LETTERATURA: I MAESTRI: Il canto delle sirene
26 Dicembre 2007
di Maurice Blanchot Â
[da: “Il libro a venire”, 1959]
I.
L’incontro con l’immaginario
Le Sirene: pare che cantassero, ma in un modo che non soddisfaceva, che lasciava appena intendere in quale direzione si aprissero le vere sor Âgenti e la vera felicità del canto.
Tuttavia, coi loro canti imperfetti che erano un canto ancora a venire, guidavano il navigante verso lo spazio dove il canto può cominciare veramente. Esse dunque non lo inganna Âvano, portavano davvero alla meta. Ma, raggiunto il luogo, che cosa accadeva? Che luogo era? Quello dove non restava più che sparire, perché la musica, nella regione della sorgente e dell’origine, era scomparsa essa stessa più ancora che in ogni altra parte del mondo: mare in cui, chiuse le orecchie, si immergevano i vivi e dove le Sirene (a prova della loro buona volontà ) dovettero, a loro volta, sparire un giorno.
Di quale natura era il canto delle Sirene? in che cosa consisteva il suo difetto? perché quel difetto gli dava un tale potere? Alcuni hanno sem Âpre risposto: era un canto disumano, – un rumore naturale indubbia Âmente (ve ne sono forse altri?) anche se al margine della natura, in tutti i modi estraneo all’uomo, e sommesso, tale da ridestare in lui quel pia Âcere estremo di cadere, che nelle condizioni normali della vita egli non può soddisfare. Secondo altri, l’incanto era più strano: non faceva che riprodurre il canto abituale degli uomini, e poiché le Sirene, essendo animali bellissimi per un riflesso della bellezza femminile, potevano can Âtare alla maniera degli uomini, rendevano il canto così inconsueto da in Âdurre il sospetto della non umanità di ogni canto umano. Era dunque la disperazione, a far perire gli uomini appassionati del loro proprio canto?
Una disperazione assai simile a un rapimento. C’era qualcosa di meravi Âglioso in questo canto reale, canto comune, segreto, canto semplice e quo Âtidiano, che tutto a un tratto si dava da riconoscere, cantato irrealmente da potenze remote e (diciamolo) immaginarie, canto dell’abisso: che, in Âteso una volta, apriva in ogni parola un abisso e invitava con forza a spa Ârirvi dentro.
Il canto (non è da trascurare) era rivolto a navigatori, uomini del ri Âschio e dell’attivo ardimento, ed era anch’esso un navigare: era una di stanza, e rivelava la possibilità di percorrere questa distanza, di fare del canto il movimento verso il canto, e di questo movimento l’espressione del desiderio più grande. Strana navigazione, ma verso quale meta? È stato sempre possibile pensare che tutti quelli che vi si erano avvicinati vi si erano soltanto avvicinati, e si erano perduti per impazienza, per aver affermato troppo presto: è qui; qui getterò l’ancora. Secondo altri, in Âvece, era troppo tardi: ogni volta la meta era stata oltrepassata; l’incan Âtesimo, con una promessa enigmatica, esponeva gli uomini a essere infe Âdeli a se stessi, al loro canto umano e anche all’essenza del canto, risve Âgliando la speranza e il desiderio di un al di là meraviglioso. E questo al di là rappresentava un deserto, come se la regione-madre della musica fosse stata il solo luogo privo di musica, un luogo di aridità dove il si Âlenzio, come il rumore, bruciava, in chi vi si era trovato disposto, ogni via di accesso al canto. C’era dunque un principio malvagio in questo in Âvito delle profondità ? E le Sirene, come la consuetudine ha cercato di persuaderci, erano solamente le false voci che non bisogna udire, l’in Âganno della seduzione a cui resistevano solo gli sleali e gli scaltri?
C’è sempre stato negli uomini uno sforzo poco nobile per screditare le Sirene accusandole volgarmente di menzogna: bugiarde quando can Âtavano, ingannatrici nei loro sospiri, fittizie a toccarle; completamente inesistenti, d’una inesistenza puerile che il buon senso di Ulisse bastò a sgominare.
È vero, Ulisse le ha vinte, ma in che modo? Ulisse, l’ostinazione e la prudenza di Ulisse, la sua perfidia che lo condusse a godere dello spet Âtacolo delle Sirene, senza rischio e senza accettarne le conseguenze; quel vile, mediocre e pacifico godimento, misurato come si addice a un Greco della decadenza che non meritò mai di essere l’eroe dell’Iliade; quella beata e sicura vigliaccheria, fondata del resto su un privilegio che lo po Âne fuori della condizione comune, in quanto gli altri non hanno alcun diritto alla felicità dell’«élite », ma solo al piacere di guardare il loro capo mentre si contorce in modo ridicolo, con smorfie estatiche nel vuo Âto, diritto inoltre alla soddisfazione di dominare il padrone (dovette es Âsere questa la lezione che essi ne trassero, il vero canto delle Sirene per loro): l’atteggiamento di Ulisse, la sorprendente sordità di chi è sordo perché ci sente, tanto basta per trasmettere alle Sirene una disperazione fin qui riservata agli uomini, e a fare di loro, nella disperazione, delle- bellezze reali, per una sola volta reali e degne della loro promessa, capaci dunque di sparire nella verità e nella profondità del loro canto.
Vinte le Sirene dal potere della tecnica che pretenderà sempre di gio Âcare senza rischio con le potenze irreali (ispirate), Ulisse non se ne era però liberato. Esse l’attirarono là dove egli non voleva cadere, e, nascoste dentro l’Odissea divenuta il loro sepolcro, lo impegnarono, lui e molti altri, a quella navigazione felice, infelice, che è il racconto: il canto non più immediato, ma narrato, e reso apparentemente inoffensivo, ode che si è fatta episodio.
La legge segreta del racconto. Questa non è un’allegoria. Una lotta oscura ha luogo tra ogni racconto e l’incontro delle Sirene, questo canto enigmatico, potente per difetto. Lotta in cui la prudenza di Ulisse, quel che c’è in lui di verità umana, di mistificazione, di propen Âsione ostinata a non fare il gioco degli dèi, è sempre stato utilizzato e per Âfezionato. Quel che chiamiamo romanzo è nato da questa lotta. Col ro Âmanzo, ciò che viene in primo piano è la navigazione preliminare, che conduce Ulisse al punto d’incontro. Tale navigazione è una storia tutta umana, interessa il tempo degli uomini, è legata alle loro passioni, ha real Âmente luogo ed è abbastanza ricca e varia per assorbire tutte le forze e tutta l’attenzione dei narratori. Il racconto divenuto romanzo, lungi dal Âl’impoverirsi, si fa ricchezza e allargamento di un’esplorazione che ora abbraccia l’immensità navigabile, ora circoscrive un piccolo quadrato dì spazio sul ponte, e qualche volta discende nelle viscere della nave, dove non è dato sapere che cosa sia la speranza del mare. La parola d’ordine imposta ai naviganti, è: che ogni illusione a una meta e a una destinazione sia esclusa. A ragione, certo. Nessuno può far rotta con l’intenzione de Âliberata di raggiungere l’isola di Caprea, nessuno può dirigere la prua su quell’isola, e chi avesse deciso in tal senso dovrebbe procedere a caso, un caso a cui lo lega un’intesa quasi imperscrutabile. La parola d’ordine è dunque silenzio, discrezione, oblio.
