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LETTERATURA: I MAESTRI: Ungaretti pellegrino della parola

11 Marzo 2008

di Enrico Falqui

[da: La Fiera Letteraria, giovedì 19 gennaio 1967]

Meno di tre anni fa, in America, ebbi un guaio di salute. Mi stavo crogiolando nel letto del Phelps Memorial Hospital di North Terrytown, N. Y., quando rice ­vetti la telefonata di un caro amico collega giornalista, che mi disse: « Ungaretti è qui, sa che sei all’ospedale e vuol ve ­nirti a trovare ».
« Ma è freddo e lontano e c’è la neve », obiet ­tai. « Non fraintendere, la sua visita mi sarà graditissima; ma temo sia uno strapazzo per lui! ». L’amico rise: « Ma, chi lo ferma Ungaretti? », rispose.
Non     vedevo     Ungaretti     da moltissimi anni e arrivò in un giorno in cui ero particolarmente depresso, per via di un vicino di letto, prima, e, più tardi, di camera, che mi ave ­va fatto il torto di morire la sera innanzi. Sono pessimi scherzi, questi, dei vicini di camera o di letto che muoiono quando si è all’ospedale: la lo ­ro fatica di morire è lunghis ­sima ed è sempre la testimo ­nianza più conturbante del no ­stro animale attaccamento alle apparenze, della nostra appren ­sione di trascenderle e, finalmente, del nostro interiore de ­siderio di distaccarcene; che non è più rassegnazione, ma visione di altro, e confortata speranza. Tutto ciò, se si è ma ­lati, all’ospedale, ci lascia di ­sfatti e, più che presaghi, le ­gati anche noi da sottili fili in ­visibili energie e richiami al morboso desiderio di anticipa ­re quell’esperienza, di prepa ­rarci ad essa.

Carico d’anni

Ma Ungaretti, quando arriva e comunque arrivi, anche ades ­so che appare più curvo e ca ­rico d’anni (ne ha settantotto) è un tempestoso patriarca. È uno di quei rarissimi esseri che sanno combinare insieme, e far convivere fino a età pa ­triarcali, la grazia della vec ­chiaia benedetta e fertile e quella di un’inalterabile illiba ­ta fanciullezza. È soprattutto un vivente e perciò un uomo sempre radicato nella realtà del « presente ». Per lui, ogni passato non è mai presenza nostalgica, ma – semmai – pre ­senza attiva, operante. È, in apparenza, un inquieto, sempre in moto, curioso, attivo, avido di esperienze, spregiudi ­cato, generoso e impetuoso; sempre intollerante di ciò che è o gli sembra stupido, sem ­pre rumoroso nel battersi con il prorompere dei sentimenti. Ma, qui sta il punto, ci si avvede che la sua inquietudine è tutta epidermica e che, invece,   dentro   di   sé,   è   sicuro, distaccato dalle cose stesse che gode e ama, nel momento in cui le gode e le ama. Ne conosce e ne spreme la fragilità e la gusta tutta;   ma non ha rimpianti o pentimenti, o son fugacissimi, come l’ombra dell’ala di un uccello che vola alto.  Infatti, di tanto in tanto, si appisola in un alto silenzio, in una sua inviolabile solitudine. Questo l’ho notato fin dal mio   primo   incontro     con   lui, che avvenne a Cervia, nel lontanissimo 1934, se non erro. E mi accadde di riscontrarlo nei rari (al punto che potrei, forse, contarli sulle dita) ulteriori incontri che   ebbi con lui, prima e dopo il suo ritorno dal Sud-America, dove visse a lungo e gli morì il figlietto, cui dedicò le supreme pagine del Dolore.
Se non che, come gli antichi naviganti lungo il perimetro d’Africa si sentivano abbastanza sicuri non appena avevano superato il capo di Buona Spe ­ranza; così, ora, avvicinando Ungaretti, si ha l’impressione che egli abbia superato il gran ­de capo della sapienza e navighi appunto sicuro di una pro ­pria luce e visione interiore, che rende immune la sua na ­vicella dal flagello delle onde e dallo scompiglio del caos.
Anche quel giorno in ospe ­dale, pertanto, quando mi ac ­cadde rivederlo, il suo arrivo, non solo mi commosse e con ­fortò come quello di un bene ­volo e paterno amico e di un maestro incomparabile per la mia stessa esperienza di poeta; ma perché era un mago che trasudava vitalità, giovinezza e sapienza di longevità e un vi ­gore che – andando al di là delle sue stesse esuberanze esteriori e dei suoi clamorosi atteggiamenti – mi offriva un esempio di gioia vera di esiste ­re, non corrotta, non corrompibile, sana, onesta, rugosa e forte e compatta come le corteccie e il legno di una impa ­vida quercia. Capivo che il do ­no di queste sue ricchezze interiori, l’alone da cui l’uomo le esprimeva con naturalezza, forse senza saperlo e forse sapendolo fin troppo bene (i ma ­ghi hanno una istintiva coscienza di quel che fanno), po ­tevano essere puri e reali per ­ché il colore e l’esperienza li avevano filtrati e l’uomo li aveva consumati e risolti in sé; acquisiti con coraggio ed effu ­sione e bevuti dalla viva fonte dell’emozione e del senti ­mento. Li aveva elevati, fusi, centellinati come un nettare e un’ambrosia alla schietta luce di un’intelligenza casta e ver ­gine, che tocca sempre la fre ­schezza delle cose alla loro origine; e tale la coglie, la rende, la fissa negli atti e più ancora nelle parole.
Questo è Ungaretti, uomo e poeta.
Quel giorno, in quell’ospeda ­le d’esilio, certo, mi dette tan ­ta vita che mi aiutò a guarire e, per questo, ora, tornato in patria, non posso non render ­gli grata testimonianza di que ­sta carità di uomo a uomo, di vecchio a un più giovane, di poeta a uno che si è sforzato di esserlo e spera di esserlo.

