee:  Se si considera la produzione teatrale commerciale, ossia Broadway, la   maggior parte   vengono   importate. Comunque il successo delle commedie inglesi o francesi – specialmente francesi – è limitato, perché vengono rovi ­nate dai traduttori e dagli adattatori.

D.: Pensa che ciò dipenda da ra ­gioni economiche?

Albee:  Cosa, queste stragi letterarie?

D.: No. l’importazione, ossia una commedia ha successo in un paese quindi dovrebbe averlo anche negli altri?

Albee: Non so quale possa essere la vera ragione. Certo importare una commedia di Harold Pinter è quasi sem ­pre una buona idea, e anche se riuscis ­simo ad avere un lavoro intatto di Anouilh, ma ciò accade raramente.

D.: Queste stragi dei traduttori sono intenzionali, o sono un tentativo di adattare i testi a quello che credono sia il gusto del pub ­blico americano?

Albee: Non so quale scusa sia la più confortante. Sembra, per esempio, che le commedie di Anouilh non possano essere capite e accettate se non debitamente adattate. L’ultimo suo lavoro che è stato rappresentato in America, « Pauvre Bitos » – un’ottima commedia – non venne adattata al gusto ameri ­cano, così i critici la stroncarono. Si tratta solo di commercialismo, ecco tutto.

D.: Crede che Broadway sia il maggiore responsabile delle attuali condizioni del teatro ame ­ricano? O meglio, crede che finché il teatro resterà ancorato a Broadway e a New York non si avranno dei miglioramenti?

Albee: Non sono uno di quelli che credono che diffondere il teatro in tutto il paese possa risolvere i suoi problemi. Dopo tutto non si farebbe altro che portare ovunque il cattivo gusto di New York. Si tratta invece di rompere il circolo vizioso critica-pubblico. La mag ­gioranza dei critici teatrali più impor ­tanti pensa che – come dice Walter Kerr – il proprio dovere sia quello di riflettere ciò che essi credono sia il gusto dei propri lettori. Il pubblico, da parte sua, crede che il proprio gusto sia stato alterato dalla critica.

D.: Ma si potrebbe trovare un nuovo pubblico fuori New York?

Albee: Sì, ma questo nuovo pubblico potrebbe essere ben presto corrotto così come è avvenuto con quello di New York.

D.: Mi sembra che il pubblico più entusiasta di autori come Brecht, Genet, e lei stesso, sia costituito da giovani; che ne pensa?

Albee: Eccezion fatta per Broadway, il pubblico entusiasta è sempre costituito da giovani.

D.: Pensa che vi sia un rapporto o una analogia tra ciò che è acca ­duto nel teatro americano dopo la prima guerra mondiale – mi rife ­risco al Teatro O’Neill nel Village – e quello che sta accadendo da cinque, dieci anni a questa parte?

Albee: Certamente. Non capisco perché ciò avvenga, sempre dopo una guerra. E’ vergognoso che solo le guerre producano dei risultati. E’ vero che negli ultimi dieci anni, facendo seguito alle opere teatrali francesi scritte dopo la seconda guerra mon ­diale, vi è stato un nuovo entusiasmo verso il teatro, e molti cambiamenti siano avvenuti in seno al teatro stesso.

D.: So che lei sta lavorando con alcuni giovani scrittori, vorrebbe parlarci del teatro sperimentale che lei dirige insieme con Barr e Wilder?

Albee: Certamente. E’ molto semplice. In America, la maggior parte dei critici non si interessa al teatro sperimen ­tale, sarebbe stato quindi pericoloso esporre delle nuove e interessanti com ­medie al giudizio dei « Sei uomini morti » ; così, noi abbiamo installato un banco di prova (The Playwrights Unit) in un teatro fuori Broadway. Vi sono da trenta a quaranta giovani scrit ­tori di teatro che possono usare libera ­mente i nostri locali. Noi gli forniamo gli attori, i registi, e anche un pub ­blico, se lo desiderano.

D.: Da dove provengono questi giovani? Qual è la loro formazione?

Albee: Penso che ogni persona del Village sia uno scrittore, tutti hanno la loro commedia sotto il braccio. Forse hanno sempre vissuto al Village, ma il clima favorevole degli ultimi cinque, dieci anni, ha fatto in modo che emer ­gessero improvvisamente.

D.: Lei ha detto che i critici non amano le produzioni teatrali che si tengono fuori Broadway, ma il signor Atkinson – sebbene non sia un critico vero e proprio – ha dato il suo pieno appoggio al nuovo teatro, non è vero?

Albee: Infatti, sette, otto anni fa, a cominciare da Atkinson seguito da Watts del Post, i critici cominciarono ad interessarsi al teatro al di fuori di Broadway. Allora a Broadway si pro ­ducevano solo una diecina di commedie, ma il numero venne ad aumentare considerevolmente fino a raggiungere 240 commedie rappresentate. Così ebbe inizio la reazione. I critici, non tutti certamente, cominciarono a pensare che il teatro di avanguardia aveva avuto la sua parte di attenzione, e poi, cominciavano ad esserci fin troppe com ­medie e, di conseguenza, troppo lavoro.

D.: Lei pensa che i critici abbiano veramente una così grande in ­fluenza sul pubblico?