Dobbiamo riconoscere che basterebbe questa modestia predestinata, il desiderio di non tendere e di non condurre a niente, per fare di molti romanzi dei libri senza macchia e del romanzesco il più amabile dei ge Âneri, in quanto si è proposto, a forza di discrezione e di gioiosa nullità , di scordare quel che gli altri generi considerano essenziale e in tal modo degradano. Il divertimento è il suo canto profondo. Cambiare direzione di continuo, andare come a caso e sfuggendo a ogni meta, con un moto irrequieto che si trasforma in distrazione beata, tale è la sua prima e più certa giustificazione. Fare del tempo umano un gioco e del gioco un’oc Âcupazione libera, spogliata d’ogni interesse immediato e d’ogni utilità , essenzialmente superficiale e capace tuttavia, muovendosi in superficie, di assorbire tutto l’essere, non è poco. Ma se il romanzo oggi è venuto meno al suo ruolo, è chiaramente perché la tecnica ha trasformato il tem Âpo degli uomini e i loro modi di sottrarvisi.
Il racconto comincia dove il romanzo non va e tuttavia conduce, coi suoi rifiuti e la sua ricca negligenza. Il racconto è eroicamente e pretenzio Âsamente racconto di un solo episodio, come l’incontro di Ulisse col canto insufficiente e adescatore delle Sirene. In apparenza, salvo questa grande e ingenua presunzione, nulla è cambiato, e il racconto sembra formal Âmente corrispondere ancora alla vocazione narrativa ordinaria. Aurélia passa per la semplice relazione di un incontro, e così Une Saison en Enfer e Nadja. Qualche cosa è accaduto, che è stato vissuto e che poi viene nar Ârato, allo stesso modo che Ulisse ha avuto bisogno di vivere il fatto e di sopravvivere per diventare Omero che lo racconta. È vero che il rac Âconto, solitamente, è racconto di un evento eccezionale sottratto alle forme del tempo giornaliero e al mondo della verità consueta, e forse di qualsiasi verità . Per questo, con tanta insistenza, respinge tutto ciò che potrebbe avvicinarlo alla frivolezza di una finzione (il romanzo, invece, che dice solo cose credibili e familiari, vuole passare per fittizio). Dice, nel Gorgia, Platone: «Ascolta un bel racconto. Tu penserai che è una favola ma, secondo me, è un racconto. Quel che sto per dirti, te lo dirò come una verità ». E quel che racconta è la storia del Giudizio finale.
Ma non si arriva a cogliere il carattere di un racconto, se vi si vede la relazione vera di un evento eccezionale, che è stato e si cerca di riferire. Il racconto non è la relazione dell’evento, è l’evento stesso, il suo avvi Âcinarsi, il luogo dov’è chiamato a prodursi, evento ancora a venire, il cui potere di seduzione fa sì che anche il racconto possa sperare di realiz Âzarsi.
È un rapporto estremamente delicato, una specie di stravaganza, ma è questa la legge segreta del racconto. Il racconto è movimento verso un punto non soltanto oscuro, ignorato, lontano ma che, prima e fuori di questo moto, non sembra avere alcuna realtà e tuttavia è cosi imperioso che da lui solo il racconto trae la sua forza d’attrazione; e si può dire che non può «cominciare » prima averlo raggiunto, ma solo il racconto, col suo moto imprevedibile, fornisce lo spazio in cui il punto diventa rea Âle, efficace e attrattivo.
Quando Ulisse diventa Omero. Che cosa accadrebbe se in Âvece di persone distinte, che si dividono comodamente le parti, Ulisse e Omero fossero una sola e medesima presenza? se il racconto di Omero non fosse altro che il movimento compiuto da Ulisse dentro lo spazio che gli apre il Canto delle Sirene? se Omero avesse il potere di raccontare solo nella misura in cui, sotto il nome di Ulisse, un Ulisse immobilizzato ma non imbrigliato, va verso quel luogo che sembra promettergli il po Âtere di parlare e di raccontare, a condizione che egli vi si dissolva? È que Âsta una delle stranezze, una delle ambizioni del racconto: il quale non «riferisce » che se stesso, e questa relazione, nello stesso tempo in cui si fa, produce ciò che racconta, ed è possibile come relazione solo se rea Âlizza ciò che avviene in tale relazione: stringendo allora il punto o il pia Âno in cui la realtà che il racconto «descrive » può incessantemente unir Âsi alla sua realtà di racconto, garantirla ed esserne garantita.
Ma non è questa un’ingenua follia? In un certo senso, sì. Per questo non c’è racconto, e per questo i racconti non mancano.
Intendere il Canto delle Sirene significa, da Ulisse, diventare Ome Âro; ma è tuttavia solo nel racconto d’Omero che propriamente ha luogo la congiuntura in cui Ulisse diventa colui che entra in rapporto con la for Âza degli elementi e con la voce dell’abisso.
Ciò appare oscuro, e sembra evocare la difficoltà del primo uomo, se, per essere creato, ha avuto bisogno di pronunciare egli stesso, in modo tutto umano, il Fiat lux divino capace di aprirgli gli occhi.
Un tale modo di presentare le cose, le semplifica molto: dì qui la spe Âcie di complicazione artificiale o teorica che ne deriva. È vero che sol Âtanto nel libro di Melville Achab incontra Moby Dick; ma è anche vero che solo quest’incontro permette a Melville di scrivere il libro, incontro così determinante, smisurato e particolare che travalica tutti i piani nei quali si svolge, tutti i momenti in cui lo si vorrebbe collocare, e che sem Âbra aver  avuto luogo molto prima che il libro cominci; tale però da non poter avere luogo che una volta, nel futuro dell’opera e in quel mare che sarà l’opera divenuta un oceano a sua misura.
Tra Achab e la balena si svolge un dramma che possiamo dire, serven Âdoci vagamente di questo termine, metafisico; la stessa lotta che si im Âpegna tra le Sirene e Ulisse. Ciascuna di queste parti vuol essere tutto, vuol essere il mondo assoluto, rendendo impossibile il suo coesistere con l’altro mondo assoluto, mentre il più grande desiderio di ciascuno è pro Âprio incontrarsi e coesistere. Riunire in un medesimo spazio Achab e la balena, le Sirene e Ulisse, ecco il voto segreto che fa di Ulisse Omero, di Achab Melville, e del mondo che ne risulta il più grande, il più terribile e il più bello dei mondi possibili, purtroppo un libro, nient’altro che un libro.
