Il mio cinema

di Bartolomeo Di Monaco
(libro in itinere se riuscirò a terminarlo)

Soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso la Rai ebbe la possibilità di avvalersi di registi di grande valore grazie ai quali realizzò sceneggiati che ancora oggi mantengono un livello di alta qualità. Ne ricordo qualcuno (questo articolo verrà incrementato di volta in volta).

“Sandokan” e Sergio Sollima

Quando nel 1976 uscì lo sceneggiato in 6 puntate “Sandokan” per la regia di Sergio Sollima, tratto dai romanzi malesiani di Emilio Salgari (che mi permetto di avvicinare a Jules Verne per il forte desiderio di evasione e di avventura), molte donne italiane e anche fuori dell’Italia dove lo sceneggiato fu diffuso si innamorarono dell’attore indiano che interpreta l’eroe soprannominato “La tigre della Malesia”. Ossia Kabir Bedi, che Sollima scelse anche per un altro suo film “Il Corsaro Nero” dello stesso anno.
Suggestivo in tutto, la scena che colpisce di più e che lo illumina arriva alla terza puntata quando Sandokan uccide col pugnale la tigre incontrandola in aria e squarciandole il ventre. Ottime le interpretazioni di Adolfo Celi (James Brooke) e di Philipe Leroy (Yanez De Gomera). Poderose le scene dell’assalto di Brooke all’isola di Mompracem.
Da annotare la colonna sonora, che ebbe un grande successo, composta dai fratelli Guido e Maurizio De Angelis. Affascinanti i riti malesiani nei festeggiamenti delle nozze tra Sandokan e Marianna (Carole André).
Amico di Sergio Leone, formò con lui e Sergio Corbucci (“Django” del 1966 con Franco Nero) il trio da cui uscirono i migliori “spaghetti western”.

“Melissa” di Daniele D’Anza

È un intrigato e ben condotto sceneggiato poliziesco del 1966 in 6 puntate che vanta la presenza di bravi attori come Rossano Brazzi, Aroldo Tieri, Turi Ferro, Franco Volpi. Massimo Serato.
Ma ciò che mi induce a segnalarlo è la stupenda canzone “Regent’s Park” cantata nientemeno che da Connie Francis, dalla voce limpida e inimitabile, a tal punto da lasciarci stupefatti per tanta bravura. D’Anza, va detto ancora a suo onore, di quella canzone è l’autore del testo, mentre la musica è di Fiorenzo Carpi.

“Racconti fantastici” e Daniele D’Anza

Poco fa ho finito di guardare lo sceneggiato in 4 puntate “Racconti fantastici” con la regia di Daniele D’Anza, ispirato ai racconti di Edgar Allan Poe.
Ne consiglio la visione.
Le prime 3 puntate sono ineccepibili. La quarta, “La caduta di casa Usher”, ha del tragico che richiama quando Michelangelo Antonioni quando Luis Buñuel. Ė, secondo me, la meno riuscita, ma sempre di lodevole fattura.

“Michele Strogoff” e Jean- Pierre Decourt

Le grandi opere della letteratura mondiale hanno avuto quasi sempre una trasposizione cinematografica. Si pensi a (solo qualche esempio): Guerra e Pace, I Fratelli Karamazov, I Miserabili, Madame Bovary, La Recerche, David Copperfield, Don Chisciotte, Il Processo, La montagna incantata, I Promessi Sposi (e mi fermo qui, in Europa).
Ma ci sono opere considerate minori che hanno dato luogo ad una filmografia eccezionale.
È il caso dello sceneggiato in 7 puntate (versione integrale) del 1975 di Jean-Pierre Decourt, intitolato “Michele Strogoff” e tratto dall’opera omonima di Jules Verne.
Raimund Harmstorf, nella parte del protagonista e Valerio Popesco, nella parte di Ivan Ogareff sono superlativi. Bella l’italiana Lorenza Guerrieri nella parte di Nadja Fëdorova, la compagna di Strogoff. Da segnalare la suggestiva musica di Vladimir Cosma.
Lo stesso dicasi per un altro racconto “La figlia del capitano” di Aleksandr Sergeevič Puškin trasposta in film con il titolo “La tempesta” nel 1958 da Alberto Lattuada, con un grande Van Heflin nella parte di Emelyan Pugachov.

“Ligabue” e Salvatore Nocita

Ci voleva Salvatore Nocita con il suo sceneggiato in 3 puntate del 1977, “Ligabue”, a far conoscere al grande pubblico un pittore naïf del tutto sconosciuto, salvo che agli addetti ai lavori. Nella riproduzione soprattutto degli animali viene spontaneo raffrontarlo con Henri Rousseau. Afflitto da turbe psichiche l’artista italiano, nato in Svizzera, condusse una vita povera e tribolata. Cesare Zavattini nel 1967 aveva scritto una biografia in versi liberi, “Ligabue”, ma fu soltanto quando il suo lavoro fu assunto dal regista, con il quale collaborò nella sceneggiatura, che Ligabue giunse alla notorietà che meritava.
È di spiccato rilievo (direi inarrivabile) l’interpretazione di Flavio Bucci che dà al pittore tutti i segni del suo difficile e imprevedibile carattere e del valore della sua arte.
Vi appare anche Marisa Laurito come donna di piacere allorché Ligabue viene condotto in un postribolo.

“Il Segno del Comando” e Daniele D’Anza

Daniele D’Anza è un altro regista che ha saputo dirigere sceneggiati tv di grande spessore, che hanno riscosso il successo del pubblico.
È il caso de “Il Segno del Comando”, del 1971 in 5 puntate, nato da un’idea di Flaminio Bollini e Dante Guardamagna, dalle atmosfere, tra spiritismo, fantasmi, superstizioni, morti misteriose, reincarnazioni, alla, in vari momenti, Carolina Invernizio, se non addirittura alla Allan Poe.
La canzone di Fiorentini-Grano che chiude ogni puntata cantata magistralmente da Nico Tirone, “Cento campane” (sarà poi ripresa con successo da Lando Fiorini) e che affiora ogni tanto con la sola musica nel corso del film, accresce il sapore onirico dello sceneggiato.
Ma perché ne scrivo. Perché vi appare una Carla Gravina (nata a Gemona del Friuli nel 1941; qualche mese più di me), di una bellezza incontenibile, il cui fascino giovanile ancora oggi non teme paragoni.
Lo sceneggiato è ben riuscito e, anche quando non appare, la figura dell’attrice (che interpreta la parte di Lucia) è sempre presente agli occhi dello spettatore.
Da non distrarre l’attenzione, peraltro, dalla bella Paola Tedesco (Barbara).

“L’amaro caso della Baronessa di Carini” e Daniele D’Anza

Dopo “Il segno del comando” del 1971, nel 1975 il regista Daniele D’Anza fa centro un’altra volta con lo sceneggiato in 4 puntate intitolato “L’amaro caso della Baronessa di Carini”, interpretato da Ugo Pagliai e Janet Agren. Qui la forte sicilianità della storia fa da aggregante alla suggestiva sceneggiatura dalle coloriture calde e nello stesso tempo cupe.
Come nell’altro sceneggiato tra i protagonisti si doveva inserire la canzone “Cento campane” cantata da Nico (portata poi al successo da Lando Fiorini), così anche nello sceneggiato del 1975 uno dei protagonisti è Luigi Proietti che non si vede ma canta la bella canzone in siciliano di Profazio-Grano, intitolata “La ballata di Carini”, introduttiva a ciascuna delle 4 puntate.
Tra gli attori c’è anche una giovane Enrica Bonaccorti, che interpreta la parte di Cristina, la figlia del notaio del luogo, don Carmelo. La ricordo perché non dimentico che lei è l’autrice del testo di 2 stupende canzoni, musicate e cantate da Domenico Modugno: “La lontananza” e “Amara terra mia” (una rielaborazione, quest’ultima, di una canzone popolare abruzzese).

“I Miserabili” e Sandro Bolchi

Lo sceneggiato del 1964 in 10 puntate diretto da Sandro Bolchi ha un attore che si innalza sugli altri (perfino su Tino Carraro, Javert) ed è Antonio Battistella che interpreta il personaggio del taverniere cinico e profittatore Thenardier. È talmente bravo che anche la sua compagna Cesarina Gheraldi (M.me Thenardier) beneficia della sua luce, e lo merita. Brava la piccola Loretta Goggi nella parte di Cosetta, la figlia di Fantina.
Su Tino Carraro occorre però dire che il suo monologo finale che precede il suicidio è esemplare ed è anche la lezione di un maestro rivolta a tutti gli amanti della recitazione teatrale. Hugo ha scritto per lui un monologo che, a mio avviso, è all’altezza nientemeno che dell’Essere o non essere scespiriano.
Inoltre, fossi più giovane, analizzerei congiuntamente “I Miserabili”, pubblicato nel 1862, e il romanzo di uno dei miei autori preferiti, Thomas Hardy: “Il sindaco di Casterbridge”, pubblicato nel 1886, poiché mi paiono evidenti i segni di una ravvicinata ispirazione.
Infine, come è noto, dal celebre romanzo di Victor Hugo sono stati tratti più film, e, tra questi, un altro che mi è rimasto impresso è quello (miniserie tv in 4 puntate) del regista Josee Dayan del 2000 interpretato da Gerard Depardieu (Jean Valjean) e da John Malkovich (Javert).
Ma il confronto va, a mio avviso, a favore di Sandro Bolchi.

“Il mulino del Po” e Sandro Bolchi

Nella letteratura mondiale abbiamo dei romanzieri di alto valore (non sto a nominarli), ma anche la letteratura italiana vanta tre giganti: Alessandro Manzoni, Giovanni Verga e Riccardo Bacchelli.
Quest’ultimo è l’autore di un capolavoro assoluto: “Il mulino del Po”. Trasporlo in uno sceneggiato televisivo era impresa assai ardua, da far tremare i polsi. Ci riuscì in 2 tempi (1963, 5 puntate; 1971, 4 puntate) Sandro Bolchi (avvalendosi peraltro della collaborazione nella sceneggiatura dello stesso Bacchelli).
La resa tragica e storica (la nascita delle leghe dei contadini) è esemplare.

“Sorelle Materassi”. Sarah Ferrati e Rina Morelli

Ai giovani che hanno ambizioni di diventare bravi attori di cinema e di teatro consiglio di guardare, anche più volte, lo sceneggiato in 3 puntate di Mario Ferrero, “Sorelle Materassi” (1972), tratto dal noto romanzo omonimo di Aldo Palazzeschi.
Sarah Ferrati (nella parte di Teresa) e Rina Morelli (nella parte di Carolina) danno una rara ed esemplare lezione di recitazione. Non ho trovato un solo punto debole. Sarah Ferrati, poi (toscana, di Prato), ha momenti di elevato splendore artistico.
Bravi anche Ave Ninchi (Niobe, la domestica), Nora Ricci (Giselda, la terza sorella; la quarta, Agnese, muore) e Giuseppe Pambieri (il furbo e spendaccione Remo, figlio di Agnese).

“L’isola del tesoro”. Ivo Garrani, attore maiuscolo

Poter incontrare di nuovo ed ammirare gli attori di un tempo è una grande fortuna. Ho finito di vedere lo sceneggiato in 5 puntate di Anton Giulio Maiano “l’Isola del tesoro”, del 1959, tratto dall’omonimo romanzo dello scozzese Robert Louis Stevenson. Tanti anni fa, passai davanti alla sua casa natale sita ad Edimburgo, senza però poterla visitare. Così mi accadde per la casa natale di David Herbert Lawrence sita a Eastwood, nei pressi di Nottingham.
Nello sceneggiato di Anton Giulio Maiano possiamo ammirare l’interpretazione maiuscola di Ivo Garrani, nella parte del pirata Silver John. Eppure con lui lavorano altri attori famosi, come Roldano Lupi, Arnoldo Foà, Ubaldo Lay, Riccardo Cucciolla, e anche un giovane Corrado Pani (un po’ impacciato). Ma nessuno di essi raggiunge l’alto livello interpretativo di Garrani.
Ricordo che Robert Louis Stevenson (che meriterebbe maggiore attenzione) è l’autore di libri divenuti celebri e resistenti al passaggio del tempo tra cui, oltre a “L’isola del tesoro”, “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, “La freccia nera” e “Il signore di Ballantrae”.

“Marco Polo” e Giuliano Montaldo

Tratto dall’omonimo romanzo di Maria Bellonci, Giuliano Montaldo nel 1982 seppe creare un colossal in 8 puntate, notevole per imponenza delle immagini, suggestione dei paesaggi, perfezione nelle ambientazioni.
Chi possiede questo sceneggiato si accinga a rivederlo, come ho fatto io. Chi non lo possiede, lo cerchi (ho messo un link) e lo acquisti. Non se ne pentirà. Mi viene in mente “L’ultimo imperatore” di Bernardo Bertolucci, del 1987, ma considero l’opera di Montaldo superiore. Troverete anche immagini che ricordano il grande Akira Kurosawa e il suo bellissimo “Kagemusha – L’ombra del guerriero” del 1980.
Coinvolgente la musica di Ennio Morricone.

Anna Karenina e Madame Bovary”

Nel riguardare i dvd della mia videoteca, sono arrivato agli sceneggiati RAI degli anni ‘60/’70. Ne ho già visti una decina, e ultimamente: “Anna Karenina” di Sandro Bolchi (1974) e “Madame Bovary” di Daniele D’Anza (1978).
Si tratta di due figure femminili passate alla immortalità grazie ai due omonimi capolavori della letteratura universale, rispettivamente di Leone Tolstoj e di Gustave Flaubert.
Sono figure che, al di là del felice esito letterario, non mi sono mai piaciute, in particolare Emma Bovary posseduta e distrutta dai suoi sogni e dalle sue ambizioni.
Negli sceneggiati i due personaggi sono interpretati da due donne bellissime: Lea Massari (Anna Karenina), che ho trovato qualche volta un po’ troppo leziosa, e Carla Gravina, ineccepibile nella parte.

“Cuore” e Luigi Comencini

Edmondo De Amicis riscosse un grande successo con il suo libro più famoso: “Cuore”. Più tardi furono canzonati la sua scrittura e il suo contenuto. Allorché si voleva ridurre il valore dell’opera di uno scrittore, quando ce n’era il pretesto, si diceva che lo stile e i contenuti erano del tipo deamicisiano.
Luigi Comencini non la pensava così e nel 1984 fece uscire la miniserie televisiva dal titolo omonimo, alla quale parteciparono con vari compiti due delle sue quattro figlie: Cristina e Paola. La miniserie usciva dopo 14 anni dall’altra sua miniserie che ancora oggi non ha rivali, “Le avventure di Pinocchio”.
Ma perché ne scrivo. Non per lodare De Amicis e Comencini, che non ne hanno bisogno, ma per segnalare soprattutto ai giovani di oggi che seguono la politica che il ruolo di Enrico Bottini-ragazzo, il personaggio principale del romanzo e della miniserie, è interpretato nientepopodimenoche da Carlo Calenda, il senatore attuale segretario del partito Azione. Luigi Comencini era suo nonno da parte della madre Cristina Comencini.
Ho trovato la sua recitazione impeccabile.
Straordinaria la somiglianza tra il volto di quand’era ragazzo e quello attuale di uomo di 73 anni, quasi fresco come allora.

“La cittadella”; “Le stelle stanno a guardare” e Anton Giulio Majano

Ho finito di vedere i 2 sceneggiati realizzati da Anton Giulio Majano tratti dai 2 romanzi più noti dello scrittore e medico scozzese Arcibald Joseph Cronin: “La cittadella” del 1964 e “E le stelle stanno a guardare”, del 1971.
Cronin nel 1924 divenne ispettore medico delle miniere. Da qui l’attenzione su questa categoria di lavoratori, che caratterizza i suoi 2 capolavori.
Gli sceneggiati sono stati realizzati con delicatezza e poesia, nonostante gli episodi tragici che li contraddistinguono.
E Cronin ci ha consegnato vicende che ancora oggi, pur mutati i tempi e le circostanze, ci spingono a non rassegnarsi e a lottare.