Stagione acerba

Qualche settimana dopo quella visita, tornato io a casa (era tutta di legno sul monte, aperta sul fiume, e la stagio ­ne era ancora molto acerba, sul marzo, il freddo marzo di New York), mi venne di nuo ­vo a trovare. Volli che salisse con me sulla vetta della colli ­na che allora possedevo, per fargli vedere il panorama del ­la valle dell’Hudson che, di lassù, si apre. È uno dei pa ­norami più belli e riposanti del mondo, anche se, come tut ­ti i panorami troppo vasti, può riflettere sempre un desiderio di satanico potere: « Ti darò tutte le terre che vedi sotto di te, se mi adorerai ». Il mò ­nito e il pericolo di questa fra ­se evangelica mi ricorrono sempre alla mente, tutte le volte che vedo un panorama di terre troppo vasto e troppo bel ­lo e rifletto che Hitler, a Berchtesgaden, divenne ancor più pazzo di potere, proprio perché dalla sua finestra vedeva un popolo di montagne e si sentiva soprattutto re di quel groviglio di pietre. Ma i pos ­sessi dei poeti sono di ben al ­tra natura, e il fascino della bellezza li incanta per ben altre ragioni e con ben altra co ­scienza del valore della terra e dei segreti d’amore che pos ­siede.
Poiché il viottolo era ripido e si slittava per le piogge re ­centi, una delle mie bambine pescò per Ungaretti un basto ­ne, bitorzoluto e curvo come un arco (non avevamo proprio altro) e Ungaretti salì il mon ­te, arrancando su quel legno, ma con alacre gioia. Poi sospirò, e parlò del Nord-America. Ne era entusiasta. Nei pochi me ­si trascorsi a New York, aveva capito tutto di quel difficile e paradossale Paese; in fondo, gli era congeniale. È e re ­sta un Paese di emigranti e di avventura, e Ungaretti rimane un emigrante e un uomo av ­venturoso; non mai ottusamen ­te ottimista, ma coscientemen ­te fiducioso; non mai pigra ­mente sensuale (e, probabil ­mente, non lo fu nemmeno nel ­la lontana giovinezza, anche se gli piaceva e gli piace, a vol ­te, parlar di donne favolose) ma con tutta l’attiva, umana intelligenza della dolce veste tattile delle cose in cui la no ­stra vita mortale si esprime e si illude.