Tra Achab e Ulisse, chi dei due ha più volontà di potenza non è il più scatenato. C’è, in Ulisse, l’ostinazione riflessa che conduce all’impero universale: la sua astuzia consiste nel potere apparentemente limitato, nella fredda e calcolata ricerca di quanto egli può ancora, di fronte al Âl’altra potenza. Se mantiene un limite e quell’intervallo tra il reale e l’im Âmaginario che proprio il Canto delle Sirene lo invita a percorrere, egli sa Ârà tutto. Il risultato è una sorta di vittoria per lui, di cupo disastro per Achab. Innegabilmente Ulisse ha inteso un poco di ciò che Achab ha visto, ma egli ha resistito dentro questa intelligenza, mentre Achab si è perduto nell’immagine: Ciò vuol dire che il primo si è rifiutato alla meta Âmorfosi in cui l’altro è penetrato ed è scomparso. Dopo la prova, Ulisse si ritrova quale era, e il mondo si ritrova forse più povero, ma più saldo e più certo. Achab non si ritrova e, per lo stesso Melville, il mondo mi Ânaccia senza fine di sprofondare in quello spazio senza mondo verso il quale lo attrae la fascinazione di una sola immagine.
La metamorfosi. Il racconto è legato a questa metamorfosi al Âla quale Ulisse e Achab fanno allusione. L’azione che il racconto rende presente è la metamorfosi su tutti i piani dove essa può arrivare. Se, per comodità – questa affermazione non è esatta – si dice che quel che fa pro Âcedere il romanzo è il tempo quotidiano, collettivo o personale, o più precisamente il desiderio di dare la parola al tempo, il  racconto ha per progredire quell’altro tempo, quell’altra navigazione che è il passaggio dal canto reale all’immaginario: quel movimento per cui il canto reale diventa, a poco a poco benché subito (e questo «a poco a poco benché subito » è il tempo stesso della metamorfosi), immaginario, canto enig Âmatico che è sempre distante, e che indica questa distanza come uno spa Âzio da percorrere, e il luogo a cui conduce come il punto dove il cantare cesserà di essere una lusinga.
Il racconto vuol percorrere questo spazio, sospinto dalla trasforma Âzione che la vuota pienezza di questo spazio esige: trasformazione che, esercitandosi in tutte le direzioni, trasforma profondamente chi scrive, ma trasforma anche il racconto stesso e tutto quel che è in gioco nel racconto dove nient’altro accade, in un certo senso, fuorché questo passaggio. Eppure, per Melville, niente è più importante dell’incontro con Moby Dick, incontro che avviene ora ed è «nello stesso tempo » sempre a venire, così che egli non cessa di andargli incontro con ricerca ostinata e disordinata: ma per il suo rapporto con le origini quell’incontro sem Âbra ricacciarlo verso la profondità del passato: esperienza sotto la cui fascinazione è vissuto, e in parte è riuscito a scrivere, Proust.
Si obbietterà che è alla «vita » di Melville, di Nerval, di Proust che ap Âpartiene anzitutto l’avvenimento di cui ci parlano. Solo perché hanno già incontrato Aurélia, urtato i lastricati disuguali, visto i tre campanili, so Âlo per questo possono mettersi a scrivere. E impiegano una grande arte per comunicarci le loro impressioni reali e, si rivelano artisti in quanto sanno trovare un equivalente – di forma, d’immagine, di storia o di pa Ârole – per farci partecipi di una visione vicina alla loro. Ma le cose non sono disgraziatamente così semplici. Tutta l’ambiguità è data dall’ambi Âguità del tempo, che qui entra in gioco e che permette di dire e di provare che l’immagine fascinatrice dell’esperienza è a un certo momento presente, quando questa presenza non appartiene a nessun presente, di Âstrugge anzi il presente in cui sembra introdursi. È vero, Ulisse navigava realmente e un giorno, a una certa data, ha incontrato il canto enigma Âtico. Egli può dire perciò: ora, proprio ora accade. Ma che cosa è acca Âduto, ora? La presenza di un canto ancora a venire. E che cosa ha tocca Âto, nel presente?  Non il fatto dell’incontro diventato presente, ma l’a Âprirsi di quel movimento infinito che è lo stesso incontro, sempre diver Âgente rispetto al luogo e al momento in cui si afferma, perché l’incontro è la divergenza  stessa, la distanza immaginaria in cui l’assenza si realiz Âza, e al termine della quale l’accaduto comincia appena ad accadere: punto in cui si compie la verità propria dell’incontro, o da cui, in ogni caso, vorrebbe avere nascita la parola che lo pronuncia.
Sempre ancora a venire, sempre già passato, sempre presente in un principio tanto repentino da mozzare il fiato, e tuttavia dispiegandosi co Âme il ritorno e il ricominciamento eterno – «Ah, – dice Goethe, – in tem Âpi una volta vissuti, tu fosti mia sorella o la mia sposa » – così è l’evento di cui il racconto dà l’approccio. Questo evento sconvolge i rapporti di tempo, ma afferma insieme il tempo, è un modo particolare, per il tem Âpo, di compiersi, tempo proprio del racconto che s’introduce nella du Ârata del narratore in modo da trasformarla, tempo delle metamorfosi dove coincidono, in una simultaneità immaginaria e sotto la forma del Âlo spazio che l’arte cerca di realizzare le differenti estasi temporali.
II.
L’esperienza di Proust
1.
Il segreto della scrittura.
Un racconto puro, può esserci? Ogni racconto, per discrezione alme Âno, cerca di dissimularsi nello spessore romanzesco.
Di questa dissimula Âzione Proust è uno dei maestri. Tutto avviene per Marcel Proust come se la navigazione immaginaria del racconto, che spinge altri scrittori nel Âl’irrealtà di uno spazio scintillante, felicemente si sovrapponesse alla na Âvigazione della sua vita reale, quella che l’ha condotto, attraverso i tra Ânelli del mondo e il lavoro del tempo distruttore, fino al punto favoloso in cui egli incontra l’evento che rende possibile ogni racconto. Non solo: questo incontro, invece che esporlo al vuoto dell’abisso, sembra fornire a lui l’unico spazio in cui il movimento della sua esistenza può essere non semplicemente compreso, ma restituito, realmente provato e realmente compiuto. Solo quando, come Ulisse, è in vista dell’isola delle Sirene e ne ascolta il canto enigmatico, tutto il suo lungo e triste vagabondare si realizza nei momenti veri che lo fanno, sebbene passato già , presente. Fortunata e stupenda coincidenza. Ma come mai può «arrivarci », se gli occorre precisamente già esserci, perché la sterile migrazione anteriore divenga il movimento reale e vero capace di condurlo a quel punto?
Il fatto è che Proust, per una confusione affascinante, trae dalle sin Âgolarità del tempo proprio del racconto (singolarità che penetrano la sua vita) quelle risorse che gli permettono anche di salvare il tempo reale. C’è nella sua opera un intrico, forse ingannevole, ma meraviglioso, di tutte le forme del tempo. Non sappiamo mai, e ben presto lui stesso non è più in grado di sapere, a quale tempo appartenga l’avvenimento evo Âcato, se quelle cose accadono solo nel mondo del racconto o se accadono perché venga il momento del racconto, a cominciare dal quale tutto l’ac Âcaduto diviene realtà e verità . Così pure, Proust, parlando del tempo e vivendo le cose di cui parla, e non potendo parlare che per mezzo di quel Âl’altro tempo che è parola in lui, mescola (mescolanza a volte intenzio Ânale, a volte di sogno) tutte le possibilità , tutte le contraddizioni, tutti i modi in cui il tempo diviene tempo. Finisce allora per vivere sul modo del tempo del racconto, e trova così nella propria vita le simultaneità ma Âgiche che gli permettono di raccontarla o almeno di riconoscere in essa il movimento di trasformazione per cui si orienta verso l’opera e verso il tempo dell’opera, dove si compirà .