“David Copperfield” e Anton Giulio Maiano

Poco fa ho finito di vedere le 8 puntate dello sceneggiato del 1965 “David Copperfield” di Anton Giulio Maiano, con Giancarlo Giannini e Anna Maria Guarnieri.
Nel guardarlo ho pensato più volte al dono che hanno i grandi scrittori e allora sono andato a cercare la pagina in cui ne parlo con amore. Si trova nel mio romanzo “Caro papà, Caro figlio” che nel 2000 vinse il primo premio al concorso letterario internazionale “Giovanni Gronchi” di Pontedera. È uno dei miei romanzi preferiti e questa è la pagina a cui mi riferisco (nota: Anthony è il nipote che studia in Inghilterra):

Diario di Efisio
Nel rispondere alla lettera di Anthony, mi sono dilungato a parlargli dei miei autori inglesi preferiti. Forse ho un po’ esagerato, ma desidero tanto che nei suoi studi Anthony sappia di questo mio amore per gli autori di quella che per un po’ di tempo sarà la sua nuova Patria. Voi non ci crederete, ma da quando Anthony si è trasferito laggiù, le mie visioni sopra quel tetto fantastico sono aumentate. Si sono ravvicinate. Ho visto Dickens più di una volta, circondato dai suoi personaggi. Quello che non lo lascia mai è Pickwick, gli sta sempre tra le gambe, qualche volta rischia perfino di precipitare dal tetto, se non fosse che Dickens, conoscendolo come nessun altro, lo afferra in tempo per la giacca. Pickwick agita le sue gambette e volta il viso in su a guardare il suo autore, non so se per ringraziarlo dello scampato pericolo o perché preferirebbe che lo calasse in strada, per poter salire magari su di un’auto e conoscere le sorprendenti novità di questo mio tempo. Ma Dickens non lo perde di vista, e credo che non lo lascerà mai andare. Da tempo invece non vedevo Thomas Hardy, il piccolo grande autore che ha colmato di entusiasmo molte delle mie giornate. La sua tristezza, il suo pessimismo non aiutano certo a vivere, ma è la sua scrittura che affascina. Stava con il pastore Oak e con la Bathsheba, in mezzo a loro, e la bellezza della Bathsheba ancora oggi mi turba, che sono vecchio ed ho perso molta della mia turbolenza. Ho visto Lawrence, la cui casa natale di Eastwood, vicino a Nottingham, ho visitato tanti anni fa, come pure visitai nel bosco di Dorchester, a sud di Londra, la casa dove Hardy ha scritto alcuni suoi romanzi. È una mia debolezza quella di visitare, quando ciò sia compatibile con i miei viaggi, i luoghi dove hanno vissuto i miei autori preferiti. Sono stato a trovarli anche sulla tomba!, come è accaduto per Yeats, sepolto in un piccolo cimitero, a Drumcliff, vicino alla città di Sligo, in Irlanda, ai piedi del monte Benbulben, o a Parigi dove, oltre al cimitero di Père Lachaise, ho visitato anche quelli di Montparnasse e di Montmartre, cimiteri pieni di ricordi e di gloria! In Scozia sono arrivato perfino a visitare la casa del poeta a me caro, Robert Burns. Anche lui ogni tanto compare sul tetto e, distratto dalla sua poesia, spesso scivola sulle tegole, o, passeggiando lassù, si ferma proprio a tempo per non precipitare! Quando appare, sono sempre in ansia, e gli grido di stare attento, ma lui mi sorride, quasi non udisse le mie parole. Foster, le sorelle Brontë, Stevenson, Scott, e poi gli irlandesi, che hanno fatto grande la lingua inglese: Joyce, Beckett, Wilde, ma non voglio dilungarmi, perché se mi affanno a redigere un elenco completo, quelli che eventualmente, per mia dimenticanza, restassero fuori, non verrebbero più all’appuntamento, e leggendo i loro libri, forse avvertirei la propria delusione nei miei confronti. Li amo tutti, come amo gli autori in generale, a qualsiasi popolo appartengano. Essi sono i creatori, coloro cioè che sanno generare la vita. Cosa c’è di più grande?

“I Promessi sposi” e Sandro Bolchi

Sandro Bolchi non teme di cimentarsi con capolavori assoluti della letteratura italiana, e questa volta lo fa con un testo sacro come “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni tradotto in uno sceneggiato di 8 puntate nel 1967.
Ha contribuito alla sceneggiatura uno che di capolavori se ne intende avendo scritto “Il mulino del Po” (anch’esso sceneggiato da Sandro Bolchi), ossia Riccardo Bacchelli.
Lo sceneggiato raggiunge picchi d’arte in vari punti, come l’Addio ai monti quando Lucia (interpretata da Paola Pitagora) e Renzo (interpretato da Nino Castelnuovo) lasciano il loro pase poiché perseguitati da don Rodrigo. Eccelse le parti che riguardano l’assalto ai forni e la peste, che contiene lo splendido episodio di Cecilia.
Vi fanno sfoggio in modo speciale Tino Carraro nella parte di don Abbondio e Salvo Randone nella parte dell’Innominato.
Nel 1941 ci provò anche Mario Camerini, con esito dignitoso ma non paragonabile allo sceneggiato di Bolchi. Faceva la parte di Lucia Dina Sassoli e quella di Renzo Gino Cervi.

“La piovra”

Delle 10 miniserie dello sceneggiato televisivo “La piovra” andato in onda dal 1984 al 2001, possiedo solo le prime 4, che vedono come protagonista Corrado Cattani, interpretato da Michele Placido, che alla fine, nella quarta miniserie, sarà ucciso e uscirà di scena.
“La piovra” ebbe un successo internazionale per tutte le 10 miniserie, generando anche forti discussioni da parte di chi non apprezzava che l’Italia fosse rappresentata in quel modo, ossia che tutto il potere fosse mafioso.
Ancora oggi la serie è coinvolgente. Dà però tristezza, poiché mostra che denaro e potere fanno il bello e il cattivo tempo tanto in Italia che nel mondo.
Michele Placido diventò famoso e più tardi fu regista di film di impegno sociale.
Ma l’interpretazione che, a mio avviso, supera le altre e che mi ha molto colpito è quella dell’attore francese François Périer che interpreta l’avvocato potente e mafioso Terrasini, che, però, pure lui, sarà ucciso nella terza miniserie.

Film da ricordare

Quasi sicuramente questi film sono sconosciuti ai giovani. Li sto rivedendo con lo stesso entusiasmo della prima volta:
L’albero degli zoccoli, di Ermanno Olmi;
Novecento, di Bernardo Bertolucci;
La neve nel bicchiere, di Florestano Vancini, tratto da quello straordinario romanzo omonimo di Nerino Rossi.
A questo proposito voglio annotare che oggi stanno andando di moda i romanzi voluminosi (meglio se superino le 500 pagine). Ma oggi non ci sono autori altrettanto validi come narratori quali furono Alessandro Manzoni, Giovanni Verga, Riccardo Bacchelli, Carlo Sgorlon, tra i più grandi romanzieri italiani, pressoché irraggiungibili, così da giustificarne la produzione.
Secondo me, oggi si deve evitare di scrivere romanzi ponderosi, che segnano non una qualità, ma un vizio dell’autore, quasi sempre inutilmente loquace.
Sto rileggendo, dopo aver rivisto il film, “La neve nel bicchiere” di Nerino Rossi, un libriccino di 206 pagine nell’edizione tascabili Marsilio, ma così saporose e originali da suggerirlo a modello ai narratori italiani di oggi.
Sono film, sceneggiati e romanzi, che ci mostrano una civiltà contadina oggi scomparsa e, a meno di non essere nati negli anni Cinquanta, sconosciuta ai più giovani lettori, che non hanno nemmeno una larvata idea di ciò che fu: degli stenti, dei soprusi e delle lotte per l’emancipazione sociale.

La più grande avventura” e John Ford

È uno dei registi di fronte al quale ci si deve togliere il cappello. Tra i più bei western, ci sono i suoi (si pensi a “Ombre rosse” e a “Sfida infernale”); ha vinto 4 Oscar alla regia, e i film prodotti non si riesce a contarli.
Tra questi desidero citare “La più grande avventura”, del 1939 (lo stesso anno di “Ombre rosse”!), che fu il suo primo film a colori (non ero ancora nato!).
Siamo alla vigilia della Guerra d’indipendenza americana e gli inglesi e gli indiani sono impegnati a sedarla.
Gilbert Martin (interpretato da Henry Fonda) è tra i rivoltosi e difende il Fortino in cui sono asserragliati. Ma occorrono rinforzi e, dopo un tentativo fallito da un compagno, sarà lui che correrà a chiedere aiuto, inseguito da 3 indiani. La scena di questo inseguimento è spettacolare.
Belli i colori e le scene che hanno la freschezza di un’opera d’arte che si avvale del genio di chi non aveva a disposizione la moderna tecnologia, e doveva creare praticamente dal nulla.

“Lo specchio della vita”

Il regista Douglas Sirk, tedesco trasferitosi negli Stati Uniti quando salì al potere il Nazionalsocialismo, realizzò questo film nel 1959. La protagonista è la bella Lana Turner che ha come figlia Sandra Dee che, nello stesso anno, interpretò la protagonista di “Scandalo al sole”, acquistando una notorietà internazionale.
“Lo specchio della vita”, oggi considerato un pilastro della cinematografia hollywoodiana, non fu ben accolto dai critici del tempo, ma, a dispetto di costoro, ancora oggi è un film che dà grandi emozioni trattando una varietà di temi in modo esemplarmente nitido e lineare.
In specie quello che riguarda la figlia di una donna negra che nasce con una carnagione bianca e rifiuta la sua negritudine disperdendosi in una vita dissennata fino alla conversione e al pentimento quando la madre muore. La parte di Sarah Jane (questo il nome della ragazza) è affidata alla bravissima Susan Kohner, a cui fu assegnato nel 1960 il Golden Globe.

“L’isola”

Mi doveva capitare tra le mani proprio la sera del giorno in cui è morto Papa Francesco. Quasi un miracolo.
Lo pensavo da tempo ma, non ricordando il titolo, non riuscivo a rintracciarlo. Sapevo che in qualche modo somigliava all’altro film-documentario di eccellente fattura: “Il grande silenzio” ambientato nella Certosa di Grenoble, la Chartreuse.
Poi, nella sequenza che sto rispettando per visionare la mia collezione, ecco che è il suo turno, tocca a lui, il film che cercavo, a “L’isola”.
Un marinaio crede di avere al tempo dell’ultima guerra ucciso il suo comandante sulla nave dove faceva il fuochista, fatta esplodere dai nazisti. Perciò si ritira in un’isola sperduta nel Mar Bianco dove si è ritirata in preghiera una comunità di monaci ortodossi. Ne diviene un membro insolito e bizzarro, creduto un santo a cui da terra vengono a chiedere grazie.
È un film russo del 2006 diretto da Pavel Lungin. Sono sicuro che sono pochi coloro che lo hanno visto, e pochi anche coloro che desidereranno vederlo. Ma è un film capolavoro, grazie ai suoi paesaggi mistici e ai suoi silenzi.

21 aprile 2025 (stamani alle ore 7,35 è morto Papa Francesco).

“La settima stanza”

Sul nazifascismo sono stati realizzati numerosi film. Ne posseggo oltre una settantina. Nessuno è da scartare tanto è forte il sentimento che ci indigna di fronte a tante mostruose atrocità.
Ne voglio segnalare uno, che forse non molti conoscono: “La settima stanza” della regista Marta Meszaros, del 1996.
È la storia dell’ebrea tedesca professoressa di filosofia Edith Stein, convertitasi al cattolicesimo e divenuta monaca carmelitana. Morirà nei lager nazisti nel ’42 e sarà elevata agli altari nel 1987 da Giovanni Paolo II che la proclamò nel 1988 Patrona d’Europa. In suo onore è stato Istituito il Premio Edith Stein che viene assegnato ogni due anni a persone, associazioni o istituzioni che si sono distinte a livello internazionale per il loro impegno sociale, politico o civile.
La protagonista del film è interpretata da una bravissima Maia Morgenstern.

“La ciociara”

“Roma città aperta”, “Paisà” (entrambi di Roberto Rossellini), “Sciuscià”, “La ciociara” (entrambi di Vittorio De Sica) sono 4 film eccezionali sulla Seconda guerra mondiale in Italia.
Tra questi, preferisco “La ciociara”, del 1960, tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia, poiché ha un’interpretazione magistrale di Sophia Loren (non a caso vinse l’oscar come migliore attrice protagonista). La quale non mi pare abbia più raggiunto vette di tale livello. Forse è una delle migliori interpretazioni della storia del cinema, per la perfetta fusione tra l’artista e il suo personaggio.

“Vi presento Joe Black”

Qualche giorno fa ho visto un film con grandi attori (Anthony Hopkins, Brad Pitt) ma, a mio avviso, non riuscito, sebbene susciti emozioni. Il titolo: “Vi presento Joe Black”, di Martin Brest, del 1998. Joe Black, interpretato da Brad Pitt, è la Morte.
Non succede spesso che la morte sia rappresentata da un uomo. Così mi sono rammentato che anch’io la rappresentai come un uomo in questa mia poesia del 1990:

TRASCORRE MOLLEMENTE IL TEMPO
(Sulla strada per Villa Forci)

Trascorre mollemente il tempo
della mia vita
ora che non ho più padroni.
Per le selve cammino
o in riva al fiume;
le more tra i rovi
o la rossa albatrella
o il chicco dell’uva
assaporo;
e il sole che mi vide
nascere e fanciullo
di nuovo saluto.
Ho visto il ramarro
sopra un sasso,
il ragno nero tra i rami
e con dolcezza li ho ammirati.
Mollemente trascorre il tempo
della mia vita
ora che non ho più padroni.
Chi sei tu, leggiadro signore,
che incontro al mattino sul colle?
Sei la morte, io lo so,
ancor giovane e bella,
e forse mi studi,
e ti sorprendi della mia allegria,
ma è tanto dolce quassù
un giorno di novembre
che anche il pensiero di te
mi rallegra,
e quando da lungi ti scorgo
il mio occhio si ravviva
e guarda giù la valle;
il sole la illumina
e illumina te
quando mi passi accanto.
E tu la senti
la vita che pulsa in me,
oh sì la senti!
e della mia gioia
con tua sorpresa
anche tu esulti,
sorridi
e mi lasci andare.

6 novembre 1990

“L’anno scorso a Marienbad” di Alain Resnais

L’ho appena finito di vedere. Quando uscì nel 1961 vinse il Leone d’Oro al Festival di Venezia. Nonostante ciò non fu ben accolto unanimemente dalla critica né dal pubblico.
Credo che, ancor più oggi, la lentezza del film e i numerosi ritorni restino indigesti agli spettatori. Tuttavia, a mio avviso, se si ha la volontà di farsi assorbire dai suoi tempi lunghi e dai flashback che spesso ritornano quasi con le stesse parole, il film risulta ricco di poesia e un lancinante inno all’amore, al quale si è pronti a donare le proprie irrequietezze e i propri sogni.
L’uomo e la donna sono interpretati dai bravi Giorgio Albertazzi e Delphine Seyrig.

“Il caso Saint-Fiacre” e i grandi autori di gialli

Non conosco i moderni. Ma da qualche tempo sto leggendo i gialli (o meglio un campione di gialli) di autori notevoli come Conan Doyle (l’autore di Sherlock Holmes), Agatha Christie (l’autrice di Hercule Poirot e di Miss Jane Marple) e Georges Simenon (il creatore del commissario Jules Maigret).
Naturalmente, nel giudicarli, mi avvalgo dei loro traduttori, non conoscendo le rispettive lingue madri, se non scolasticamente.
Tra tutti, se dovessi fare una classifica, metterei in testa il belga Georges Simenon per la sua, secondo me, qualità narrativa superiore, che gli deriva forse dal fatto di aver scritto anche una buona quantità di romanzi, tra cui segnalo “Il borgomastro di Furnes”. È, la sua, una scrittura più ampia, distesa e riposante e i suoi intrecci non sono mai garbugli ma si snodano con accurata scioltezza. Tra essi segnalo “Il caso Saint-Fiacre” (da cui è stato tratto un bel film omonimo del 1959 diretto da Jean Delannoy, con Jean Gabin. Saint-Fiacre è il paese natale di Maigret).