Male in arnese

Così, mentre parlava, al soli ­to, focosamente gridando sulla vetta della mia collina di Shady Lane, io, male in arnese per la malattia recente benché tanto più giovane di lui, lo guardavo. Pensavo ai volti pa ­triarcali e biblici di Abramo e di Mosé. E che, sul Sinai, finché Mosé teneva alte le ma ­ni i figli d’Israele vincevano la guerra in cui erano impegnati; ma la perdevano se abbassava le mani…
Da allora, lo ritrovai in Italia.
Un giorno, m’invitò a cola ­zione. Era un Ungaretti inti ­mo, sobrio, che confida, allora, con amore, l’arte della sua sa ­pienza, non dell’acquiescenza; e rivela una generosità e un interesse cristallini, liberi per ­fino da quel tanto di teatrale e di grandioso con cui, a volte, gli piace mascherarli. I suoi occhi son sempre lucidi e sfa ­villanti, trapassati da bagliori come il fiorire delle parole, an ­che sommesse, sul lungo e ar ­ticolato taglio delle labbra sot ­tili e dal nobile volto pieno di rughe. Confida ciò che sa: uo ­mo di pena e di gioia, di disin ­ganni e di esperienza, di illu ­sioni e di sapienza, tutte im ­brigliate ormai in una sua ve ­rità; di invettive che poi son sempre atti d’amore e finisco ­no con l’essere sempre offerta d’amore.
Incontrarlo, oggi, è quasi più difficile di ieri perché, più in ­vecchia più gli piace volare lontano. I suoi fiumi non sono più quattro (l’Isonzo, il Serchio, il Nilo e la Senna) ma i fiumi del mondo: a tutti ha do ­nato qualcosa di sé, della sua fatica e della sua gagliardia di vecchio pellegrino delle parole, sempre antiche e sempre nuo ­ve, come le parole dei patriar ­chi, dei profeti e dei libri san ­ti. Dopo l’America del Nord è già tornato a visitare quella del Sud e lì tornerà in prima ­vera: col suo bastone, col suo riso, la sua voce grossa, la sua robusta carcassa di vecchio.
« Mi diverto, mi piace! », mi gridava, sere fa, davanti a una libreria di via Veneto. Aveva fame e voleva mangiare e io, invece, avevo freddo e mi ac ­cingevo ad andare a dormire. Tornandomene a casa, pensa ­vo al suo infaticabile peregri ­nare di grande vecchio e di sa ­piente, apostolo della parola e della vita (buttata, lanciata al di là della vita stessa che si vede e si tocca) e mi rimugi ­navo le sillabe di una sua me ­morabile lirica del 1916: « In agguato / in queste budella / di macerie / ore e ore / ho strascicato / la mia carcassa / usata dal fango / come una suo ­la / o come un seme di spinalba / Ungaretti uomo di pena / ti basta un’illusione / per far ­ti coraggio… ».
Quando scriveva questi ver ­si, egli certo non sapeva di dettare in essi la profezia e la segreta formula della sua mi ­rabile vita e, insieme, un do ­cumento nuovo, fondamentale e inderogabile, per chiunque cerca in ogni poeta una testi ­monianza irripetibile e universale.


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2 Comments

  1. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 11 Marzo 2008 @ 22:00

    In questa deliziosa e ricca pagina, scaturisce un’immagine di Ungaretti limpida e reale. Un Ungaretti quale lo troviamo perfettamente nelle sue composizioni. Un Ungaretti che vuol essere uomo tra gli uomini e vuol riconoscersi “una dolce fribra / dell’universo”, anche se scrive: “In nessuna parte di terra mi posso accasare”.
    Io sono personalmente “innamorato” della poesia ungarettiana. Poesia che, a mio avviso, e non solo, ha portato in modo deciso una libertà nuova nella lirica italiana, attraverso anche l’uso di una parola, lieve, rarefatta, mossa spesso da un’esigenza etica.
    Grazie all’autore, per averci presentato questa immagine del grande poeta così vera, così umana, così vicina, da sentirla ancora qui con noi.
    Gian Gabriele Benedetti

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 11 Marzo 2008 @ 23:05

    Anche a me piace molto la poesia di Ungaretti. Non per niente era nato da genitori lucchesi…

    Chi ricorda più Enrico Falqui?

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