I quattro tempi. Il tempo: parola unica in cui si depositano le esperienze più diverse, che ne risultano distinte, certo, con probità attenta, ma che, sovrapponendosi, si trasformano per costituire una realtà nuova e quasi sacra. Ricordiamo solo alcune di queste forme. Tempo an Âzitutto reale, distruttore, il Moloch spaventevole che produce la morte e la morte dell’oblio. (Come affidarsi a un tale tempo? come credere che ci possa condurre a qualcosa che non sia assenza di luogo e di realtà ?) Tempo anche, ma è sempre lo stesso, che con la sua azione distruttrice ci dà quel che ci toglie, e infinitamente di più, perché ci dà le cose, gli even Âti e gli esseri in una presenza irreale che li innalza al punto in cui ci com Âmuovono. Ma ciò non è ancora che la felicità dei ricordi spontanei.
Il tempo è capace di un gioco più strano. Un incidente insignificante, accaduto in un certo momento, dunque passato, dimenticato, e non solo dimenticato, ma inavvertito, eccolo riportato dal corso del tempo, e non come un ricordo, ma come un fatto reale (1) che accade di nuovo, in un nuovo momento del tempo. Così il passo inciampante nel lastricato mal squadrato del cortile di Guermantes, di colpo è – nulla di più repenti Âno – lo stesso passo che ha inciampato sulle pietre irregolari del Batti Âstero di San Marco: lo stesso passo, non «un’ombra, un’eco di sensazio Âne passata… ma quella medesima sensazione », incidente infimo, scon Âvolgente, che rompe la trama del tempo e per questa rottura ci introduce in un altro mondo: fuori del tempo, dice con precipitazione Proust. Si, egli assicura, il tempo è abolito perché, in una presa reale fuggitiva ma indiscutibile io stringo insieme l’attimo di Venezia e l’attimo di Guermantes, non un passato e un presente, ma una stessa presenza che fa coincidere in una simultaneità sensibile certi momenti incompatibili, separati dall’intero corso della durata. Ecco allora il tempo cancellato dal tempo: e la morte, che è opera del tempo, sospesa, neutralizzata, resa vana e inoffensiva. Quale istante! Un momento «liberato dall’ordine del tem Âpo » e che in me ricrea «un uomo liberato dall’ordine del tempo ».
Ma subito, con una contraddizione di cui, tanto è necessaria e fecon Âda, appena si avvede, Proust, quasi fosse una svista, dice che quel mi Ânuto fuori del tempo gli ha permesso «di ottenere, d’isolare, di immobilizzare – la durata di un lampo – ciò che non afferra mai: un po’ di tem Âpo allo stato puro ». Perché questo rovesciamento? Perché quel che è fuori del tempo mette a sua disposizione il tempo puro? Perché, grazie alla simultaneità che ha realmente ricongiunto il passo di Venezia e il passo di Guermantes, l’allora del passato e il qui del presente, come due adesso chiamati a sovrapporsi, e grazie alla congiunzione di quei due pre Âsenti che aboliscono il tempo, Proust ha fatto inoltre l’esperienza incom Âparabile, unica, dell’estasi del tempo. Vivere l’abolizione del tempo, vi Âvere questo moto rapido come il lampo per il quale due istanti infinita Âmente separati vengono (a poco a poco benché subito) uno incontro al Âl’altro, unendosi come due presenze che nella metamorfosi del desiderio sembrano identificarsi, significa percorrere tutta la realtà del tempo, e percorrendola sperimentare il tempo come spazio e luogo vuoto, cioè li Âbero dagli avvenimenti che lo riempiono sempre nella vita ordinaria. Tempo puro, senza avvenimenti, mobile vacanza, distanza agitata, spazio interiore in divenire, dove le estasi del tempo si dispongono in una simul Âtaneità affascinante, che cos’è dunque tutto questo? È proprio il tempo del racconto, il tempo che non è fuori del tempo, ma come fuori è speri Âmentato, sotto forma di uno spazio, l’immaginario spazio in cui l’arte trova e dispone le sue risorse.
Il tempo di scrivere. L’esperienza di Proust è sempre parsa mi Âsteriosa per l’importanza che egli vi attribuisce, fondata su fenomeni ai quali gli psicologi non dà nno alcun valore d’eccezione, sebbene forse quei fenomeni avessero già trasportato pericolosamente Nietzsche. Ma quali che siano le «sensazioni » che servono da cifra all’esperienza da lui descritta, ciò che la rende essenziale è il fatto che per Proust è esperien Âza di una struttura originale del tempo, riferibile (egli ne ha, ad un certo momento, netta coscienza) alla possibilità di scrivere, come se quella apertura l’avesse bruscamente introdotto nel tempo proprio del raccon Âto, senza cui egli può certo scrivere, e infatti lo fa, eppure non ha ancora incominciato a scrivere. Esperienza decisiva, che è la grande scoperta del Temps Retrouvé, il suo incontro col Canto delle Sirene, da cui egli trae, in modo apparentemente assurdo, la certezza d’essere ora uno scrittore: ma come possono, secondo la sua affermazione, quei fenomeni di remini Âscenza, per quanto felici e conturbanti, quel sapore di passato e di presen Âte che gli viene subitamente alla bocca, togliergli i dubbi che finora lo tor Âmentavano riguardo alle sue capacità letterarie? Non è assurdo, così co Âme può parere assurdo il sentimento da cui un giorno, per strada, è preso l’oscuro Roussel, e gli dà d’un tratto la gloria e la certezza della gloria? «Come nell’attimo in cui gustavo la madelaine, tutte le inquietudini sull’avvenire, ogni dubbio intellettuale si dissolvevano. Quelli che poco pri Âma mi assalivano intorno alle mie capacità letterarie, e la stessa realtà della letteratura, erano dissolti come per incanto ».
Evidentemente, quel che gli è dato a un tempo, non è soltanto l’assi Âcurazione della sua vocazione, l’affermazione dei suoi doni, ma l’essenza stessa della letteratura, toccata, sperimentata allo stato puro mentre spe Ârimenta la trasformazione del tempo in uno spazio immaginario (lo spa Âzio proprio delle immagini), in una mobile assenza, priva di eventi che la celino e di presenza che l’ostruisca, in un vuoto sempre in divenire: lon Âtananza e distanza che costituiscono il clima e il principio delle meta Âmorfosi e di quel che Proust chiama metafore dove non si tratta più di fare della psicologia, ma dove piuttosto non c’è più interiorità , perché tutto quel che è interiore vi si spiega al di fuori, vi prende la forma di un’immagine. In quwesto tempo, tutto diventa immagin, e l’essenza dell’immagine è di essere tutta fuori, senza intimità , e insieme più inac Âcessibile e più misteriosa del pensiero più riposto; senza significazione, ma tale da sollecitare la profondità di ogni senso possibile; irrivelata e tuttavia manifesta, dotata di quella presenza-assenza in cui sta l’attrattiva e la fascinazione delle Sirene.