“La ragazza di Bube” e Claudia Cardinale

Se nel 1963 Luchino Visconti con il coloratissimo “Il gattopardo”, tratto dal romanzo di Tomasi di Lampedusa, regalò al mondo della cinematografia e dell’arte l’icona irreversibile della bellezza attraverso la figura di Claudia Cardinale nella parte di Angelica Sedara, fu nel gennaio 1964 che Luigi Comencini (magico il suo “Le avventure di Pinocchio”) con il suo film in bianco e nero “La ragazza di Bube”, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Cassola, portò alla maturità recitativa l’attrice, interprete del personaggio di Mara Castellucci. Comencini la adornò di movimenti e sentimenti che ancora oggi s’imprimono nello sguardo e nel cuore dello spettatore.

“Paisà” di Roberto Rossellini

Ci sono alcuni film che invadono e penetrano la nostra sensibilità e non ci lasciano più.
Per quanto mi riguarda ne cito solo 3: “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, del 1957; “Il pranzo di Babette” di Gabriel Axel del 1987 (tratto nientemeno che dal libro di una scrittrice a me tanto cara, Karen Blixen) e “Paisà” di Roberto Rossellini, del 1946 (a un anno dalla fine della guerra, e dall’altro celebre capolavoro “Roma città aperta”, appunto del 1945).
Quando penso al cinema, penso che il materiale su cui si basano i film, ancorché il progresso tecnologico li renda sempre più resistenti al tempo, siano soggetti ad un deperimento che negli anni ne rende menomata la visione. E ciò, non solo per le immagini, ma soprattutto per il sonoro, più facilmente deperibile
“Paisà” è, con gli altri due, uno dei capolavori del cinema che vorrei non deperissero mai. Come succede fortunatamente ai libri, sempre ristampabili in ogni tempo.
“Paisà” si svolge in VI episodi e gli ultimi mesi di guerra vi sono, attraverso di essi, tematicamente e rigorosamente rappresentati. Lo stile asciutto e il nitore della narrazione, e la sequenzialità degli episodi, anziché rendere il racconto frammentato, ne rappresentano e costituiscono una possente unitarietà.

“Umberto D.” di Vittorio De Sica

Se il film “La ciociara”, del 1960, s’impone per la straordinaria interpretazione di Sophia Loren, che le valse il premio Oscar, ad esso preferisco “Umberto D.” del 1952, poiché, rigorosamente narrato e senza la retorica in cui sarebbe stato facile cadere, è pervaso di poesia dall’inizio alla fine. È la storia di un pensionato, caduto in miseria, e del suo cane dal quale non riuscirà a staccarsi, nonostante desideri per lui una vita migliore. Anche qui siamo in presenza di una interpretazione di rilievo da parte di Carlo Battisti, che interpreta Umberto D., il quale nella vita era professore di glottologia e autore, insieme a Giovanni Alessio e altri collaboratori, del Dizionario Etimologico Italiano (DEI, in cinque volumi, pubblicato negli anni 1950-1957). Insomma, una celebrità nel suo campo. Giacché si tratta della sua prima e unica partecipazione cinematografica, è stupefacente il risultato della sua interpretazione.

Ėjzenštejn

Come ho già scritto più volte, possiedo una cineteca composta ad oggi da circa 2.300 film (la biblioteca è composta invece da circa 3.600 volumi, non tutti letti, in verità).
Negli ultimi anni trascorro le mie giornate leggendo nel pomeriggio e visionando i film la sera. La TV, la guardo soltanto in occasione di eventi ciclistici e tornei di tennis di rilievo. Una volta seguivo anche lo sci.
I film che possiedo li ho visti tutti. Impiego (guardandone 1 a sera e qualche volta 2) dai 5 ai 6 anni per completare il ciclo. Poi ricomincio da capo.
Stasera ho finito di vedere in quattro serate, 4 film del grande regista russo Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (Riga, 22 gennaio 1898 – Mosca, 11 febbraio 1948). Questi i film: La corazzata Potëmkin (1925), Aleksandr Nevskij (1938), Ivan il Terribile (1944), La congiura dei Boiardi (1958). Questi 2 ultimi dovevano far parte di una trilogia rimasta incompiuta dedicata allo Zar (nato nel 1530 e morto nel 1584) che regnò sulla Russia nel XVI secolo.

Perché scrivo questo? Perché stasera mi sono reso conto che (secondo il mio punto di vista, quindi il mio senso dell’arte) Ėjzenštejn è il più grande regista della storia del cinema. Tutto ciò che è seguito fino ai giorni nostri nasce dal suo cinema, dai suoi straordinari film. Per la sua coralità e i suoi primi piani l’ho accostato, nel campo letterario, a Tolstoj.
Vorrei con questa nota, consigliare i suoi film ai giovani, che probabilmente non conoscono nemmeno il suo nome.

“Il presagio” e Gregory Peck

Non ho ancora esaurita la serie Horror della mia videoteca. Devo dire che sono pochi i film che si salvano. Per mettere paura allo spettatore ci vuole una raffinata sensibilità e una ferrea disciplina nel raccontare.
Di solito, uno spera che se il film è interpretato da attori di fama, il film sarà buono, poiché hanno letto la storia e con l’accettazione del ruolo ne hanno riconosciuto la validità.
Mi è capitato di essere deluso in questo. Ho visto il film “Intervista col vampiro” di Nei Jordan, del 1994: una vera boiata.
E questo film ha un cast stellare: Tom Cruise, Brad Pitt e Antonio Banderas. Mi domando se abbiamo letto la trama.
Invece ho avuto conferma guardando il film “Il presagio” di Richard Donner, del 1976 (della serie di Damien, che ebbe successo di pubblico). Ma qui ci troviamo di fronte a un mito del cinema, una assoluta garanzia di qualcuno che la parte la legge e la giudica, Gregory Peck.

Jack lo squartatore

Avrete sentito parlare di Jack lo squartatore, che tra l’estate e l’autunno del 1888 commise almeno 5 delitti di prostitute nel quartiere popolare di Vhithechapel, a Londra.
Robert Block, l’autore di “Psicho”, nel 1984 ci scrisse un libro ed altri hanno cercato di arrivare alla verità, essendo ancora oggi rimasto sconosciuto il nome dell’assassino.
Anche più di un regista si cimentò nell’impresa e in circolazione ci sono vari film dedicati alla narrazione di questa terribile storia.
Io ne posseggo 5 versioni, ma a mio parere la migliore è quella in cui la parte dell’ispettore Frederick Abberline è interpretata da un attore molto bravo, Michael Caine, e ha il titolo “La vera storia di Jack lo squartatore”, del 1988, regia di David Wickes. Una miniserie in 2 puntate, in cui si fa l’ipotesi che l’assassino sia il medico di corte Sir William Gull.
Canale 5 lo mandò in onda nel 1989 tradotto in italiano ed io ebbi la fortuna di registrarlo. Infatti, non esiste questo dvd nella nostra lingua, ma solo in inglese.
Mi meraviglio che gli addetti non vi abbiano provveduto fino ad oggi.

Il fantasma dell’opera

Uscito prima a puntate, il romanzo di Gaston Leroux fu pubblicato nel marzo del 1910. Ebbe talmente successo che ne sono state date almeno 8 versioni cinematografiche, più varie edizioni televisive.
Le versioni che possiedo sono quella muta di Rupert Julian del 1925 con un impareggiabile Lon Chaney e quella diretta da Dario Argento, che vede la figlia Asia interpretare la parte di Christine, la giovane soprano amata da Erik, ossia dal fantasma dell’opera.
Mentre la pellicola di Julian è sobria, non altrettanto lo è quella di Argento, il quale ne approfitta per introdurre un orrido cannibalesco estraneo allo spirito della storia. L’Erik di Argento non è un uomo deformato nel viso, ma un bel giovane allevato dai topi (sic!), che dorme insieme con essi e che uccide le sue vittime, strappando loro parti del corpo. Argento sembra compiacersene. Io detesto l’horror cannibalesco, troppo facile a rappresentarsi senza molta fatica dell’immaginazione. Tutto all’incontrario delle sensibili emozioni di terrore che sa imprimere alle sue storie Mario Bava, un vero maestro.

Poe, Bergman e Corman

INGMAR BERGMAN: “L’OCCHIO DEL DIAVOLO”

Nel 1960 Ingmar Bergman presentò il suo film “L’occhio del diavolo”.
Conosciuto per alcuni suoi capolavori come “Il settimo sigillo”, “La fontana della vergine”, “Il posto delle fragole”, “Fanny & Alexander”, e anche per “Sorrisi di una notte d’estate”, oggetto di dibattiti nei Circoli del Cinema, molto attivi nella seconda metà del secolo scorso, Bergman lo è meno per “L’occhio del diavolo”, che ritengo un capolavoro, per la perfezione della storia e della regia. Non vi è nulla che strida o s’inceppi. I dialoghi sono eccelsi; l’ironia, la malizia, l’amore, l’innocenza, la credulità sono ben rappresentate. La lotta tra il bene e il male è vista come una sfida o un gioco cavallereschi.
Difficile trovare difetti nei film di Bergman, ma in questo si concentra la stessa bellezza e la stessa forza che si respirano in un racconto perfetto.

ROGER CORMAN E EDGARD ALLAN POE

Se fossero stati coevi Poe (Boston, 9 gennaio 1809 – Baltimora, 7 ottobre 1849) e il 96enne Corman (Baltimora 5 aprile 1926) sicuramente si sarebbero stimati.
Una parte importante della produzione di Corman è infatti dedicata ai racconti di Poe. Ne deve essere rimasto stregato.
Corman produceva e dirigeva i suoi film senza alcun intermediario a inquinarne l’ispirazione e il contatto con il grande scrittore statunitense.
“I maghi del terrore”, “I racconti del terrore”, “I vivi e i morti”, il celeberrimo “Il pozzo e il pendolo”, “La città dei mostri”, “La maschera della morte rossa”, “La tomba di Ligeia”, “Sepolto vivo”, sono i film che testimoniano questo amore e questa empatia.
Quasi tutti hanno come protagonista un impareggiabile Vincent Price che, con Christopher Lee e Boris Karloff, furono i protagonisti di un’epoca in cui l’Horror, a differenza di oggi, aveva una certa eleganza.

“Kapò” di Gillo Pontecorvo

Film del 1960. Sono gli anni dei grandi capolavori del neorealismo italiano con registi quali Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Gillo Pontecorvo, Federico Fellini, Luchino Visconti, Florestano Vancini, Pietro Germi, per citarne solo alcuni.
Di solito quando i film ci mostrano la vita nei campi di concentramento nazisti si riferiscono spesso alla sofferenza degli uomini. Raramente delle donne.
Si concentra su di esse, invece, Gillo Pontecorvo con il suo “Kapò”, il cui merito sta proprio in questa sua scelta e sensibilità di mostrarci tribolazioni e atrocità in un campo di concentramento femminile.
Edith, interpretata da Susan Strasberg, è una ragazza ebrea, che viene salvata da sicura morte da un medico che le fa assumere un’altra identità con il nome di Nicole. La crudeltà della vita che conduce è tale che la ragazza non riesce più a sopportare e decide di diventare una Kapò, ossia una delle vigilanti del campo, assumendone il cinismo e la cattiveria. Ma darà la vita per amore e per la salvezza dei prigionieri.
Nel 1966 Gillo Pontecorvo girerà un altro ottimo film “La battaglia di Algeri”, vincitore nello stesso anno del Leone d’Oro al Festival di Venezia.

“Hotel Meina” di Carlo Lizzani

È un film del 2007 diretto da Carlo Lizzani, e tratto dal libro omonimo di Marco Nozza.
Ne parlo poiché narra di una strage nazista poco conosciuta, accaduta nel 1943.
L’hotel ospita, tra le altre, alcune famiglie ebree. Vi fanno irruzione le SS e le segregano perpetrando su di loro ogni violenza materiale e psicologica. È quest’ultima soprattutto che è messa in evidenza, mostrando quanto essa terrorizzi e annienti l’animo umano.

“La caduta. Gli ultimi giorni di Hitler”

Se volete avere un’idea della devastante sconfitta subita dal nazismo, vi consiglio di vedere questo film del 2004 diretto dal regista tedesco Oliver Hirschbiegel.
Si è abituati ad una cinematografia in cui il nazismo di distingue per ferocia e spregio di ogni rispetto umano. Abbiamo negli occhi le immagini dei campi di concentramento dove la vita di uomini e donne prigionieri valeva meno di zero, e dove si tremava ogni volta che si aveva di fronte un soldato del Reich.
“La caduta” mostra un nazismo sconfitto e in disfacimento, tremante di paura e impossibilitato a reagire all’avanzata degli Alleati (in questo caso i russi) che bombardano e devastano una Berlino che si considerava invincibile.
Hitler è interpretato dall’attore svizzero Bruno Ganz e la sua immedesimazione nel personaggio è, a mio avviso, la migliore che si sia mai avuta.

“Nebbia in agosto” e “Dove cadono le ombre”

Due film sul nazismo dal titolo delicato ed anche poetico, ma dal contenuto feroce. Il primo è del 2016 ed è diretto dal regista tedesco Kai Wessel, tratto dall’omonimo romanzo del tedesco Robert Domes. Il secondo, dell’anno successivo, il 2017, è diretto dall’italiana Valentina Pedicini, tratto dal romanzo autobiografico di Mariella Mehr, una nomade della etnia Jenisch vittima del progetto di pulizia etnica portato avanti dall’associazione Pro Juventute dal 1926 al 1973, in Svizzera.
Anche in “Nebbia d’agosto” troviamo la persecuzione di questa etnia, rappresentata dal protagonista quattordicenne Ernst Lossa. Ma in più ci troviamo all’interno di un ospedale tedesco dove viene sistematicamente applicata la pratica dell’eutanasia nei confronti di tutti i portatori di anomalie fisiche e mentali. A donne, uomini, bambini e anziani viene somministrata, a loro insaputa, una medicina in grado di portarli in poche ore alla morte. All’esterno dell’ospedale, vi è un cimitero colmo di tombe e si vedono camion passare continuamente carichi di nuovi morti, mentre si scavano altre tombe per riceverli.
Riguardo al popolo Jenisch apprendo da Wikipedia che esso rappresenta la terza maggiore popolazione nomade europea, dopo i Rom ed i Sinti. Sono presenti in Germania (Regione del Reno), Svizzera, Austria, Paesi Bassi, Francia, Belgio, Italia, Romania e Spagna. Gli Jenisch sono di origine germanica e hanno un loro proprio idioma.

Georges Simenon “La neve era sporca”

In un’altra occasione ho scritto di ammirare lo scrittore belga per le sue qualità narrative, che si intersecano con l’animo del lettore e ne fanno presa.
Non solo Simenon fu autore di gialli e creò il famoso commissario Maigret, ma anche nel genere romanzo non fu da meno.
Ne “La neve era sporca” abbiamo due distinti epicentri in cui si svolge la storia del giovane vizioso Frank Friedmaier. Il primo è ambientato dentro e intorno ad una casa di tolleranza gestita dalla madre Lotte, in cui ammiriamo la capacità dell’autore di descrivere in maniera mai esagerata ma al contempo originale e suggestiva la vita che vi si conduce. Si pensi alla prostituta Anny.
Il secondo è la prigione in cui è rinchiuso a causa dei suoi crimini. Resiste agli interrogatori e trae forza dalla visione di una finestra in cui si muove una donna e un bambino.
Nel riunire i due centri riscontriamo in questo esuberante scrittore, la cui produzione letteraria è innumerevole, tratti che ricordano, fra gli altri, Fëdor Dostoevskij, Frank Kafka, Samuel Beckett e anche il nostro Luigi Pirandello. Da sottolineare la parte stupenda che si muove intorno all’interrogatorio, a cui Frank è sottoposto in prigionia, dall’andamento asciutto, rullante, quasi telegrafico.
La scrittura comunque, finché non si arriva al termine, non dà mai risposte, e la storia galleggia in un lieve fermentare di attesa che ci avvolge e ci guida.
Dal libro, nel 1953 è stato tratto il film omonimo per la regia dell’argentino Luis Saslavsky (non sono riuscito a trovarlo in commercio).

“La scelta di Sophie” di Alan Jay Pakula

Del 1982 (tratto dal romanzo omonimo di William Styron) questo film, di rilevante intensità drammatica, ha meritato l’oscar a Meryl Streep per la sua interpretazione di Sophie, polacca e vittima ebrea scampata ad Auschwitz, di cui porta ancora i traumi fisici e psicologici. Morti nei campi di concentramento i due figli e il padre, nonostante che quest’ultimo, professore universitario, fosse un accanito antisemita.
Una sfilza di premi ha confermato la qualità del film, ma a me preme sottolineare la bravura anche della doppiatrice di Meryl Streep, Rossella Izzo e dell’attore Kevin Kline che interpreta la parte dell’amico ebreo di Sophie, instabile psichicamente e “fatalmente affascinante”: Nathan Landau.