Albee: Certo, perché la maggioranza del pubblico si rifiuta di pensare da solo. Le faccio un esempio personale. La mia ultima commedia, « Tiny Alice » venne rappresentata in anteprima, per due settimane, in un teatro di New York, prima che la critica la vedesse. Il pubblico applaudiva o fischiava, comunque ognuno aveva la propria opinione. Venne poi rappresentata davanti alla critica. I critici scrissero che la commedia era troppo complicata, dif ­ficile e confusa per essere capita. Da allora il pubblico che venne a vedere « Tiny Alice » era confuso; e quegli stessi che prima avevano capito la com ­media, ora non capivano più. Ecco perché dico che il pubblico non pensa.

D.: Che ne pensa del movimento, ormai morto o morente, istituito da Brecht, in cui l’autore « alie ­nava », istruiva il pubblico, senza permettergli di partecipare all’azione?

Albee: Una delle cose più interessanti di Brecht scrittore di teatro è che nelle sue opere migliori l’arte trascende la teoria. Prendiamo per esempio « Madre Coraggio » e « Arturo Ui », queste commedie trascendono senz’altro la loro natura didattica. Credo che la teoria della « alienazione » sia stata male interpretata dalla maggior parte delle persone che hanno usato questo termine. Non è tentativo di alienare i pubblico, ma, se mai, un tentativo di tenere il pubblico ad una distanza sufficiente in modo tale che accadano due cose contemporaneamente: che il pubblico si mostri oggettivo su un’esperienza che sta vivendo.

D.: Si rende conto della tendenza allegorica delle sue opere?

Albee: Cerco di non accorgermi di niente, nei miei lavori. E’ pericoloso per uno scrittore, cominciare a pensare di se stesso in terza persona, esa ­minare il contenuto di ciò che ha scritto, i probabili rapporti di ciò che scrive e ciò che gli altri hanno scritto, ecc, C’è già ben poca spontaneità nel teatro e, a meno che non siate uno scrittore didattico come Brecht o Shaw, allora è meglio che non ci pensiate molto.

D.: Pensa a lungo ad una sua commedia prima di scriverla?

Albee: Sì, ma dopo averci pensato sufficientemente, lascio che sia l’inconscio a fare il lavoro maggiore. E’ solo dopo che ho ben chiari i personaggi, tanto che essi sono diventati per me delle persone viventi, che mi siedo alla mac ­china e comincio a scrivere.

D.: Le  capita  di  pensare  a due,  tre  commedie  contemporaneamente?

Albee: Di solito sì.

D.: Ha un repertorio interno?

Albee: Se una commedia fosse interamente pensata prima di scriverla a macchina, penso che nessuno ne scriverebbe mai, non ci sarebbe più alcun interesse e alcuna sorpresa, sarebbe solo un esercizio di dattilografia.

D.: Quali scrittori di teatro hanno esercitato una particolare influenza su di lei, almeno agli inizi?

Albee: Penso di essere stato influen ­zato da molte commedie, che mi siano piaciute o no. Più particolarmente penso di dovere la mia formazione teatrale a Brecht e all’ultimo O’Neill.

D.: Che ne pensa di Thornton Wilder? Il teatro europeo ne è stato largamente influenzato.

Albee: La sola cosa che penso di Wilder è che avrebbe dovuto scrivere più commedie. C’è un suo bellissimo lavoro, « L’Alcestiade », che è stato rappresentato ad Edimburgo e in Germania, ma che lui non vuole venga rappresentato in America; non capisco perché. Penso che egli sia uno scrit ­tore straordinario, uno dei nostri scrit ­tori più interessanti, anche se molti si dimenticano di includerlo nella lista dei maggiori commediografi.

D.: Forse è perché non scrìve regolarmente,  è  facile  essere  dimenticati nel mondo del teatro. Le sue commedie, signor Albee, sono state rappresentate in diversi tea ­tri europei   e   asiatici,   ha notato delle particolari differenze di me ­todo di produzione e di recitazione tra l’Europa e l’America?

Albee:  Qualche volta si sono verificati     degli     errori     di     interpretazione. « The Zoo Story » è stata recentemente rappresentata a Parigi in modo superbo. Sempre a Parigi, è stata rappresentata « The American Dream », recitata come peggio non poteva accadere in una filodrammatica di liceo. Comunque questa è stata l’unica volta che una mia com ­media non è stata capita.

D.: Ha mai pensato di scrivere per il cinema?

Albee: Certamente; sto scrivendo due sceneggiature, una da un mio dramma « La morte di Bessie Smith » e l’altra da un romanzo di Roland Topor, « Il locatario ».

D.: Ho notato che lei non ha partecipato alla riduzione cinemato ­grafica di « Virginia Woolf », come mai?

Albee: Per più di un anno e mezzo ho cercato di partecipare alla riduzione, e di fare in modo che il film fosse girato come avrei voluto, ma non ci sono riuscito, così ho lasciato perdere.

D.: Come ha potuto lasciare che altri manipolassero una sua creatura?

Albee: Mi sono convinto che il ci ­nema non è una cosa reale.

D.:  Non è reale?

Albee: No, non esiste; è molto difficile prendere sul serio il cinema ame ­ricano.

D.: E’ stato detto che il cinema ha preso il posto del teatro, è vero?

Albee: Non credo che il cinema abbia preso il posto di niente, certamente non in America. Credo che nessuno negli Stati Uniti vada a vedere un film americano e pensi di prenderlo sul serio, così come accade per la televisione.

D.: Ma i critici?

Albee: Già, ma loro sono pagati per prenderlo sul serio.


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Bart