La consapevolezza, in Proust, d’aver scoperto – egli dice, prima di scrivere – il segreto della scrittura; la sua idea d’essersi collocato, grazie ad un moto di distrazione che l’ha distolto dal corso delle cose, in quel tempo della scrittura dove il tempo stesso, invece di perdersi in eventi, pare mettersi a scrivere, sono dimostrate ancora dal suo tentativo di ri Âtrovare in altri scrittori da lui ammirati, Chateaubriand, Nerval, Baude Âlaire, analoghe esperienze. E tuttavia gli viene un dubbio, mentre crede di fare nel corso del ricevimento Guermantes una specie di esperimento alla rovescia (perché ora vedrà il tempo «esteriorizzarsi » nei volti su cui gli anni mettono il travestimento di una maschera da commedia). Gli vie Âne il pensiero doloroso che, se l’intimità trasformata del tempo l’ha po Âsto in grado di entrare in un contatto decisivo con l’essenza della lette Âratura, il tempo distruttore, di cui contempla il formidabile potere d’al Âterazione, lo espone a un rischio ancora più costante, quello di vedersi sottrarre, da un momento all’altro, il «tempo » di scrivere.
Dubbio patetico che egli non approfondisce; perché di questa morte in cui scopre all’improvviso il principale ostacolo al compimento del suo libro, e di cui sa che non si trova solo al termine della sua vita, ma agisce in tutte le intermittenze della sua persona, Proust evita di domandarsi se non sia anche al centro di quell’immaginazione che egli chiama divina. E noi stessi passiamo a un altro dubbio, a un altro interrogativo che tocca le condizioni nelle quali si è compiuta l’esperienza importantissima a cui è legata l’intera opera. Dove si è prodotta questa esperien Âza? In quale «tempo »? In quale mondo? E chi l’ha provata? Proust, il Proust reale, il figlio di Adrien Proust? O Proust già diventato scrittore, intento a raccontare nei quindici volumi della sua opera grandiosa, co Âme la sua vocazione si è progressivamente formata, grazie a una matura Âzione che del fanciullo angosciato, senza volontà e dotato di una sensi Âbilità singolare, ha fatto l’uomo strano, energicamente concentrato, rac Âcolto su quella penna a cui tutto ciò che gli rimane di vita, e d’infanzia serbata, si comunica? Niente affatto, lo sappiamo. Nessuno di questi Proust è in causa. Lo proverebbero le date, se fossero necessarie, perché la rivelazione alla quale Le Temps Retrouvé allude come al fatto deci Âsivo che metterà in moto l’opera non ancora scritta, avviene, nel libro, durante la guerra, a un’epoca in cui Swann è già pubblicato e una gran parte dell’opera è composta. Allora Proust non dice la verità ? Ma è una verità che egli non ci deve e che sarebbe incapace di dirci. Egli non po Âtrebbe esprimerla, renderla reale, concreta, vera, se non proiettandola nel tempo stesso di cui è l’attuazione, da cui l’opera riceve la sua necessi Âtà : tempo del racconto dove, sebbene dica «Io », non è più il Proust rea Âle né il Proust scrittore a poter parlare, ma la loro metamorfosi in quel Âl’ombra che è il narratore divenuto personaggio » del libro, il quale nel racconto scrive un racconto che è l’opera stessa stessa e produce a sua volta le altre metamorfosi di se stesso che sono i diversi «Io » di cui narra le esperienze. Proust è divenuto inafferrabile, perché è inseparabile da questa quadruplice metamorfosi, la quale non è altro che il muoversi del libro verso l’opera. E, ugualmente, l’evento da lui descritto non è solo l’even Âto che si produce nel mondo del racconto, in questa società Guermantes vera soltanto per la sua finzione, ma evento ed avvento del racconto stes Âso e realizzazione nel racconto, di quel tempo originale del racconto di cui egli cristallizza la struttura fascinatrice: con un potere che in un me Âdesimo punto favoloso fa coincidere presente, passato e anche, quantun Âque Proust sembri trascurarlo, l’avvenire, perché in quel punto tutto l’avvenire dell’opera è presente, è dato con la letteratura.
Subito benché a poco a poco. Occorre precisare che l’opera di Proust è molto diversa dal Bildungsroman col quale si può essere ten Âtati di confonderla. Senza dubbio i quindici volumi della Recherche non fanno che descrivere come si è formato colui che scrive i quindici volumi, e illustrano le peripezie della sua vocazione. «Così tutta la mia vita fino a quel giorno avrebbe potuto e non avrebbe potuto essere riassunta sotto questo titolo: una vocazione. Non l’avrebbe potuto nel senso che la letteratura non aveva avuto alcuna parte nella mia vita. Avrebbe potuto perché questa vita, i ricordi delle sue tristezze e delle sue gioie, for Âmavano una riserva simile all’albume che si cela nell’ovulo delle piante, in cui questo attinge il proprio nutrimento per trasformarsi in seme… » Ma attenendosi strettamente a questa interpretazione, si trascura quel che per Proust è l’essenziale: la rivelazione per cui, in un sol colpo, subi Âto benché a poco a poco, attraverso la presa d’un tempo differente, egli è introdotto nell’intimità trasformata del tempo, dove dispone del tempo puro come principio delle metamorfosi e dell’immaginario come spazio che è già la realtà del potere di scrivere.
Occorre certo tutto il tempo della vita di Proust, tutto il tempo della navigazione reale, perché egli arrivi al momento unico col quale ha ini Âzio la navigazione immaginaria dell’opera e che, nell’opera, segnando il vertice dove essa mette capo e ha fine, segna anche il punto di depres Âsione dove colui che risulta scriverla la deve ora intraprendere, di fronte al nulla che lo chiama e alla morte che già devasta il suo spirito e la sua memoria. Ci vuole tutto il tempo reale per giungere a questo movimento irreale, ma, sebbene ci sia un rapporto che pare inafferrabile, che co Âmunque Proust rinuncia ad afferrare, tra le due forme di divenire, egli afferma pure che questa rivelazione non è l’effetto necessario di uno svi Âluppo progressivo: essa ha l’irregolarità del caso, la forza graziosa di un dono immeritato che non sta affatto a ricompensare un lungo e saggio lavoro di approfondimento. Le Temps Retrouvé è la storia di una voca Âzione che deve tutto alla durata, ma le deve tutto solo per esserle bru Âscamente, con un salto imprevedibile, sfuggita, trovando il punto in cui l’intimità pura del tempo divenuta spazio immaginario offre a tutte le cose quella «unità trasparente » dove, «perdendo il loro primo aspetto di cose », esse possono venire a «collocarsi le une accanto alle altre in una specie d’ordine, penetrate della stessa luce… » «convertite in una me Âdesima sostanza, dalle vaste superfici di splendore monotono. Nessuna impurità è rimasta. Le superfici sono divenute rispecchianti. Tutte le cose vi si dipingono, ma per riflesso, senza alterarne la sostanza omoge Ânea. Tutto ciò che era diverso è stato convertito e assorbito ». (2)
L’esperienza del tempo immaginario che Proust ha fatta non può av Âvenire che in un tempo immaginario e facendo di colui che vi si espone un essere immaginario, un’immagine errante, sempre là , sempre assen Âte, fissa e convulsiva, come la bellezza di cui ha parlato André Breton. Metamorfosi del tempo, essa trasforma anzitutto il presente in cui sem Âbra prodursi, attirandolo nella profondità indefinita dove il «presente » ricomincia il «passato » ma ove il passato si apre al futuro che ripete, perché quello che viene sempre di nuovo e di nuovo ritorni. Certo, la rivelazione ha luogo ora, qui, per a prima volta, ma l’immagine che ci è presente qui e per la prima volta, è presenza di un «già altra volta », e quel che ci rivela è che «adesso » è «una volta », e qui un altro luogo ancora, un luogo sempre altro dove chi credesse di poter tranquillamen Âte assistere dal di fuori alla trasformazione, può trasformarla in potere solo a condizione di lasciarsene trarre fuori di se stesso e trascinare nel movimento in cui una parte di se stesso, anzitutto la mano che scrive, di Âventa come immaginaria.