Fassbinder e alcuni suoi film

Rainer Werner Fassbinder, morto ancora giovane a 37 anni nel 1982, è un regista tedesco che difficilmente ci fa sorridere. Le nevrosi della vita sono rappresentate nei suoi film in modo spietato, che spesso portano la vittima all’annientamento.

In “Martha”, del 1974, è il rapporto tra uomo e donna nel matrimonio che viene rappresentato come un modo violento e intollerabile di coesistere. L’uomo prevalica la donna e la sottomette sia fisicamente che psichicamente, al punto che non è difficile immaginare una donna che abbia visto il film negarsi risolutamente al matrimonio se non addirittura al rapporto con l’uomo. Viene in mente il film “Angoscia” del 1944 di George Cukor, con Ingrid Bergman che, per quell’interpretazione l’anno successivo vinse l’Oscar.

Ne “Il matrimonio di Maria Braun”, del 1979, il regista tocca di nuovo il tema del matrimonio e ancora una volta è la donna al centro della sua attenzione, come lo sarà anche nei 2 film seguenti. Maria Braun (interpretata dall’affascinante e sensuale attrice tedesca Hanna Schygulla) sposa, sotto le bombe, in una Germania sconfitta e distrutta, un ufficiale tedesco. Riescono a salvarsi, ma, di lui, Hermann Braun, partito per la guerra, non sa più nulla e si mette a cercarlo. Infine desiste e si arrangia in un locale frequentato dagli americani, dove incontra un soldato nero a cui si affeziona e si concede. Mentre fanno all’amore, ecco che sulla porta di casa si affaccia Hermann. Il sorriso con cui, dopo un attimo di meraviglia, lo accoglie è il segno di un amore che ha resistito, e resisterà, alle disavventure e agli arrangiamenti della vita: “Ma tu sei forte”, le dirà il marito ritrovato. E lei, più tardi: “Io vivo questa vita soltanto per te, per noi”. È una originale e intensa storia d’amore (lei racconterà al marito, continuando ad amarlo, la sua relazione con un industriale francese). Ancora una volta sono l’amore e il rapporto di coppia al centro dell’interesse di Fassbinder. Non del tutto inattesa la tragedia finale.

Di nuovo una coppia è la protagonista di “Lili Marleen”, del 1980, sempre con Hanna Schygulla nella parte della protagonista Willie, una cantante tedesca. Il film è tratto dal romanzo autobiografico, “Il cielo ha molti colori”, di Lale Andersen, la cantante che fece conoscere e portò al successo la canzone di Hans Leip e Norbert Schultze, “Lili Marleen”, durante la seconda guerra mondiale. La coppia è quella costituita da lei e dal musicista Robert Mendelsson (interpretato dal nostro Carlo Giannini), figlio di un ricco ebreo. Col padre e la sua organizzazione, Robert è impegnato a portare in Svizzera quanti più ebrei possibile e in questo è aiutato da Willie. Finché a Willie, il padre di Robert (un eccellente Mel Ferrer), essendo lei tedesca, riesce a proibirle di tornare in Svizzera, a Zurigo, dove la famiglia Mendelsson vive. Willie e Robert sono costretti a separarsi, ma lui continua ad insistere col padre per rivederla “Voglio sapere da che parte sta”, dice al padre che vuol conoscerne la ragione.
Ancora una volta un rapporto difficile dalla conclusione drammatica. Il film è anche un omaggio a questa celebre canzone, detestata da Joseph Goebbels (ma non da Hitler) poiché considerata una canzone di pace e troppo sentimentale per un esercito, quello tedesco, in guerra (proprio dal contrasto tra la canzone e le immagini di guerra si evidenzia lo forte critica di Fassbinder al regime nazista). Amo molto questo film per quell’amore costante e drammatico di Willie che rappresenta.

Lola”, del 1981, a cui farà seguito nel 1982 il film “Veronika Voss” (introvabile in commercio se non a prezzi proibitivi) è interpretata da Barbara Sukowa, una cantante che frequenta un grosso imprenditore della città di Coburgo, Schuckert (interpretato dal nostro Mario Adorf), il quale gestisce anche una casa di tolleranza. A Coburgo domina la corruzione tra pubblico e privato e Schuckert ne è il maggiore profittatore. Ma all’Assessorato ai Lavori Pubblici giunge un nuovo dirigente, Van Bohm (interpretato dall’attore tedesco Armin Mueller-Stahl), integerrimo e deciso a mettere ordine.
Lola si propone di sedurlo. Ne nascerà una relazione sconvolgente con cui Fassbinder metterà ancora una volta a confronto il rapporto uomo-donna. Viene in mente il film “L’angelo azzurro” del 1930 diretto da Josef von Sternberg, e interpretato da Marlene Dietrich, tratto dal romanzo “Professor Unrat” di Heinrich Mann, fratello del più famoso Thomas.

Sordi e Totò

Ho guardato una serie di film con Alberto Sordi ed ora sto guardando una serie di film con Totò.
Devo dire che quando qualche amico è giù di corda suggerisco di vedere qualcuno dei film di questi due grandi interpreti.
L’altro giorno lo feci nei riguardi di un amico che mi rispose che non li poteva soffrire, né l’uno né l’altro.
Invece sono due grandi attori, non sempre protagonisti di film eccellenti, ma sempre bravi nell’interpretare il loro personaggio.
Basti pensare che entrambi sono stati diretti più volte da quel grande regista della commedia all’italiana che fu il viareggino Mario Monicelli.
Non dobbiamo dimenticare poi che Totò si è meritata l’immortalità grazie a 2 capolavori come la poesia “‘A livella” e la canzone “Malafemmina”.

“Dogman” di Luc Besson

Del 2023 (visto su Prime Video poiché ancora non si trova il dvd in italiano).
Da non confondere con l’altro diretto da Matteo Garrone nel 2018.
Luc Besson è un regista raffinato che ci ha dato quel capolavoro che è “Giovanna d’Arco” del 1999.
In questo film narra invece la storia di un paraplegico che si circonda di cani che addomestica a sua difesa e anche per compiere brillanti furti nelle abitazioni di ceti abbienti.
Ci sono film, come questo, che hanno una storia intrigante che appassiona al pari di tante altre narrate in film di qualità, ma ciò che in alcuni è da segnalare è la bravura dell’interprete principale. Qui è il caso dell’attore statunitense Caleb Landry Jones, che interpreta la parte del paraplegico Douglas.
La metto, la sua interpretazione, a pari dell’altra che troviamo nel film “Il mio piede sinistro” del 1989 diretto da Jim Sheridan, in cui a farla da mattatore, nella parte dell’handicappato Christy Brown, in grado di muovere soltanto il piede sinistro, è un grande Daniel Day-Lewis, insignito proprio per questo dell’Oscar di migliore attore protagonista.

“Iwo Jima, deserto di fuoco” di Allan Dwan

Quanti film sono stati girati sull’ultima Guerra mondiale! Innumerevoli. Ma questo del 1949, a pochi anni dalla fine del conflitto, dedicato all’eroismo del corpo dei marines impegnati nel Pacifico contro i giapponesi, mantiene ancora, nonostante alcuni passaggi retorici, il fascino che ne decretò il successo alla sua uscita.
Il sergente di ferro John Stryker è superbamente interpretato da John Wayne.
Dopo questo film consiglio di vedere anche “Lettere da Iwo Jima” diretto da Clint Eastwood nel 2006, in cui la stessa battaglia è vista dalla parte dei giapponesi.

“L’amore segreto di Madeleine” di David Lean

Mi domando perché David Lean non amasse questo film, girato nel 1950 e ispirato ad un caso realmente accaduto in Scozia a metà dell’800. Ann Todd, peraltro molto brava, è la moglie del regista e interpreta la parte della protagonista, accusata di aver avvelenato l’amante.
Certo, il famoso regista britannico ha al suo attivo film che gli hanno dato una imperitura fama, al cui confronto “L’amore segreto di Madeleine” può sembrare una piccola cosa. Si pensi a: “Il ponte sul fiume Kwai” (1957); “Lawrence d’Arabia” (1962); “Il dottor Živago” (1966); “La figlia di Ryan” (1970) e “Passaggio in India” (1984). Ma anche in questo film la bravura del regista emerge in tutta la sua grandezza.
Le cupe atmosfere che vi si respirano sono abilmente guidate e le arringhe al processo che si terrà nella parte finale a carico della protagonista, sia da parte della difesa che da parte dell’accusa, sono magistralmente condotte e interpretate.

“Amistad” di Steven Spielberg

La guerra civile americana (1861-1865) ha un precedente significativo, vero e proprio prodromo: la rivolta nel 1839 degli schiavi ammassati sulla nave negriera Amistad, i quali, raccolti da una nave statunitense, saranno sottoposti a processo.
C’è, tra gli avvocati e i giudici, chi li considera uomini liberi e ne prende le parti e chi uomini schiavi meritevoli di una condanna, due correnti di pensiero che stavano dilaniando il Paese. A nord gli abolizionisti si battevano per la loro libertà e uguaglianza agli uomini bianchi; a sud li si considerava come una merce qualsiasi, sottoposta alla volontà del padrone.
La decisione della Corte Suprema, favorevole agli ammutinati, inasprirà gli animi e si sfocerà della nota e sanguinosa Guerra civile.
Steven Spielberg ci fa rivivere, con questo film girato nel 1997, la vicenda mostrandoci le atrocità commesse dai trafficanti, che arrivavano persino ad affogare gli schiavi che risultavano in soprannumero.
Rimasta celebre e famigerata, poiché, prima di essere imbarcati, venivano radunati lì, è la fortezza di Lomboko nella Sierra Leone, che sarà distrutta dagli inglesi.

“La mia Africa” di Sydney Pollack

La brava scrittrice danese Karen Blixen, autrice del romanzo autobiografico “La mia Africa”, non poteva augurarsi un regista migliore per la trasposizione cinematografica del suo capolavoro.
Pur prendendosi qualche libertà sul testo, il regista riesce a trasmetterci la fascinosa bellezza dell’Africa e il sentimento d’amore che per essa l’autrice nutrì fino alla morte.
Appartengono all’iniziativa di Pollack i bellissimi versi recitati da Meryl Streep (che interpreta l’autrice Karen Blixen) e tratti dalla raccolta poetica “A Shropshire Lad” di Alfred Edward Housman.
Del 1985, il film ottenne 7 Oscar e altri importanti premi internazionali.
Insieme a Meryl Streep, recitano Robert Redford e Klaus Maria Brandauer.
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Questa la poesia scelta dal regista:

“A un atleta morto giovane” tratta dalla raccolta “Un ragazzo dello Shropshire”

Il giorno che hai vinto la gara per la tua città
ti abbiamo applaudito sulla piazza del mercato.
Uomini e ragazzi si fermavano ad acclamarti
quando ti abbiamo portato a casa sulle nostre spalle.

Ragazzo scaltro, sei fuggito per tempo dai campi
dove la gloria non si ferma.
Presto tuttavia nasce l’alloro
e avvizzisce più in fretta della rosa.

Ora tu non andrai a raggiungere la schiera di ragazzi
il cui tempo degli onori è svanito,
corridori che la loro fama ha superato
e il nome muore prima dell’uomo.

Intorno al capo subito cinto dall’alloro
si raccoglieranno a guardare i morti senza vigore
e fra le tue ciocche di capelli troveranno intatta
una ghirlanda, piccola come di fanciulla.

“Il rito” di Mikael Håfström

Dopo Max von Sydow (L’esorcista, 1973, di William Friedkin) e Richard Burton (L’esorcista II – L’eretico, 1977, di John Boorman), anche Antony Hopkins ha voluto interpretare la parte seducente di un esorcista (Il rito, 2011, di Mikael Håfström).
Il primo è indubbiamente il migliore e infatti ebbe un grande successo e ancora oggi mantiene il suo fascino.
Ma anche gli altri 2 non sono male. Solo che nel film Il rito, Antony Hopkins da esorcista diviene posseduto dal diavolo e consente al grande attore inglese di esibirsi in questo ruolo in tutta la sua bravura.
Ovviamente, sono tutti e tre da vedere e confrontare.

“Il bacio della pantera” di Jacques Tourneur

È del 1942, girato in bianco e nero. Quarant’anni dopo, il 1982, un altro regista, Paul Schrader, ne fece un remake, questa volta a colori, chiamando ad interpretare la parte di Irena (la donna pantera) nientemeno che la bellissima Nastassja Kinski. Quest’ultimo film vale per la presenza della Kinski, che vi esibisce tutto il suo fascino e la sua bravura.
Ma Paul Schrader non può competere con Jacques Tourneur, un vero maestro dell’horror, che riesce a creare una continua atmosfera di suspence e di terrore. La sua Irena, interpretata da Simone Simon, se non raggiunge la bellezza della Kinski, forse la supera nel ruolo.
Girati in bianco e nero, questi particolari film, che trattano della bivalente, inquietante e misteriosa natura umana, fiorirono nei primi decenni del 1900 trovando un massiccio riscontro presso il pubblico. Si pensi a “Dr. Jekyll e Mr. Hyde”, del 1941, diretto da Victor Fleming e interpretato dal grande Spencer Tracy e a “L’uomo lupo”, sempre del 1941, diretto da George Waggner e interpretato dall’altrettanto grande Lon Chaney Jr.

John Wayne, Maureen O’Hara e Katharine Hepburn

Il mitico John Wayne fa coppia prima con l’una poi con l’altra, dando vita a interpretazioni delle 2 attrici memorabili.
Con Maureen O’Hara (una delle mie attrici preferite), ciò avviene nel film “Un uomo tranquillo”, del 1952, diretto da John Ford, che vinse l’Oscar per la regia, dove assistiamo ad un’epica scazzottata tra il protagonista e il fratello della Hepburn, il bravo Victor McLaglen. Magnifica la verde Irlanda dove si svolge la storia. E poi, guardate come accende i fiammiferi John Wayne.
Con l’altra attrice, ciò avviene nel film western “Torna El Grinta”, del 1975, diretto da Stuart Millar (sequel de “Il Grinta”, del 1969, del regista Henry Hathaway), con John Wayne e Katharine Hepburn (unico film in cui hanno recitato insieme), in cui la conversazione tra i due sul carro recuperato dai banditi è irripetibile, tanto è ironica e sottile.
La Hepburn sarà una straordinaria protagonista, in coppia con Laurence Olivier, anche nel film per la Tv “Amore tra le rovine”, del 1975, diretto da George Cukor, al momento introvabile in dvd in italiano. Lui dirà a lei: “Invecchia con me. Il bello deve ancora venire.”.

I film “Grandi speranze” di David Lean/ e di Mike Newell

I grandi romanzi (inutile fare un elenco) hanno sempre attirato la settima arte, ossia il cinema. Registi sensibili ne hanno spesso fatto delle trasposizioni eccellenti. È mia convinzione, addirittura, che il romanzo moderno sia meglio rappresentato dal cinema.
Charles Dickens, per molto tempo considerato uno scrittore minore, era talmente dotato che a soli 24 anni, nel 1836, pubblicò nientemeno che “Il circolo Pickwick”, a cui seguirono altri capolavori come “Le avventure di Oliver Twist”, il famosissimo racconto “Canto di Natale”, “David Copperfield”, “Casa desolata”, “Tempi difficili”, e, nel 1860, il romanzo che ci interessa: “Grandi speranze”.
Il noto regista David Lean lo volse in film, con lo stesso titolo, nel 1946.
Il film in qualche passaggio eccede un po’ nel sentimentalismo (si veda lo stesso finale), ma ha anche tratti vigorosi quando si occupa della Londra pervasa dalla povertà e dai criminali che venivano puniti segregandoli in condizioni pietose a remare nelle navi chiamate galere.
Nel mio romanzo “Caro papà, Caro figlio” immagino di vedere ogni tanto comparire sul tetto della mia casa Charles Dickens, ed anche altri, come Thomas Hardy, uno tra i grandi da me preferito. A tal proposito, do questa descrizione: “Ho visto Dickens più di una volta, circondato dai suoi personaggi. Quello che non lo lascia mai è Pickwick, gli sta sempre tra le gambe, qualche volta rischia perfino di precipitare dal tetto, se non fosse che Dickens, conoscendolo come nessun altro, lo afferra in tempo per la giacca. Pickwick agita le sue gambette e volta il viso in su a guardare il suo autore, non so se per ringraziarlo dello scampato pericolo o perché preferirebbe che lo calasse in strada, per poter salire magari su di un’auto e conoscere le sorprendenti novità di questo mio tempo. Ma Dickens non lo perde di vista, e credo che non lo lascerà mai andare.”.
Nel 2012 il regista Mike Newell realizzò un remake, sempre con lo stesso titolo. Lo preferisco a quello di David Lean. È piuttosto raro che un regista poco conosciuto si confronti con un maestro riconosciuto del cinema e ne risulti migliore.
Ciò che, a mio avviso, accade nel suo film, abbellito fra l’altro dal colore, mentre il film del 1946 era in bianco e nero. Newell riesce a controllare meglio le scene romantiche, evitando che si provi, sia pure per un istante, una sgradevole sensazione di rigetto. Si veda come dirige la conclusione del film, a differenza di quanto fatto da Lean. Inoltre, si avvale di un interprete eccellente come Ralph Fiennes nella parte del forzato Abel. Bisogna dire che anche David Lean per lo stesso ruolo aveva scelto un attore di pregio come Finlay Currie, che abbiamo visto come bravo caratterista in film quali “Ivanohe”, “Quo vadis?”, “Ben-Hur”, Da segnalare nel film di Lean la presenza di un giovane Alec Guinness nella parte dell’amico del protagonista Pip, ossia Herbert Pocket.

Josef von Sternberg

I giovani di oggi sono abituati a film di alta tecnologia, la quale è diventata fondamentale per creare scene seduttive. Ma nei primi decenni del ‘900 era l’esclusiva mano del regista a creare la magia del cinema.
Pensate al grande Sergej Ėjzenštejn.
Il regista di origine austriaca Josef von Sternberg, mi permetto di dire, arriva al suo livello almeno con 2 film che io suggerisco di vedere.
Il primo (tratto dal romanzo “Professor Unrat” di Heinrich Mann, fratello del più famoso Thomas) è “L’angelo azzurro” del 1930 con Marlene Dietrich in cui si deve segnalare l’interpretazione maiuscola di Emil Janning nella parte del professor Rath.
Il secondo, del 1934, è “L’imperatrice Caterina”, sempre con Marlene Dietrich, in cui va segnalata l’interpretazione di Sam Jaffe nella parte dell’imperatore Pietro III, marito di Caterina.

“Madame Bovary” di Claude Chabrol

Il romanzo omonimo di Gustave Flaubert ha avuto molte trasposizioni cinematografiche, tanto è famoso questo capolavoro, imperniato su una donna, Emma Bovary, in preda ai sogni e alle illusioni che porteranno lei al suicidio e il marito Gustave, medico condotto, ad una morte prematura, nonché la piccola Berthe, loro figlia, ad un destino di povertà.
Non ho mai amato il personaggio di Emma Bovary, che non vuol dire non amare il romanzo, nel quale proprio Flaubert ha voluto creare una figura che rappresenti la sciagurata fine di chi si lasci possedere da sogni e desideri che vadano oltre le proprie condizioni.
“Madame Bovary” è un film del 1991 diretto da Claude Chabrol, con Isabelle Huppert nel ruolo della protagonista, Emma Bovary, e ritengo che sia il migliore tra quelli prodotti sul romanzo. Vi s’incontrano, infatti, due anime felicemente ispirate e in sintonia, quella dell’autore del capolavoro e quella di Chabrol, eccellente regista.

“Il nastro bianco” di Michael Haneke

Girato nel 2009 dal regista austriaco, vinse la Palma d’oro nello stesso anno.
Tuttavia, credo che sia un film poco conosciuto, nonostante le sue qualità. Vale la pena consigliarne la visione.
Siamo nel Nord della Germania in un villaggio protestante. Qui accadono strani incidenti: morti, suicidi, sevizie, di cui non si riesce a trovare il colpevole. Il mistero resterà tale fine al termine lasciando lo spettatore sorpreso ed incerto.
Il film vale per le atmosfere rigide e cupe che lo percorrono sino alla fine, con personaggi incastonati all’interno delle regole di un protestantesimo severo.
Nel vederlo possono venire in mente “Fanny & Alexander” del grande Ingmar Bergman (1982) e “Il pranzo di Babette” di Gabriel Axel (1987).
Va ricordato che quest’ultimo film è tratto dall’omonimo racconto di Karen Blixen, la grande scrittrice danese, ed è insieme con “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman (1957) in cima alla classifica dei miei film preferiti. “Il pranzo di Babette” era anche il film preferito da Papa Francesco I.

“La figlia di Ryan” di David Lean

Ci sono film che non finiremmo mai di guardarli. Appena tocca il loro turno, ci coglie un’emozione, un soprassalto e non vediamo l’ora di metterci comodi sulla nostra poltrona e guardarcelo.
Uno di questi casi, mi accade con “La figlia di Ryan”, del 1970, diretto da un maestro del cinema, David Lean.
È ambientato in Irlanda, nella penisola di Dingle ai primi del Novecento.
Ci sono stato in quei luoghi e ne ritrovo la magia e l’incanto nel film, dove una ragazza, Rosy Ryan (interpretata da una giovane e bella Sarah Miles), sposata col maestro del villaggio Charles Shaughnessy (interpretato da Robert Mitchum), si innamora di un ufficiale inglese (siamo negli anni delle rivolte irlandesi contro gli occupanti inglesi) e cade nel pettegolezzo del villaggio in cui abita e viene isolata e poi cacciata poiché creduta una spia degli inglesi. Il marito la comprenderà e lascerà il villaggio insieme con lei.
Certe scene sono imponenti come quella del recupero delle casse di armi e munizioni destinate ai ribelli trascinate da onde enormi dell’oceano in tempesta.
Tre sono le interpretazioni che desidero segnalare, quella di Trevord Howard nella parte di padre Collins, quella di Leo McKern nella parte del padre di Rosy, Thomas Ryan e John Mills nella parte di Michael, lo scemo del villaggio (gli fu assegnato nel 1971 il Premio Oscar come migliore attore non protagonista).

“Alfredo il Grande” di Clive Donner

C’è stato un tempo in cui i film ambientati nel medioevo andavano a ruba. Ve n’erano di scadenti, ma anche alcuni degni di essere ricordati e che ancora oggi si guardano volentieri. Qualche esempio: “Ivanhoe” del 1952, “I cavalieri della Tavola Rotonda” del 1953, “il leone d’inverno” del 1968 che vede protagonisti due attori eccezionali, Peter O’Toole nella parte di Enrico II d’Inghilterra e Katharine Hepburn nella parte della regina Eleonora d’Aquitania, nonché un giovane Anthony Hopkins nella parte di uno dei 5 figli, Riccardo (il futuro Riccardo Cuor di Leone).
“Alfredo il Grande”, un altro di questi film degno di nota, esce nel 1969 e ha come interprete principale David Hemmings, che abbiamo conosciuto come protagonista di “Blow up”, del 1966, uno dei capolavori di Michelangelo Antonioni.
In “Alfredo in Grande” si scende al IX secolo d.C e ci troviamo di fronte alla resistenza dei Sassoni, abitanti il Wessex, la parte meridionale dell’Inghilterra, all’invasione dei danesi.
Clive Donner, il regista, nel 1993 girerà una serie televisiva ambientata grosso modo nello stesso periodo e dedicato alla figura di Carlo Magno.

“Galileo” di Liliana Cavani

Affrontare la complessa figura di Galileo Galilei non è cosa facile. Ci troviamo di fronte ad uno scienziato che sa di avere ragione, eppure abiura i risultati delle proprie ricerche per paura di essere condannato al rogo, come è accaduto all’amico Giordano Bruno che, rifiutando di abiurare, viene arso vivo. A Roma, nel luogo in cui fu eseguita la sentenza, Piazza di Campo de’ Fiori, è stata eretta nel 1889 una statua che lo ricorda.
La Cavani con questo film del 1968, in uno stile dalla asciutta drammaticità, mette a fuoco il conflitto tra scienza e fede impersonata, quest’ultima, da una chiesa chiusa alle nuove scoperte e ancorata rigidamente e in modo intollerante alle Sacre Scritture e agli scritti di Aristotile e di San Tommaso d’Aquino.

“Il sangue dei vinti” di Michele Soavi

Giampaolo Pansa pubblicò il suo celebre romanzo storico nel 2003 che sollevò molte critiche e un’ampia discussione tra favorevoli e contrari alle sue tesi, in cui sosteneva che dopo il 25 aprile 1945 (fine della Seconda Guerra mondiale in Italia) si aprì un lungo periodo di sanguinose vendette, soprattutto da parte dei partigiani nei confronti di personaggi e famiglie che si erano schierate con la Repubblica Sociale di Salò.
Michele Soavi lo trasforma in film nel 2008 mantenendo lo stesso titolo.
È la storia di un commissario di polizia, Francesco Dogliani, interpretato da Michele Placido, che, volendo indagare sulla morte di una prostituta, si trova coinvolto nella guerra civile che vede il fratello Ettore schierato coi partigiani e la sorella Lucia, invece, coi repubblichini.
Soavi dà misura alla sua felice e suggestiva narrazione, non dimenticando, tuttavia, di mostrarci crudamente le atrocità commesse in quel sanguinoso e orribile periodo storico.

“Italiani brava gente” di Giuseppe De Santis

Giuseppe De Santis aveva già diretto nel 1949 il film capolavoro “Riso amaro” con una straripante Silvana Mangano e un estroverso e simpatico Vittorio Gassman.
E nel 1957 un film a cui tengo molto per le straordinarie suggestioni che evoca (si pensi all’assalto dei lupi affamati nel piccolo paese di montagna, bianco di neve), “Uomini e lupi”, codiretto insieme con il regista Leopoldo Savona e interpretato da Yves Montand e, ancora, da Silvana Mangano.
Nel 1964 dirige “Italiani brava gente”, in bianco e nero. È un film che ha tracce di retorica celebrativa, soprattutto nella prima parte, ma che è assolutamente da vedere per gli ampi paesaggi in cui si collocano gli scontri tra gli invasori italiani e tedeschi e i russi che fanno terra bruciata e li costringono ad una tragica e umiliante ritirata. Tra le scene segnalo quelle in cui si vedono sterminati campi di girasoli, che fanno pensare al film “I girasoli” (questa volta a colori) girato appena qualche anno dopo, nel 1970, da Vittorio De Sica.

“Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick” di Ron Howard

È del 2015. Leggo che alla critica non è piaciuto. A me, invece, sì, e molto.
Vi sono scene possenti come la caccia alle balene, l’affondamento della baleniera Essex e il viaggio tragico dei superstiti, soltanto alcuni dei quali sopravvivranno, come pure le scene dei vari porti d’attracco tutte minuziose e suggestive. Siamo agli inizi del XIX secolo e l’olio di balena vale quanto e più dell’oro. Da qui la caccia.
Mentre il celebre film “Moby Dick, la balena bianca” di John Huston, del 1956, tratto dal romanzo di Herman Melville, ci narra la caccia alla balena bianca che ha reso invalido il capitano Achab, che vuole vendicarsi, il film di Howard, tratto dal libro “Nel cuore dell’oceano – La vera storia della baleniera Essex”, scritto da Nathaniel Philbrick nel 2000, ci racconta il primo incontro della baleniera Essex (Melville la chiamerà “Pequod”) con la balena bianca. Howard finge che questa storia sia raccontata a Melville da uno dei superstiti.

“Gli occhiali d’oro” di Giuliano Montaldo

L’autore del romanzo, uscito nel 1958, è Giorgio Bassani, uno scrittore che ammiro.
Fu lui a scoprire il valore di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e del suo capolavoro “Il Gattopardo”, rifiutato da varie case editrici e infine, su sollecitazione di Bassani, pubblicato da Feltrinelli nel 1958.
Il film “Gli occhiali d’oro”, ambientato come altri romanzi dell’autore, nella sua Ferrara, e diretto da Giuliano Montaldo nel 1987, ci mostra quanto il fascismo a poco a poco s’imponga nella società e provochi dolori e lacerazioni. È proprio questo clima che rende interessante e fecondo il film. L’atmosfera si fa sempre più pesante e personaggi degni di stima come il medico Athos Fadigati (interpretato da un eccellente Philippe Noiret), omosessuale, e lo studente ebreo Davide Lattes vengono dalla società via via isolati e respinti. Sono i prodomi di un fascismo che si farà sempre più feroce e tracotante. Nora (interpretata da Valeria Golino), la fidanzata di Davide, anch’essa ebrea, preferirà diventare cattolica, impaurita dalle incombenti leggi razziali. Da segnalare una simpatica e pettegola Stefania Sandrelli.
Bassani, anch’egli ebreo, fu molto sensibile nei riguardi di questi temi. Li tratterà ancora (per citare solo qualche esempio) ne “Il giardino dei Finzi-Contini”, tradotto in film da Vittorio De Sica nel 1970, e in “La notte del ‘43”, volto in film da Florestano Vancini nel 1960 con il titolo “La lunga notte del ‘43” (qui da segnalare le interpretazioni maiuscole di Enrico Maria Salerno e di Gino Cervi).

“La valle dell’eden” di Elia Kazan

Film come “La valle dell’Eden”, del 1955 (tratto dal romanzo omonimo di John Steinbeck), “Scandalo al sole” di Delmer Davis del 1959 e “A casa dopo l’uragano” di Vincente Minnelli, del 1960, rappresentarono un filone, un po’ decadente ma con quel tanto di romanticismo da decretare un invidiabile successo presso il pubblico. “Scandalo al sole”, in aggiunta, si avvaleva di una colonna sonora di Max Steiner, che si diffuse rapidamente in tutto il mondo.
“La valle dell’Eden”, vede protagonista un giovane James Dean (agli esordi), presto scomparso a causa di un incidente stradale, ma subito diventato un mito. In realtà, a mio avviso, in questo film pecca di qualche eccedenza, una specie di gigioneria, ma la sua recitazione resta di ottimo livello. Interpreta la parte di Cal, figlio di un grosso agricoltore, che vive in una condizione irrequieta e disagiata in quanto il padre ama più di lui suo fratello Aron. Siamo agli albori della Prima guerra mondiale. Entrambi sono convinti, poiché così ha detto loro il padre, che la madre sia morta. Invece è viva e conduce un locale di malaffare ricavandone grossi guadagni. Cal, che la cerca e la rintraccia sul posto di lavoro, la farà conoscere anche al fratello che ne rimarrà tragicamente colpito.
Ci sono momenti in cui il film ricorda, per il difficile rapporto padre-figlio, “La gatta sul tetto che scotta”, degli stessi anni, ossia del 1958, diretto da Richard Brooks, tratto dall’omonimo dramma teatrale di Tennessee Williams.

“Cuori ribelli” di Ron Howard

La prima volta che vidi questo film, uscito nel 1992, non ne fui particolarmente colpito. I 2 attori protagonisti, Nicole Kidman e Tom Cruise, interpretavano maiuscolamente la loro parte, ma qualcosa non mi soddisfaceva. Sbagliavo. Rivisto dopo tanti anni, il film mi è parso ben condotto da Ron Howard, un regista che vanta un’esperienza invidiabile. Lo abbiamo già incontrato, in questo mio viaggio nel cinema, nel film “Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick” del 2015.
In “Cuori ribelli” si narra la storia di una famiglia irlandese, quella di Joseph Donnelly (Tom Cruise) che dall’Irlanda emigra in America, dove è possibile conquistare una terra e farla propria. Anche un’altra famiglia irlandese, ricca ma ridotta in rovina dalla rivolta dei contadini, decide la stessa destinazione. Ne fa parte un’audace e indipendente ragazza amata da Joseph, Shannon Christie (Nicole Kidman). Riusciranno nell’impresa. Il film ha 3 pregi. Nella prima parte ci mostra una incantevole Irlanda della fine dell’Ottocento, immersa nel verde e con casupole sparse qua e là con sullo sfondo il mare. Un’Irlanda dove i signori fanno il bello e cattivo tempo. La casa della famiglia di Joseph viene data alle fiamme proprio perché è in ritardo col pagamento dell’affitto.
La seconda parte ci mostra i 2 protagonisti che, incontratisi in America, vivono insieme facendosi passare per fratello e sorella e cercano di sopravvivere agli stenti e ad una vita violenta che li circonda.
La terza parte è la più scenografica con la corsa con cavalli, carri ed altri mezzi di ogni genere, per conquistare la terra e farla propria.
Guardando e ammirando la corsa viene in mente quella girata da Anthony Mann nel suo celebre “Cimarron” del 1960. Ma ne riparlerò presto.