Proust, con decisione energica, ha tentato di fare, di questo slitta Âmento, un moto di resurrezione del passato. Ma che cosa ha ricostituito? che cosa ha salvato? Il passato immaginario di un essere già tutto imma Âginario e da lui separato da tutta una serie vacillante e sfuggente di «Io » che a poco a poco l’hanno spogliato di sé, sciolto anche dal passato e, in virtù di questo sacrificio eroico, l’hanno messo a disposizione dell’im Âmaginario di cui allora ha potuto disporre.
Il richiamo dell’ignoto. Tuttavia egli non ha voluto ricono Âscere che questo moto vertiginoso non sopporta pausa né riposo e che quando sembra fissarsi sopra un certo istante del passato reale e unirlo con un rapporto d’identità scintillante ad un certo istante presente, lo fa altresì per attrarre il presente fuori del presente e il passato fuori del Âla sua realtà determinata in quanto ci trascina, con questo rapporto aper Âto, sempre più lontano, in tutte le direzioni, gettandoci nella lontanan Âza e gettando a noi la lontananza in cui tutto è sempre dato, tutto è ri Âtirato, incessantemente. Eppure, una volta almeno, Proust si è trovato davanti a questo richiamo dell’ignoto, quando, davanti ai tre alberi che sta guardando senza riuscire a metterli in relazione con l’impressione o il ricordo che sente prossimi a risvegliarsi, entra nella stranezza di ciò che non potrà mai riafferrare, che pure è li, in lui, intorno a lui, ma che egli raccoglie solo con un moto infinito d’ignoranza. Qui, la comunica Âzione resta incompiuta, aperta, deludente e angosciosa per lui, ma pro Âprio allora, forse, meno ingannevole di ogni altra, più vicina all’esigenza di ogni comunicazione.
2.
La stupenda pazienza.
L’abbozzo di libro pubblicato col titolo di Jean Santeuil conteneva, è stato osservato, un racconto paragonabile al racconto dell’esperienza finale del Temps Retrouvé. Tanto grande è il bisogno di dare un luogo a quel che non può averne uno, che ci si vide il prototipo dell’avvenimen Âto quale fu realmente vissuto da Proust, figlio di Adrien Proust. Esso eb Âbe luogo dunque non lontano dal lago di Ginevra, che all’estremità dei campi Jean Santeuil scorse, all’improvviso, durante una noiosa passeg Âgiata, riconoscendo in esso con un impeto di felicità , il mare di Bergmeil presso il quale aveva un tempo soggiornato, e che era allora per lui uno spettacolo del tutto indifferente. Jean Santeuil s’interroga intorno a que Âsta felicità nuova. Non ci vede il semplice piacere di un ricordo sponta Âneo, perché non si tratta di un ricordo, ma della «trasmutazione del ri Âcordo in una realtà direttamente sentita ». Egli conclude di trovarsi di Ânanzi a qualche cosa di molto importante, una comunicazione che non è quella del presente né del passato, ma il sorgere dell’immaginazione, il cui campo si colloca fra l’uno e l’altro; e decide di non scrivere più, d’o Âra in poi, che per fare rivivere istanti simili o per rispondere all’ispira Âzione che gli è data da quel moto di gioia.
E ciò è davvero impressionante. Quasi tutta l’esperienza del Temps Perdu si ritrova qui: il fenomeno di reminiscenza, la metamorfosi an Ânunciata (trasmutazione del passato in presente), la sensazione di tro Âvarsi di fronte a una porta aperta sul campo proprio all’immaginazione, e infine la risoluzione di scrivere alla luce di quegli istanti e per resti Âtuirli alla luce.
Ci si può dunque ingenuamente chiedere: come mai Proust, che fin da quell’istante ha la chiave dell’arte, si limita a scrivere Jean Santeuil e non la sua opera vera – e, in questo senso, continua a non scrivere? La risposta non può essere che ingenua. Essa sta in quell’abbozzo che Proust, così desideroso di far dei libri e d’essere considerato scrittore, non esita a rifiutare, a dimenticare anzi, come se non ci fosse stato; allo stesso modo che egli presente che l’esperienza di cui parla, finché non l’ab Âbia attratto nell’infinito del movimento che essa è, non è ancora avvenu Âta. Jean Santeuil è forse più vicino al Proust reale, quando egli lo scrive, di quel che sarà il narratore del Temps Perdu, ma questa vicinanza è solo il segno che egli resta alla superficie della sfera e non si è veramente impe Âgnato nel nuovo tempo, intravisto nel balenare di una sensazione oscil Âlante. Perciò scrive, ma sono soprattutto Saint-Simon, La Bruyère, Flaubert che scrivono al suo posto, o il Proust uomo di cultura, che si appog Âgia, com’è necessario, all’arte degli scrittori che l’hanno preceduto, inve Âce di abbandonarsi, a suo rischio e pericolo, alla trasformazione che è ri Âchiesta dall’immaginario e che deve toccare anzitutto il suo linguaggio.
Il fallimento del racconto puro. Ma questa pagina di Jean Santeuil e questo libro ci insegnano un’altra cosa. Proust sembra conce Âpire allora un’arte più pura, concentrata sui soli istanti, senza riempitivi, senza ricorso ai ricordi volontari né alle verità d’ordine generale forma Âte o riprese dall’intelligenza, alle quali più tardi crederà aver fatto largo posto nella sua opera: insomma un racconto «puro », che sarebbe fat Âto dei soli punti da cui trae origine, come un cielo dove, al di fuori delle stelle, non ci fosse che il vuoto. La pagina di Jean Santeuil che abbiamo analizzato, quasi l’afferma: «Perché il piacere che essa [l’immaginazio Âne] ci dà , è un segno della superiorità su cui feci tanto conto da non scri Âvere niente di quanto vedevo, di quanto pensavo, ragionavo, ricorda Âvo, da non scrivere che quando un passato risalisse improvviso in un odore, in una visione che lo rendesse manifesto, e al di sopra del quale palpitasse l’immaginazione, e quando mi fosse data ispirazione da questa gioia ». Proust vuole scrivere unicamente per rispondere all’ispirazione, e l’ispirazione gli viene dalla gioia prodotta dai fenomeni di reminiscenza. La gioia che lo ispira è anche, secondo lui, segno dell’importanza di quei fenomeni, del loro valore essenziale, segno che in essi l’immagina Âzione si annuncia e coglie l’essenza della nostra vita. La gioia che gli dà il potere di scrivere non l’autorizza dunque a scrivere qualsiasi cosa, ma solo a comunicare tali istanti di gioia e la verità che palpita dietro tali istanti.