“Cimarron” di Anthony Mann

Fatevi voi i conti. Possiedo più di 2.300 film e ne vedo almeno 1 al giorno (qualche volta, d’inverno, anche 2). Così ci vogliono circa 6 anni perché io concluda il ciclo. In questi giorni, sono vicino alla ennesima conclusione, e ricomincerò il giro con il genere western (la mia passione).
“Cimarron” del 1960 (che è un remake di “I pionieri del West” di Wesley Ruggles, del 1931 ed è ispirato al romanzo omonimo scritto da Edna Ferber) lo anticipa, poiché, come scrissi, la scena della corsa per accaparrarsi terre donate gratuitamente dallo Stato dell’Oklahoma in America (oltre un milione di ettari, già divisi in poderi) che abbiamo visto in “Cuori ribelli” di Ron Howard, del 1992, ha in “Cimarron” un illustre precedente. Del resto, il regista è nientemeno che Anthony Mann, che ha al suo attivo una innumerevole serie di film, tra cui, per restare nel western, “Winchester ’73” del 1950 e “Là dove scende il fiume” del 1952.
Si ha quasi l’impressione che, ripensando alla complessa scena da realizzare, Ron Howard abbia voluto aprire un confronto con il grande maestro, morto nel 1967, ossia 7 anni prima.
Yancey “Cimarron” Cravat è il nome del protagonista, interpretato da Glenn Ford, un pioniere del West che vive il suo tempo accanto ad una moglie, Sabra, interpretata da una dolcissima Maria Shell, che ne condivide, in sostanza, le idee. Si batte per la difesa dei più deboli e con la moglie dirige un giornale per diffondere le proprie idee. Sarà sempre in giro (“La terra già ti brucia sotto i piedi, come è sempre stato” gli diranno) preso dai suoi impegni, e la moglie verrà a sapere, nel corso di una festa per il giornale, che il suo amato sposo è morto nel corso di una delle sue tante battaglie in difesa della giustizia (Si dirà, nella bella conclusione del film: “Uomini come lui fanno la Storia”).
Il film non ebbe una lusinghiera accoglienza (infatti, questo film si potrebbe definire un insolito western di buoni sentimenti, ma è negativo tutto ciò?), tuttavia, basta guardarlo, per capire che i detrattori furono troppo severi.

“Giovani mariti” di Mauro Bolognini

Il nome del regista è importante per la storia del cinema. Ma questo film non è all’altezza della sua fama. Allora perché ne scrivo? Perché sono lucchese e questo film è tutto girato a Lucca. È del 1958 e si vede la città come era a quel tempo, a pochi anni dalla fine della guerra. Le Mura, l’Anfiteatro, Piazza Napoleone, Piazza San Michele, Piazza San Martino, Via dei fossi, ed altro ancora, sono il suggestivo sfondo di una storia di giovani che, dai primi bagordi, scoprono a poco a poco che cos’è la vita. Gli interpreti avevano acquistato un po’ di notorietà proprio in quegli anni, e avrebbero lasciato un segno nel cinema. Ne cito alcuni: Franco Interlenghi, Antonio Cifariello, Gerard, Blain, Antonella Lualdi, Sylva Koscina, Anna Maria Guarnieri.

“Con gli occhi chiusi” di Francesca Archibugi

È tratto dall’omonimo romanzo del senese Federigo Tozzi, uno scrittore che amo. Di questo romanzo, mi sono occupato qui.
Una regista coi fiocchi, Francesca Archibugi, ha pensato di tradurlo in un film nel 1994; film che è riuscito a rendere la campagna senese e la vita che vi si conduceva con un verismo e una secchezza di stile che l’avvicina allo stesso Tozzi.
Vi si narra una drammatica storia d’amore non condiviso tra Pietro, figlio del proprietario di un’avviata trattoria e di una fattoria, Domenico (uno straordinario Mario Messeri) e Ghisola che vive coi nonni nella stessa fattoria. Ghisola (una giovane e splendida Debora Caprioglio) finirà col frequentare case di prostituzione e rimarrà incinta. Nel constatarlo, Pietro le cadrà davanti svenuto. Il film termina, come del resto il romanzo, con queste parole: “Quando si riprese dalla violenta vertigine che l’aveva abbattuto lui non l’amava più”.
Da annotare la presenza della cantante livornese Nada, che tanto successo ebbe anni fa.

“Giungla d’asfalto” di John Houston

“Il delitto è solo una forma sinistra della lotta per la vita”, lo dice a sua moglie un avvocato criminale, tra i responsabili di un grosso colpo alla banca.
Il genere gangster ha avuto momenti di grande successo, per merito di personaggi che sono realmente vissuti, come Al Capone, e che hanno sparso molto sangue pur di arricchirsi con la criminalità.
“Giungla d’asfalto” del 1950 è uno di questi film condotto con maestria da uno dei migliori registi, John Houston (bravo anche come attore). Gli autori del colpo saranno tutti identificati e arrestati e Houston ne approfitta per tessere le lodi della polizia americana, nonostante tratti di corruzione. Peccato che la parte finale risulti un po’ debole. Tra gli interpreti un attore, Sterling Hayden, che fu protagonista di un western divenuto un classico (anche per bella canzone scritta da Victor Young e Peggy Lee e interpretata dalla stessa Peggy Lee), “Johnny Guitar”, del 1954, diretto da Nicholas Ray, in cui troviamo una splendida Joan Crawford.
Da annotare la presenza di una giovane esordiente, e già bellissima, Marilyn Monroe e la maiuscola interpretazione de “Il dottore”, l’ideatore della rapina alla banca, impersonato da un impeccabile Sam Jaff.

“Il libro della Giungla” di Zoltan Korda

Oggi i film per ragazzi vedono dominare figure come Harry Potter creato dalla esuberante fantasia della scrittrice britannica J.K. Rowling. Ai tempi della mia infanzia i film non si avvalevano delle moderne tecnologie e si dovevano fare salti mortali per costruire scene che attirassero il pubblico.
Zoltan col suo “Il libro della giungla”, uscito nel 1942, ci riuscì ed erano gli anni in cui nascevo. È tratto dal celebre romanzo omonimo di Rudyard Kipling col quale l’autore britannico vinse nel 1907 il Premio Nobel a 41 anni, ancora oggi il più giovane scrittore a ricevere questo alto riconoscimento. Kipling nacque proprio in India, a Bombay, nel 1865. Visitò molti Paesi, ma l’India gli rimase nel cuore e ne arrivò a conoscere tutto il fascino e tutti i misteri. Nel film, come nel romanzo, si narra la storia di un bambino disperso nella foresta indiana e allevato dai lupi. Mowgli il suo nome. Conosciuto il mondo degli uomini, e deluso, farà ritorno alla giungla.
Il film è ben fatto, lussureggiante e godibile, ma ne scrivo poiché desidero ricordare la figura dell’attore che interpreta la parte di Mowgli, Sabu Dastagir, conosciuto in tutto il mondo semplicemente come Sabu.
Allo stesso modo in cui i giovani d’oggi adorano Harry Potter, al tempo della mia infanzia Sabu godeva della stessa fama per i personaggi interpretati. Fu protagonista, infatti di altri 2 celebri film: “Il ladro di Bagdad”, del 1940, regia di Ludwig Berger, Michael Powell e Tim Whelan, e “Le mille e una notte”, del 1942, di John Rawlins.

“L’uomo di Alcatraz” di John Frankenheimer

È del 1962 ed è tratto da una storia vera. L’amore per gli animali (soprattutto gli uccelli), le difficili condizioni del carcere, la capacità di sconfiggere l’isolamento (il protagonista Robert Stroud, interpretato da un ineguagliabile Burt Lancaster, ha ucciso la moglie ed è stato condannato a vita) dedicandosi agli studi più vari (ornitologia e medicina soprattutto), diventando una celebrità, sono alcuni dei temi che arricchiscono questo bel film diretto da John Frankenheimer.
Esso mi ricorda che mio padre, Raffaele, è stato quella che una volta si chiamava guardia carceraria ed oggi agente di Polizia Penitenziaria. Ha fatto servizio in varie carceri (Pianosa, Lucca, Volterra, sono quelle che ricordo). L’ho immaginato alle prese con i problemi denunciati nel film.
Il protagonista, pur in presenza di difficoltà, riesce ad allevare, prima un passerotto, poi una coppia di canarini, che diventeranno tanti.
Il modo in cui li nutre e insegna loro a volare ricorda il tempo in cui anche Raffaella ed io allevammo Celeste, la rondine a cui ho dedicato un libro, e qualche mese fa una cinciallegra. Mi sono ritrovato in quei gesti pazienti e amorosi.

“Il segno della legge” di Anthony Mann

È un western in bianco e nero del 1957. Un giovane sceriffo (Anthony Perkins) si trova a gestire una cittadina in cui domina un signorotto che s’impone con l’uso della pistola. Vi capita un cacciatore di taglie (Henry Fonda) che si accorge che il giovane sceriffo è ancora immaturo e impreparato a proteggere la cittadina. Così gli insegna a sparare e a difendersi. Finché trionferà il bene, come succede spesso nel genere western.
Il film non ha nulla di eccezionale, senonché il grande Anthony Mann sa gestire la tensione e fa scorrere la storia anche attraverso un amore che sorge tra il cacciatore di taglie ed una donna, vedova di un indiano, ucciso a causa delle discriminazioni razziali. Si sposeranno, portando con sé il figlio di lei.
Per dire del valore di Anthony Mann basta far notare che pochi anni prima aveva diretto film come: Winchester ’73 (1950); Quo vadis, insieme con Mervyn LeRoy (1951); Là dove scende il fiume (1952); Lo sperone nudo (1953) e L’uomo di Laramie (1955).
E qualche anno dopo girerà: Cimarron (1960), di cui si è già scritto e El Cid (1961).

“Il siciliano” di Michael Cimino

Mario Puzo, col suo romanzo omonimo, ha ispirato questo film del 1987, così come il suo capolavoro “Il padrino” ispirò il celebre film di Francis Ford Coppola del 1972, con l’indimenticabile Marlon Brando.
Ne “Il siciliano” la parte del protagonista è assegnata a un divo del cinema, Christopher Lambert, che con il suo leggero strabismo di Venere ha fatto innamorare chi sa quante donne in tutto il mondo.
Si narra la storia di Salvatore Giuliano, il bandito nato a Montelepre, in Sicilia, che combatté contro lo strapotere della classe dominante per togliere ai ricchi e dare ai poveri. Ma i delitti commessi non ne fanno un santo. È ricordata anche la strage di Portella della Ginestra, in cui morirono 11 persone durante un comizio del partito comunista.
Su questo film espressero delle riserve Leonardo Sciascia e Tullio Kezich, che fu un autorevole critico cinematografico.
Ma a me il film piace e sono orientato a condividere il giudizio dello scrittore e regista Francis Xavier Feeney, che lo definì il miglior film prodotto in quell’anno, il 1987.
Del resto, non si deve dimenticare che abbiamo di fronte un regista, Michael Cimino, che qualche anno prima, nel 1978, aveva diretto “Il cacciatore”.

“Macbeth” di Orson Welles

Se non arriva a battere le trasposizioni cinematografiche di “Amleto”, la celebre tragedia di William Shakespeare, quest’altra tragedia del bardo inglese, “Macbeth”, le sta alle costole.
Una delle trasposizioni più celebri è quella a colori di Roman Polanski, del 1971, con quell’inizio favoloso che è difficile da dimenticare.
Nel 1948 ci prova nientemeno che Orson Welles, in una pellicola in bianco e nero, cui viene messo a disposizione un budget risicato che lo costringerà ad una trasposizione con scene povere create, tuttavia, dal suo ingegno immaginifico. E pensare che nel 1941 aveva dato vita ad uno dei capolavori di ogni tempo, “Quarto potere”.
La storia di “Macbeth” è nota. Un uomo ambizioso è preconizzato re da tre streghe che gli diranno che egli regnerà fino a quando una foresta di alberi si muoverà incontro al suo castello. Per diventare re dovrà uccidere Duncan, il sovrano di Scozia in carica e lo farà sospinto dalla moglie. L’assassinio graverà pesantemente sulla loro nuova vita fino a concludersi, la storia, in tragedia.
Alcuni primi piani sono memorabili e ricordano, almeno lo hanno ricordato a me, quelli del grande Eisenstein.

“The Others” di Alejandro Amenábar

È un film del 2001, giusto per gli amanti dell’horror.
Una donna (Nicole Kidman) vive coi 2 figli in una casa. Nella casa si devono tenere le tende chiuse, poiché i bambini non sopportano la luce. Succede che sentono dei rumori e la bambina ha degli strani incontri con un altro bambino, un certo Victor. La madre non ci crede e la rimprovera. A mano a mano si rende conto, però, che nella casa ci sono degli intrusi che interferiscono con la loro vita.
La trovata del regista cileno, e che si rivela nel finale, è che quelli che per tutta la durata del film sono chiamati gli intrusi, in realtà sono una famiglia che vuole abitare in quella casa, ma deciderà di andarsene, poiché ci sono degli intrusi, che sono proprio la madre coi 2 bambini, morti tragicamente.
Vi si respirano le atmosfere di “Shining” il capolavoro di Stanley Kubrick, del 1980.

“King Kong” di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsac

Questo film resta ancora oggi una meraviglia. Quando uscì nel 1933 la gente faceva la fila per vederlo.
Ne sono stati fatti altri inseguito, e uno di questi, diretto nel 1976 da John Guillermin, lanciò nel cinema la splendida Jessica Lange, nella parte della bella amata dalla bestia, ossia dal gorilla Kong.
Il film del 1933 è in bianco e nero (esiste anche una versione colorizzata) e stupisce per la bravura dei due registi che hanno costruito scenografie che a quei tempi apparivano quasi irrealizzabili. Le lotte del gorilla contro i tanti animali preistorici che incontra sono un esempio. Famosa e divenuta leggendaria e immortale quella tra Kong e gli aeroplani, che lo uccideranno, sulla cima dell’Empire State Building.

“Morte di un commesso viaggiatore” di Volker Schlöndorff

È tratto dal celebre dramma di Arthur Miller.
Nel 1967, sotto la regia di Edmo Fenoglio, il protagonista Willy Loman fu interpretato da Tino Buazzelli, un grande attore, purtroppo dimenticato, morto ancora giovane, a 58 anni, nel 1980.
Nel 1985 fu Dustin Hoffman a ricoprire il ruolo del commesso viaggiatore in un film diretto da Volker Schlöndorff.
Resta difficile scegliere chi dei due attori fu il più bravo, essendo state le loro interpretazioni tutte di alto livello.
Per questo ruolo, Hoffman vinse un Golden Globe e un Emmy Award.
È la storia di un commesso viaggiatore che ha tanti sogni nel cassetto a pro della famiglia, ma i clienti a poco a poco scemano, gettandolo nello sconforto che lo porterà a perdere la ragione e alla morte.
Ha 2 figli, e per loro sogna un destino migliore, ma con essi, insoddisfatto del presente, è sempre in conflitto, soprattutto con Biff, interpretato da un già bravo John Malkovich.
Vengono in mente altre straordinarie interpretazioni di Dustin Hoffman, con le quali questo film può essere messo a paragone, ad esempio: “Un uomo da marciapiede” di John Schlesinger (1969); “Tootsie” di Sydney Pollack (1982); “Rain Man – L’uomo della pioggia” di Barry Levinson (1988).

“Un uomo da marciapiede” di John Schlesinger

Un giovane e bello John Voight (nella parte del texano Joe Buck), chewing-gum in bocca, radiolina nella mano, stivali lucidi, giacca con pendagli alla cow-boy, ma ossessionato dal passato, va, fiducioso, alla conquista di New York, sicuro che la sua bellezza gli porterà fortuna e denaro.
È un film del 1969 diretto da John Schlesinger, tratto dal romanzo omonimo di James Leo Herlihy.
Nella grande metropoli incontra un italo-americano, Enrico Rizzo (“Rico”), uno zoppo dalla salute cagionevole che vive di furtarelli e imbrogli vari e ne nasce un’amicizia. La parte di Rico, detto anche nel film “Sozzo” per la sua misera condizione, è interpretata da Dustin Hoffman. Una coppia riuscita. Ci troviamo immersi in una New York infima e corrotta che a poco a poco deluderà il cow-boy (che era arrivato convinto di fare il cigolò e farsi pagare dalle donne) e trasformerà l’amicizia tra i due in un calvario, che vedrà, però, Joe fare di tutto per realizzare il sogno di Rico di trasferirsi a Miami, dove un clima migliore avrebbe giovato alla sua salute. Joe riesce a rimediare il denaro necessario, ma lungo il viaggio Rico muore. Il film è anche, pur in mezzo a tanto degrado, un inno all’amicizia e vanta una canzone che ebbe un successo mondiale e ancora oggi ammalia: “Everybody’s Talkin’ “di Fred Neil, cantata da Harry Nilsson. Magnifica la scena in cui Rico sogna di correre, non più zoppo, con l’amico sulla spiaggia di Miami.

“Tootsie” di Sydney Pollack

Dove c’è Dustin Hoffman, si assiste sempre ad una sua splendida interpretazione.
È il caso di questo film diretto nel 1982 da Sydney Pollack.
Il suo personaggio è Michael Dorsey, un attore dal carattere difficile che non è gradito ai registi e stenta a trovare lavoro. Così si traveste in un personaggio femminile, Dorothy Michaels, e, creduta donna, viene assunta per ricoprire la parte principale di una soap opera in cui svolge il ruolo di amministratrice di un ospedale col nome di Emily Kimberly. Tootsie (“tesoro”, “bambola”), sarà il nomignolo che le darà il regista.
Ne nasceranno situazioni comiche e tragicomiche in cui Dustin Hoffman darà il meglio di sé. Figuriamoci che la serie televisiva ha tanto mai successo che la donna riceve un sacco di posta dagli ammiratori.
Le arriverà perfino, da parte di un uomo, una richiesta di matrimonio.
Succede però che Tootsie si innamora di un’ex amante del regista, Julie Nichols, interpretata da Jessica Lange, e così, alla fine, l’inganno viene svelato. Il film ha una felice conclusione.

“Il laureato” di Mike Nichols

È del 1967, basato sull’omonimo romanzo di Charles Webb.
Vanta alcuni brani notevoli che fanno da colonna sonora del film, scritti da Paul Simon e Arthur Garfunkel, in particolare The Sound Of Silence, una canzone che ancora oggi m’incanta. A Nichols il film valse il Premio Oscar per la migliore regia nel 1968.
Il film è importante perché lancerà nel firmamento cinematografico il giovane Dustin Hoffman che qui svolge la parte di un appena laureato (Benjamin Braddock) che viene sedotto da una donna matura, la signora Robinson, interpretata da una seducente Anne Bancroft.
Ma il giovane conosce la figlia della signora, Elaine, interpretata da Katharine Ross, e se ne innamora. I genitori di entrambi si oppongono, per motivi diversi, al loro fidanzamento, e per Elaine viene scelto un altro giovane, sebbene la ragazza sia ancora innamorata di Ben.
Ma al momento delle nozze, quando gli sposi sono inginocchiati davanti al celebrante con intorno tanti invitati, ecco che, dopo una corsa sfrenata (in vari film il Dustin Hoffman giovane viene fatto correre e la sua corsa è sorprendentemente attrattiva) irrompe in chiesa, in modo spettacolare, Ben. E Elaine fugge con lui.

“Rain Man – L’uomo della pioggia” di Barry Lee Levinson

Il film, del 1989, si è aggiudicato quattro premi Oscar: migliore film, migliore regia, migliore attore protagonista e migliore sceneggiatura originale.
È una delle più impegnative interpretazioni di Dustin Hoffman che, infatti, venne premiato con l’Oscar.
Tom Cruise interpreta la parte del fratello minore, Charlie Babbit, il quale commercia in auto di lusso, ma nuota in cattive acque. Quando muore il padre, egli spera di ereditare una fortuna, ma rimane deluso, poiché l’eredità va al fratello Raymond, che è un autistico, e di cui addirittura non conosceva l’esistenza. Frequentando il fratello, si accorge che la malattia di cui soffre, gli ha acuito talune facoltà, come quelle della memoria, capace di eseguire operazioni matematiche complesse, come pure ricordare le carte da gioco passate. Così lo porta a Las Vegas, al Casinò, e guadagna una tale somma che gli consente di saldare tutti i debiti.
A questo punto, fa domanda di essere nominato tutore del fratello sia per continuare a sfruttarne le doti, sia per amministrare l’eredità che il padre ha lasciato a Raymond. Ma la tutela gli viene negata. Tuttavia, egli, riconducendo il fratello nella casa di cura dove era ricoverato, gli promette che andrà a visitarlo spesso.
Il momento centrale del film è quando Charlie scopre che chi, quando lui era bambino, gli cantava la canzone dell’uomo della pioggia, altri non era che Raymond. Da lì nasce un grande affetto per lui.

“Kramer contro Kramer” di Robert Benton

È del 1979, tratto dall’omonimo romanzo di Avery Corman.
L’interpretazione del protagonista Ted Kramer valse a Dustin Hoffman nel 1980 l’Oscar come migliore attore. Fu premiato con l’Oscar per il migliore film e la migliore regia anche Robert Benton.
Se si vuole avere un’idea dei traumi causati da una separazione tra coniugi per giunta con uno o più figli, questo è il film adatto.
Ted ha una promettente carriera nel suo lavoro di dirigente pubblicitario, al punto che gli viene affidato un importante incarico che, se concluso con successo, lo farà diventare socio dell’azienda in cui lavora.
Torna a casa felice di poterlo confidare alla moglie Joanna (interpretata dalla brava Meryl Streep), quando si sente dire, invece, che lei lo abbandona poiché non considerata dal marito, troppo impegnato nel suo lavoro. Gli lascia il figlio Billy, ancora un bambino, poiché incerta sul proprio futuro.
Ted si prende cura di Billy (un bambino attore molto simpatico, Justin Henry) cercando di sopperire all’assenza della madre, e non facendogli mancare nulla, ma per star dietro a lui trascura il lavoro, che non gli riesce più come un tempo. Così viene licenziato.
Ed è proprio in questo momento che ricompare la moglie che vuole avere con sé il figlio. Al suo rifiuto, avvia una causa ed è durante il processo, che Joanna vince, che la donna si rende conto dell’amore e della dedizione che Ted nutre per Billy. Allora decide di lasciarglielo.

Hollywood e il cinema romantico

Oggi che il cinema ci sta abituando a situazioni sentimentali complicate e complesse, certi film sfornati anni fa qualche giovane di oggi potrebbe considerarli sempliciotti e ridicoli. Ebbero invece, al loro tempo, molto successo e devo ammettere che, rivedendoli oggi alla mia veneranda età, li apprezzo ancora e li preferisco ai moderni.
Per chi vuol provare a contraddirmi, metto qui qualche titolo: “Magnifica ossessione” di Douglas Sirk, del 1954; ancora di Douglas Sirk, “Secondo amore” del 1955. Questi film ebbero come protagonisti due attori molto adatti al genere: Rock Hudson e Jane Wyman. Continuando: “Il visone sulla pelle” di Delbert Mann del 1962 con Cary Grant e Doris Day, anche questa una coppia fantastica per il genere con una Doris Day da innamorarsene (una delle mie attrici preferite), “Lo specchio della vita” di nuovo di Douglas Sirk (un fantastico specialista) del 1959 con Lana Turner e John Gavin. Ma qui da sottolineare sono le interpretazioni di Susan Kohner nella parte di Sarah Jane, la giovane dalla pelle bianca che si ribella al fatto di essere figlia di una nera, e Juanita Moore nella parte della madre nera Annie Johnson. Ancora: “La valle dell’Eden” di Elia Kazan del 1955 (tratto dal romanzo omonimo di John Steinbeck), “Scandalo al sole” di Delmer Davis del 1959 e “A casa dopo l’uragano” di Vincente Minnelli del 1960.

“Piano… Piano dolce Carlotta” di Robert Aldrich

Bette Davis, Olivia de Havilland, Joseph Cotten e il grande regista Robert Aldrich, una volta messi insieme, non potevano che fare un film di qualità.
Così è stato per “Piano… piano dolce Carlotta” del 1964, tratto da un racconto di Henry Farrell.
Il titolo lascerebbe pensare ad una commedia grazie alla quale farci tante risate, invece è un maiuscolo thriller, che vede una super Bette Davis interpretare la parte di una ritenuta pazza Carlotta Hollis, accusata di aver ucciso l’amante, un uomo sposato. Ma non è stata lei, che crede sia stato il padre, un ricco proprietario terriero.
In realtà, Aldrich elimina a poco a poco i sospettati, per presentarci i veri colpevoli.
Le emozioni che provoca sono molteplici.
Olivia de Havilland interpreta la parte della cugina Miriam Deering e Joseph Cotten quella del medico Drew Bayliss.
Una brillante interpretazione è data anche da Agnes Robertson Moorehead nella parte di Velma Cruther, la domestica di Carlotta.

“Lussuria. Seduzione e tradimento” di Ang Lee

È un film del 2007 diretto da Ang Lee, tratto dall’omonimo romanzo di Zhang Ailing.
Il regista taiwanese non si spreca nelle scene di sesso, e a noi pare di avere tra le mani il famoso Kamasutra e vederne nelle scottanti scene le applicazioni di fatto. Ciò nonostante, la pellicola mantiene il rigore del genere drammatico, al punto che nello stesso anno vinse il Leone d’oro per il miglior film alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Siamo a Shangai, negli anni ’40, occupata dai giapponesi. Si è formata una piccola resistenza per cacciarli dalla città. Di essa fa parte Wang Jiazhi (interpretata dalla bella Tang Wei) che viene scelta per sedurre un importante e spietato politico cinese (interpretato da Tony Leung Chiu-Wai) collaboratore degli invasori.
La seduzione è finalizzata al suo assassinio. La missione fallirà e tutti i rivoluzionari, compresa la giovane, saranno fucilati.

“Il colonnello Redl” di István Szabó

Vinse nell’anno della sua uscita, il 1985, il Premio della giuria al 38° Festival di Cannes e fu candidato all’Oscar come miglior film straniero.
Siamo alla vigilia della Prima guerra mondiale. L’impero austro-ungarico è attraversato da corruzioni e ambizioni, soprattutto nel suo esercito, che ne prevedono lo sfascio. Alfred Redl, interpretato da Klaus Maria Brandauer, è un fedele servitore dello Stato e fa di tutto perché la monarchia sopravviva. Ma non è ben visto dall’arciduca Francesco Ferdinando, figlio dell’imperatore Francesco Giuseppe ed erede al trono, il quale sta complottando per sostituire il padre, considerato troppo vecchio.
Redl non riuscirà a sconfiggere i suoi nemici, che lo costringeranno a togliersi la vita. Poco dopo ci sarà l’attentato di Sarajevo (28 giugno 1914) con la morte dell’arciduca, e sarà l’inizio della Prima guerra mondiale.
Il film si distingue per la bellezza e grandiosità di alcune scene.

“La grande illusione” di Jean Renoir

Qui siamo al top. Difficile trovare una coppia di padre e figlio che abbia raggiunto, nell’arte di ciascuno di essi, vette così elevate.
Jean Renoir è figlio nientemeno che del grande pittore impressionista Pierre-Auguste Renoir, i cui talenti si sono riversati per intero nell’altrettanto grande regista.
“La grande illusione”, del 1937, ne è un esempio.
Siamo in un campo di concentramento tedesco durante la Prima guerra mondiale. Vi sono tenuti prigionieri dei soldati francesi. L’atmosfera che Renoir vuole creare è quella della grande illusione che due popoli nemici possano trattarsi con rispetto e educazione reciproca. Chissà se Renoir avrebbe fatto questo film dopo aver saputo dei ben diversi criminali e sanguinari campi di concentramento nazisti.
Nel suo film, mantiene anche una leggera nota di comicità e di allegria. Pensate che vi si organizzano spettacoli di varietà ai quali assistono gli ufficiali del campo di concentramento. Le sentinelle si prendono cura dello stato d’animo dei prigionieri. Una di esse dirà “Vi auguro che rivediate presto le vostre famiglie”.
La parte del protagonista, tenente Maréchal, è affidata a Jean Gabin. Vi compare anche nelle vesti di un ufficiale tedesco, capitano von Rauffenstein, un attore e regista che considero bravo e che mi è sempre piaciuto: Erich von Stroheim, che ricordo anche come personaggio importante in “Viale del tramonto” di Billy Wilder del 1950.
Nel film di Renoir succede che due prigionieri, tra cui Maréchal, riescono a fuggire e sono aiutati da una giovane vedova tedesca di modo che potranno raggiungere la Svizzera, fuori dal tiro dei fucili dei soldati tedeschi.
Da apprezzare la leggerezza e la fluidità della narrazione.

“Marianna Ucrìa” di Roberto Faenza

Un regista può portare delle variazioni e delle novità trasponendo un romanzo in un film? Credo proprio di sì, e l’autore del romanzo deve essergliene grato quando il risultato è quello raggiunto da Roberto Faenza nel suo film, uscito nel 1997 e tratto dal romanzo “La lunga vita di Marianna Ucrìa” di Dacia Maraini.
Marianna è nata sordomuta, così le dicono, ma non è la verità e si saprà il perché alla fine del film.
Faenza ha conferito alla sua opera eleganza e raffinatezza in una Sicilia del XVIII secolo trabocchevole di bellezza. Ci si muove tra la nobiltà e i palazzi sono lussureggianti negli arredi, nei giardini e nei colori.
Spiccano tra i protagonisti, Pietro, lo zio di Marianna, interpretato da un sobrio Roberto Herlitzka, e il nonno interpretato da Philippe Noiret.

“la 25a ora” di Henri Verneuil

Da non confondere con l’omonimo film del 2002 di Spike Lee, ambientato in una New York del malaffare e dello spaccio della droga.
Questo di Verneuil (dirà un personaggio, Trajan Koruga, scrittore e politico, interpretato da Serge Reggiani: “La 25° ora è l’ultima ora di tutto”) è invece del 1967 e vede un’interpretazione straordinaria di Anthony Quinn (a mio avviso, una delle sue migliori) nei panni di Johann Moritz, un rumeno ingenuo e un po’ “semplicione ma di buon cuore”, sposato (hanno 2 figli) con Suzanne, interpretata da una giovane e fresca Virna Lisa, di cui si innamora il capitano della polizia locale. Suzanne lo respinge e lui si sbarazza del marito denunciandolo come ebreo. Siamo nel 1939, all’inizio della Seconda guerra mondiale, e il povero Johann si vede perseguitato e rinchiuso in un campo di lavoro, da cui riuscirà a fuggire insieme con tre ebrei, ma dovrà presto affrontare altre traversie, finché, finito in un campo di concentramento in Germania, i tedeschi non individuano in lui, paradossalmente, le caratteristiche della razza ariana e ne fanno un loro simbolo, stampando copertine di riviste e manifesti con la sua immagine.
Alla fine della guerra, gli Alleati lo arresteranno come collaboratore dei nazisti, ma, grazie all’intervento di un avvocato, verrà alla luce la sua vera storia.
Questo film, tratto dal romanzo di Constantin Virgil Gheorghiu, è poco conosciuto, ma vale la pena di procurarsene una copia. Lo esaltano i suoi molti significati. La scena finale, con il ricongiungimento di Johann alla propria famiglia (nel frattempo, durante la sua prigionia, lei, violentata, ha avuto un figlio), vale il film.

“Toro scatenato” di Martin Scorsese

Chi ama il pugilato non può perdersi questo film, che narra la storia del medio italoamericano Jake La Motta.
Il film è del 1980 e vede un’interpretazione maiuscola di Robert De Niro che gli valse nel 1981 il Premio Oscar per il migliore attore protagonista.
Tratto dall’autobiografia dello stesso campione, è considerato uno dei migliori film di Martin Scorsese.
Il mondo del pugilato è rappresentato con tutti i suoi vizi e le sue virtù. La lotta tra i duellanti è senza risparmio, vi è cattiveria e volontà di distruzione. È anche un mondo che consente spesso di uscire dalla miseria per condurre una vita dignitosa.
Jake La Motta è divorato dalla gelosia. Ha una bella moglie e s’immagina che lo tradisca, perfino con suo fratello. La sua carriera è vincente, fin quando accetta di essere battuto per riscuotere una forte somma. Ritiratosi dal pugilato mette su un locale con il suo nome, dove fa l’intrattenitore.