L’arte a cui tende qui non può essere fatta che di momenti brevi: la gioia è istantanea, e gli istanti che fa valere non sono che istanti. Fedel Âtà alle impressioni pure, è quel che Proust esige allora dalla letteratura romanzesca, senza limitarsi però alle certezze dell’impressionismo abi Âtuale, perché non vuole abbandonarsi che a talune impressioni privile Âgiate, quelle in cui, per il ritorno della sensazione anteriore, l’immagi Ânazione si mette in moto. E tuttavia l’impressionismo, da lui ammirato nelle altre arti, gli si offre come un esempio. Resta soprattutto la sua vo Âlontà di scrivere un libro che escluda tutto quanto non sia istanti essen Âziali (ciò che in parte conferma la tesi del Feuillerat, secondo cui la versio Âne iniziale dell’opera comprendeva assai meno sviluppi e dissertazioni psicologiche facendo appello a un’arte che avrebbe chiesto le sue risorse solo all’incanto momentaneo dei ricordi involontari). Proust, con Jean Santeuil, sperava certamente di scrivere un tal libro. Ce lo dice una frase tratta dal manoscritto e che è stata collocata in limite: «Posso chiamare Âromanzo questo libro? È forse meno e molto di più, l’essenza della mia vita raccolta senza mescolarci niente altro, nelle ore di lacerazione in cui scorre. Il libro non è mai stato fatto, è stato raccolto ». Ciascuna parola qui corrisponde alla concezione proposta dalla pagina di Jean Santeuil. Racconto puro perché «senza mescolanza », senz’altra materia che l’es Âsenziale, l’essenza che si comunica alla scrittura negli istanti privilegiati in cui si lacera la superficie convenzionale dell’essere, e Proust, con uno scrupolo di spontaneità che fa pensare alla scrittura automatica, preten Âde di escludere tutto ciò che del suo libro farebbe il risultato di un lavo Âro: non sarà un prodotto letterario abilmente confezionato ma un’opera ricevuta in dono, venuta da lui, non prodotta da lui.
Ma Jean Santeuil corrisponde a questo ideale? Niente affatto, e for Âse tanto meno quanto più cerca di corrispondergli. Da una parte, con Âtinua a dare il più largo spazio al materiale romanzesco abituale, scene, figure, osservazioni generali che l’arte del memorialista (Saint-Simon) e l’arte del moralista (La Bruyère) l’invitano a trarre dalla sua esistenza, quella che l’ha condotto al liceo e nei salotti, ha fatto di lui un testimo Âne dell’affare Dreyfus, ecc. Ma, d’altro canto, egli chiaramente cerca di evitare l’unità esteriore «già fatta » di una storia, pensando così di es Âsere fedele alla sua concezione. L’aspetto spezzettato del libro non è do Âvuto solo al fatto che abbiamo a che fare con un libro non montato: quei frammenti dove appaiono, scompaiono i personaggi, dove le scene non cercano di legarsi fra loro, riflettono il proposito d’evitare l’impuro di Âscorso romanzesco. E poi, qua e là , certe pagine «poetiche », riflessi di quegli istanti incantati a cui Proust vuole, almeno fugacemente, avvici Ânarci.
Una cosa ci colpisce nel fallimento di questo libro: avendo cercato di renderci sensibili a certi «istanti », Proust li ha dipinti come delle sce Âne, e invece di cogliere gli esseri nel loro apparire, ha fatto tutto il con Âtrario: dei ritratti. Ma soprattutto: se volessimo in poche parole distin Âguere quest’abbozzo dall’opera che gli ha fatto seguito, potremmo dire che Jean Santeuil, per farci sentire che la vita è fatta d’ore staccate, ri Âcorre a una concezione frammentaria in cui il vuoto non prende figura, ma resta vuoto, mentre La Recherche, opera massiccia, ininterrotta, ar Âriva ad aggiungere ai punti stellati il vuoto come pienezza, facendo, questa volta, mirabilmente scintillare le stelle, non più private dell’immen Âsità del vuoto dello spazio. Così, per mezzo della continuità più densa e più sostanziale, l’opera riesce a rappresentare ciò che vi è di più disconti Ânuo, l’intermittenza di quegli istanti luminosi che dà nno a Proust la pos Âsibilità di scrivere.
Lo spazio dell’opera, la sfera. Perché questo? A che cosa si deve questa riuscita? Si può dire, anche qui, in poche parole: Proust – e tale è stata, pare, la sua penetrazione progressiva dell’esperienza – ha intuito che quegli istanti in cui brilla per lui l’intemporale, tuttavia esprimevano, con l’affermazione di un ritorno, gli intimi moti della me Âtamorfosi del tempo, erano il «tempo puro ». Egli scopriva allora che lo spazio dell’opera, – portatore simultaneamente di tutti i poteri della du Ârata, e costituito, d’altra parte, dal muoversi dell’opera verso se stessa e dalla ricerca autentica della sua origine, luogo dunque dell’immaginario, – egli scopriva a poco a poco che lo spazio di una tale opera doveva avvi Âcinarsi, se possiamo qui contentarci d’una figura, all’essenza della sfera; e infatti tutto il suo libro, il suo linguaggio, quello stile fatto di lente cur Âvature, di fluida pesantezza, di densità trasparente, in movimento inces Âsante, meravigliosamente fatto per esprimere il ritmo infinitamente va Ârio della rotazione dei volumi, figura il mistero e lo spessore della sfera, il suo moto di rotazione, con l’alto e il basso, il suo emisfero celeste (paradiso dell’infanzia, paradiso degli istanti essenziali) e il suo emisfero infernale (Sodoma e Gomorra, il tempo distruttore, il denudamento di tutte le illusioni e di tutte le false consolazioni umane), ma duplice emi Âsfero che ad un certo momento si capovolge, abbassando quel che era in alto e dando all’inferno, e allo stesso nichilismo del tempo, la possi Âbilità di divenire a loro volta benefici e di esaltarsi in pure folgorazioni di felicità .
Proust scopre che gli istanti privilegiati non sono dei punti immo Âbili, una sola volta reali, tali da dover essere raffigurati come un’unica, fuggitiva evanescenza; ma che dalla superficie della sfera al suo centro passano e ripassano, volti, in modo incessante anche se intermittente, verso l’intimità della loro vera realizzazione, procedendo dalla irrealtà alla profondità nascosta, che raggiungono quando è raggiunto il centro immaginario e segreto della sfera: la quale, a partire di qui, sembra rige Ânerarsi nel momento che è compiuta. Proust ha, inoltre, scoperto la leg Âge di sviluppo della sua opera: l’esigenza d’ispessimento, d’ingrandi Âmento sferico, il suo sovrabbondare e, come egli dice, la supernutrizione che essa esige e che gli permette d’introdurre i materiali più «impuri », quelle «verità relative alle passioni, ai caratteri, ai costumi », che però non introduce come «verità », affermazioni stabili e immote, ma, anche esse, come qualcosa che non finisce mai di svilupparsi, di progredire at Âtraverso un lento moto d’inviluppamento. Canto dei possibili, che infa Âticabilmente gira in cerchi via via più vicini attorno al punto centrale, il quale deve andare oltre ogni possibilità , essendo l’unicamente e sovranamente reale, l’istante (ma l’istante che è a sua volta la condensazione di tutta la sfera).
In questo senso, il Feuillerat, quando pensa che le progressive ag Âgiunte («dissertazioni psicologiche », commenti intellettuali) avrebbero gravemente alterato il primitivo proposito di scrivere un romanzo d’i Âstanti poetici, pensa quel che ingenuamente pensava Jean Santeuil, ma disconosce il segreto della maturità di Proust, della maturità della sua esperienza, per la quale lo spazio dell’immaginario romanzesco è una sfe Âra, generata, grazie ad un moto ritardato infinitamente, da istanti essen Âziali, anch’essi sempre in divenire, e la cui essenza non è d’essere puntua Âli, ma è la durata immaginaria che Proust, alla fine della sua impresa, scopre essere la sostanza stessa di quei misteriosi fenomeni di scintilla Âzione.
Da Jean Santeuil il tempo è quasi assente (anche se il libro termina evocando l’invecchiamento osservato dal giovane sul volto di suo padre; tutt’al più, come nell’Education sentimentale, i vuoti lasciati tra i capi Âtoli potrebbero rammentarci che dietro quello che avviene, altro avvie Âne ancora), ma è soprattutto assente da quegli istanti irradianti che il racconto presenta staticamente e senza farci intendere che può realiz Âzarsi solo andando verso quegli istanti come alla sua origine, e traen Âdone l’impulso che permette alla narrazione di procedere. Indubbiamen Âte Proust non rinunciò mai ad interpretare anche questi istanti come se Âgni dell’intemporale; egli li vedrà sempre come una presenza liberata dall’ordine del tempo. Lo «choc » meraviglioso che egli prova vivendoli, la certezza di ritrovarsi dopo essersi perduto, questo riconoscimento è la sua verità mistica, che non vuole mettere in discussione. È la sua fede e la sua religione, così come egli tende a credere che vi sia un mondo di essenze intemporali che l’arte può aiutare a rappresentare.
Queste idee avrebbero potuto suggerire una concezione del roman Âzo diversissima, in cui la preoccupazione dell’eterno avrebbe (come qual Âche volta in Joyce) prodotto un conflitto tra un ordine di concetti ge Ârarchizzati e la frantumazione delle realtà sensibili. Non fu così perché Proust, anche contro se stesso, rimase docile alla verità della sua esperien Âza, che non solo lo svincola dal tempo ordinario, ma lo impegna in un tempo altro, il tempo «puro » in cui la durata non può mai essere lineare e non si riduce ai soli avvenimenti. Perciò il racconto esclude lo sviluppo semplice di una storia, così come non si concilia con «scene » troppo net Âtamente delimitate e rappresentate. Proust ha un certo gusto per le sce Âne classiche alle quali non rinuncia mai completamente. Anche la gran Âdiosa scena finale ha un rilievo eccessivo, che non corrisponde alla disso Âluzione del tempo di cui cerca di persuaderci. Ma precisamente, quel che Jean Santeuil ci rivela, come del resto le diverse stesure conservate nei Carnets, è lo straordinario lavoro di trasformazione che non cessò mai di perseguire per ammorbidire gli spigoli troppo acuti dei suoi quadri e per restituire al divenire le scene che a poco a poco, invece di essere vi Âsioni fisse e rapprese, si allungano nel tempo, si imprimono e si fondono nell’insieme, trascinate da un lento movimento senza sosta, movimento non superficiale ma profondo, denso, voluminoso, dove si sovrappongo Âno i tempi più diversi, e s’iscrivono i poteri e le forme contraddittorie del tempo. Così taluni episodi – i giochi agli Champs-Elysées – sembrano insieme vissuti in età diversissime, vissuti e rivissuti nella simultaneità intermittente di tutta una vita, non come puri momenti, ma nella mobile densità del tempo sferico.
Il rinvio. L’opera di Proust è un’opera compiuta-incompiuta. Leggendo Jean Santeuil e le innumerevoli stesure intermedie dove si con Âsumano i temi ai quali egli vuole dar forma, si resta meravigliati dell’aiu Âto prestatogli da quel tempo distruttivo che, in lui e contro di lui, fu il complice della sua opera. Quel che prima di ogni cosa la minacciava, era che fosse troppo in fretta compiuta. Più essa si attarda, più si avvicina a se stessa. Nel flusso del libro, si può cogliere l’aggiornamento che lo trat Âtiene, quasi che, presentendo la morte che è al suo termine, esso tentas Âse per evitarla di risalire il suo proprio corso. La pigrizia anzitutto osta Âcola in Proust le ambizioni facili; poi la pigrizia si fa pazienza, e la pa Âzienza diviene lavoro infaticabile, l’impazienza febbrile in lotta col tem Âpo, quando il tempo è contato. Nel 1914, l’opera è vicinissima al suo compimento. Ma il 1914 è la guerra, il principio di un tempo estraneo che, liberando Proust dall’autore compiacente che porta in sé, gli dà l’opportunità di scrivere senza fine e di fare del suo libro, con un lavoro senza tregua ripreso, quel luogo del ritorno che egli deve figurare (in tal modo ciò che è più distruttivo nel tempo, la guerra, collabora intima Âmente all’opera, dandole per ausiliario la morte universale contro cui es Âsa vuole essere costruita).
Jean Santeuil è il primo termine di questa straordinaria pazienza. Co Âme mai Proust che si affretta a pubblicare Les Plaisirs et les Jours, libro assai meno importante, riuscì ad interrompere l’abbozzo (che compren Âde già tre volumi), a dimenticarlo, a sotterrarlo? Qui appare la profon Âdità della sua ispirazione, e la sua decisione di seguirla sostenendola nel suo moto infinito. Se Jean Santeuil fosse stato terminato e pubblicato, Proust era perduto, la sua opera impossibile e il Tempo smarrito definitivamente. C’è dunque qualcosa di meraviglioso, in questo scritto riportato ora alla luce, che ci mostra come siano insidiati i più grandi scrittori e quanta energia, inerzia, ozio, attenzione, distrazione, occorra per arri Âvare fino in fondo a quel che si propongono. In questo senso Jean San Âteuil ci parla veramente di Proust; dell’esperienza di Proust, di quella pazienza intima, segreta, con la quale si è acquistato il tempo.
(1) Si tratta, naturalmente, per Proust e nella lingua di Proust, di un fatto psicologico, di una sensazione, come egli dice.
(2) Le Balzac de M. de Guermantes, dove Proust contrappone a Balzac il proprio ideale estetico.
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