“Brush with Fate” di Brent Shields

(Che tradotto significa “Sfiorare il destino”).
Molti anni fa con mia moglie visitai Delft, in Olanda, una suggestiva cittadina, patria del grande pittore fiammingo Johannes Vermeer (1632 – 1675). Passeggiando lungo il canale che fiancheggia la città, ad un certo punto mi accorsi di trovarmi nella posizione da cui il grande artista aveva ritratto il celebre quadro “Vista di Delft”. L’emozione mia e di mia moglie fu enorme.
Questo film del 2003 tratto dal romanzo di Susan Vreeland, “La ragazza in blu giacinto”, fa la complessa storia di un quadro attribuito a Vermeer.
La trama è complicata ma vale la pena vedere questo bel film per le suggestive immagini di un’Olanda del Settecento, quando le donne indossavano cuffie e trine e sia i maschi che le femmine portavano ai piedi i caratteristici zoccoli. La vita e i paesaggi di quel tempo, coi tanti mulini all’opera, sono riprodotti in modo incantevole, tale da dare un senso alto alla narrazione.

“Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore

L’aggettivo Nuovo, che nel film riguarda il cinema Paradiso distrutto da un incendio e poi ricostruito, quindi nuovo, torna a proposito poiché il regista si trovò costretto a fare delle modifiche, anche sulla lunghezza della pellicola non bene accolta dal pubblico e dalla critica.
Così come risulta oggi, vinse il premio Oscar per il migliore film straniero nel 1990. Il film è del 1988.
Nel parlo, trascurando la trama, poiché a mio avviso esso è un inno alla settima arte con omaggi a pellicole famose del passato come, solo qualche esempio, Via col vento, Ombre rosse, La terra trema, Catene, Totò, e un inno agli amanti del cinema che negli anni passati, al contrario di oggi, riempivano le sale cinematografiche. Quelle sale gremite sono le stesse della mia infanzia e ne ho respirato gli umori. Se non si arrivava in tempo, difficile trovare posti a sedere, e si doveva fare a gomitate per contenderci un posto non appena qualche spettatore lasciava la sala.
Tornatore con esso rivela altresì la sua nostalgia per quei tempi con interpreti che bene ne hanno raccolto lo spirito, come Philippe Noiret (un attore sempre bravo), nella parte di Alfredo, che sin dai 10 anni ha preso dimestichezza con il mestiere di proiezionista e con il bambino Salvatore, interpretato da Salvatore Cascio, che ne vuole raccogliere il testimone. Diventato regista, Salvatore (da adulto interpretato da Jacques Perrin) tornerà al paese dopo tanti anni quando apprenderà della morte di Alfredo, che era diventato cieco a causa dell’incendio. Da segnalare la bella e triste storia d’amore tra Salvatore ed Elena. C’è tanta poesia in questo film.

“Banditi a Orgosolo” di Vittorio De Seta

È considerato uno dei film migliori sulla Sardegna e vinse il premio Opera prima al Festival di Venezia del 1961, anno della sua uscita.
Il regista si servì di attori non professionisti, che hanno saputo ben interpretare la loro parte, specialmente il personaggio Michele (doppiato però dal grande Gian Maria Volontè) e suo fratello ancora ragazzo, Peppeddu.
La storia è semplice ma significativa. Un pastore di Orgosolo viene accusato di vari reati non commessi, tra cui l’uccisione di un carabiniere. Col fratello, allora, non avendo fiducia nella legge, decide di fuggire, portandosi dietro il suo prezioso gregge di 100 pecore da cui trae sostentamento per la famiglia. È l’occasione per il regista di mostrarci una Barbagia selvaggia e arida con montagne piene di sassi e di rocce, che provocheranno la morte di tutte le sue pecore. A questo punto, aggredisce un altro pastore e gli ruba il suo gregge, diventando così un bandito.

“Il muto di Gallura” di Matteo Fresi

Era il 21 maggio 2014 quando a Orgosolo acquistai il libro “Il muto di Gallura” di Enrico Costa, uscito nella prima edizione nel 1884.
Qualche anno dopo, nel 2021, il regista Matteo Fresi ne trasse un film con Andrea Arcangeli nella parte del muto Bastiano Tansu.
Se con “Banditi a Orgosolo” di Vittorio De Seta abbiamo conosciuto la regione selvaggia della Barbagia e ne siamo rimasti affascinati, lo stesso succede in questo film, ambientato in un’altra regione altrettanto selvaggia della Sardegna, la Gallura.
Aridi boschi e montagne pietrose ne fanno da cornice.
Vi si narra una storia vera e riguarda la feroce faida di metà Ottocento, che costò più di 70 morti, tra due famiglie nemiche.
Tutto inizia con il rifiuto di Antonio Mamìa di dare in sposa la figlia a Pietro Vasa, conosciuto come brigante e ricercato dalle guardie reali. Per vendetta Pietro uccide il giovane figlio di Antonio, e da qui ha inizio la faida con morti da una parte e dall’altra, non risparmiando donne e bambini. Bastiano, sordomuto dalla nascita, è cugino di Pietro e suo alleato nella sanguinosa disfida. Tutti lo temono per la sua ferocia e la sua mira infallibile, che colpisce immancabilmente la vittima in piena fronte.
Succederà che per porre fine alla faida sarà chiesto a Pietro di uccidere il muto.
Anche questo film, come quello di De Seta, ha uno stile asciutto e rigoroso. I dialoghi tra i personaggi avvengono in dialetto ma lo spettatore può avvalersi dei sottotitoli.

“L’ultimo pellerossa” di Yves Simoneau

Del 2007. Se volete vedere un film che tratti della violenza sugli indiani e dello sfruttamento dei loro territori da parte dei bianchi, questo è il film per voi.
Il regista ne fa un’analisi spietata.
Si costringono gli indiani (in questo caso i Sioux) a ritirarsi nella riserva assegnata, abbandonando terre ricche come le Black Hills, dove era stato trovato l’oro. Poi con altre subdole promesse si cercherà di restringere i confini della riserva, mettendo parte di quelle terre a disposizione dei bianchi, sia pure pagandole, ma con cifre modeste rispetto al loro valore.
Ci sarà la ribellione e ne approfitterà l’esercito per fare un autentico sterminio, uccidendo anche il loro capo Toro Seduto nel massacro di quasi 200 uomini, donne e bambini indiani a Wounded Knee il 29 dicembre 1890.
Nel 1970 un altro film aveva trattato della violenza dell’esercito americano e di alcuni dei suoi ufficiali fanatici contro gli indiani, in questo caso i Cheyenne, il cui villaggio, nonostante fosse stata sventolata la bandiera bianca, fu oggetto di uno dei più sanguinosi massacri, quello di Sand Creek del 1864, di cui fu detto: “È forse l’atto più vile ed ingiusto di tutta la storia americana”.
Il titolo del film: “Soldato blu” di Ralph Nelson.

“I cavalieri dalle lunghe ombre” di Walter Hill

Del 1980. Il genere western a cui appartiene questo film lo abbiamo già incontrato (basti pensare a “Cimarron”) in questa mia sintetica rassegna – che, se la trasformerò in un libro, intitolerò “Il mio cinema” – e ancora lo incontreremo poiché è giunto, nella mia collezione, il suo momento.
Ma questa volta il regista ha voluto farci una sorpresa, ossia ha affidato a veri fratelli nella vita reale la parte dei fratelli che compongono la banda.
Così abbiamo che i fratelli, che nella vita reale si chiamano Keach, interpretano nel film la parte dei fratelli Jesse e Frank James; così i 3 fratelli, che nella vita reale si chiamano Carradine, interpretano la parte dei banditi Cole Younger, Jim Younger e Bob Younger. I fratelli Quaid la parte di Ed Miller e Clell Miller. Infine I fratelli Guest interpretano la parte dei banditi Charley Ford e Robert Ford.
Assistiamo a assalti a treni e banche, a cruente sparatorie con morti e feriti.
Il film ha una solida e narrativamente pregevole regia.
Da segnalare, nella parte finale, l’attraversamento a cavallo del fiume tumultuoso da parte dei fratelli James che tornano a casa.
La fine di Jesse, nel 1882, colpito alle spalle da due fuorilegge amici mentre raddrizza un quadro appeso alla parete di casa sua, è quello tramandatoci dalla storia, che ci dà anche il nome di colui, dei due, che l’uccise: Robert Ford. (Pubblicato su Facebook il 24 settembre 2025, ore 0,15 circa).

“Gli implacabili” di Raoul Walsh

Del 1955. Questo film diretto da un maestro del genere western vanta un cast superlativo: Clark Gable, Robert Ryan, Cameron Mitchell e la bella Jane Russell.
È soprattutto la presenza di Clark Gable nelle vesti di un cow-boy fuorilegge che mi spinge a segnalare il film. Deciso e contando sulle sue qualità affinate nella guerra civile come ufficiale dei sudisti, accetta la proposta di trasferire dal Texas al Montana, a scopo di guadagno, una mandria di circa 5 mila capi tra buoi e cavalli. Con lui il fratello interpretato da Cameron Mitchell e il socio interpretato da Robert Ryan.
Jane Russell è la donna di cui Gable è innamorato e anche lei vorrebbe ricambiarlo ma i loro progetti sulla vita insieme non sono gli stessi. Lei fa la civettuola con Ryan per ingelosirlo e tenerlo comunque al guinzaglio.
Durante il trasferimento incontrano vari ostacoli, tra cui una banda di fuorilegge e poi gli indiani Sioux comandati da Nuvola Rossa.
Il film ha scorci panoramici, sin dall’inizio, molto suggestivi. Basti pensare alla prima parte che si svolge in un paesaggio di neve quando il protagonista e la donna s’incontrano per la prima volta. Anche le inquadrature della grossa mandria esercitano un certo fascino, per esempio quando attraversano il fiume, come pure il combattimento contro gli indiani.
Il film ha un lieto fine.
Ryan, nella parte del socio, dirà del personaggio interpretato da Gable: “È il solo uomo che abbia mai rispettato. È ciò che ogni ragazzo sogna di essere quando sarà grande e ciò che ogni vecchio vorrebbe essere stato.”.

“Appaloosa” di Ed Harris

Il regista è anche il protagonista del film, uscito nel 2008, tratto dall’omonimo romanzo di Robert Brown Parker.
Si chiama Virgil Cole e fa il pistolero “di pace”, insieme con l’inseparabile Everett Hitch, interpretato da Virgo Mortessen, ossia i due sono chiamati ogni volta che c’è la necessità di porre ordine in un paese, in questo caso di nome Appaloosa, dove spadroneggia Randall Bragg, interpretato dal noto attore Jeremy Irons, abile pure lui con la pistola. Farà però una brutta fine.
Fa da cerniera alla trama di ottima fattura, mai banale, l’attrice Renée Zellweger nella parte di Allison French, una donna un po’ equivoca, paurosa, che sta sempre con il più forte, e di cui si innamora Virgil, nonostante tutto.
È un film che non molti conoscono, ma che può stare benissimo a paragone dei migliori del genere.

“Il giorno dei lunghi fucili” di Don Medford

È un film del 1971 con Oliver Reed nella parte del fuorilegge Frank Calder, Gene Hackman, nella parte del marito tradito Brandt Ruger e Candice Bergen nella parte di sua moglie Melissa.
Sono stato indeciso se segnalare o meno questo western, che ha qualche punto debole, ma poi ho deciso di farlo, poiché la caccia che il marito Brandt fa ai rapitori della moglie è qualcosa di speciale per odio e accanimento.
Con alcuni amici, ai quali ha regalato speciali fucili che sparano a lunga distanza, contrariamente a quelli in circolazione, il ricco Brandt decide di andare a caccia, quando apprende che sua moglie si trova nelle mani di una banda di fuorilegge comandata da Frank, il quale ha rapito la donna, maestra del paese, perché gli insegni a leggere
Da questo fatto, per il forte e orgoglioso carattere di Brandt, nasce l’inseguimento e la sfida, la quale si rivelerà per la banda dei fuorilegge molto cruenta.
Nel frattempo Melissa si è innamorata di Frank, e questo amore segnerà la fine tragica della storia.

“Ivanhoe” di Richard Thorpe

Passiamo al genere cavalleresco, di cui scriveremo ancora via via. Lo spunto viene dal romanzo omonimo del grande scozzese Walter Scott, di cui visitai la sontuosa dimora anni fa.
Thorpe è uno specialista e ci sa fare. Il suo, del 1952, poiché ci sono stati due precedenti, è uno dei più suggestivi film ambientati nel medioevo al tempo in cui vigeva l’amor cortese e le rivalità venivano risolte con i tornei, in cui, nonostante i fastosi contorni, si rischiava la morte.
Siamo nel XII secolo e il sassone Ivanhoe, interpretato da Robert Taylor (un attore capace di ricoprire più ruoli, anche western, e di grande fama ai suoi tempi), nelle false vesti di menestrello, è arrivato in Austria in cerca del suo re Riccardo Cuor di Leone fatto prigioniero da Leopoldo d’Austria. Lo trova e si organizza per la sua liberazione, poiché è richiesto un riscatto di 150 mila pezzi d’argento e si deve anche far fronte alle trame del fratello Giovanni che, d’intesa coi normanni, ha intenzione di usurpare il trono.
Il denaro viene trovato, ma intanto si assiste ad un torneo nel quale Ivanohe sfida cinque cavalieri normanni, battendoli ad uno ad uno davanti agli occhi dell’usurpatore. Ivanhoe rimane ferito e le due donne che lo amano sono in apprensione per lui. Si tratta di due attrici molto belle, Joan Fontaine nelle vesti di Lady Rowena, prediletta dal padre di Ivanhoe, Sir Cedric, e Rebecca, interpretata da una giovanissima Elisabeth Taylor, figlia di Isaac di York. Sono questi due giudei che riusciranno a trovare gran parte del denaro per il riscatto.
Il torneo a cui assistiamo è tra i più fascinosi che il cinema ci abbia dato. Ben costruito pure l’assalto dei ribelli sassoni al castello normanno dove Ivanhoe e suo padre, nonché le due donne, sono tenuti prigionieri.
Altri personaggi minori, ma significativi, sono interpretati da volti molto conosciuti nel mondo del cinema.
a quello cavalleresco, di cui scriveremo ancora via via. Lo spunto viene dal romanzo omonimo del grande scozzese Walter Scott, di cui visitai la sontuosa dimora anni fa.
Thorpe è uno specialista e ci sa fare. Il suo, del 1952, poiché ci sono stati due precedenti, è uno dei più suggestivi film ambientati nel medioevo al tempo in cui vigeva l’amor cortese e le rivalità venivano risolte con i tornei, in cui, nonostante i fastosi contorni, si rischiava la morte.
Siamo nel XII secolo e il sassone Ivanhoe, interpretato da Robert Taylor (un attore capace di ricoprire più ruoli, anche western, e di grande fama ai suoi tempi), nelle false vesti di menestrello, è arrivato in Austria in cerca del suo re Riccardo Cuor di Leone fatto prigioniero da Leopoldo d’Austria. Lo trova e si organizza per la sua liberazione, poiché è richiesto un riscatto di 150 mila pezzi d’argento e si deve anche far fronte alle trame del fratello Giovanni che, d’intesa coi normanni, ha intenzione di usurpare il trono.
Il denaro viene trovato, ma intanto si assiste ad un torneo nel quale Ivanohe sfida cinque cavalieri normanni, battendoli ad uno ad uno davanti agli occhi dell’usurpatore. Ivanhoe rimane ferito e le due donne che lo amano sono in apprensione per lui. Si tratta di due attrici molto belle, Joan Fontaine nelle vesti di Lady Rowena, prediletta dal padre di Ivanhoe, Sir Cedric, e Rebecca, interpretata da una giovanissima Elisabeth Taylor, figlia di Isaac di York. Sono questi due giudei che riusciranno a trovare gran parte del denaro per il riscatto.
Il torneo a cui assistiamo è tra i più fascinosi che il cinema ci abbia dato. Ben costruito pure l’assalto dei ribelli sassoni al castello normanno dove Ivanhoe e suo padre, nonché le due donne, sono tenuti prigionieri.
Altri personaggi minori, ma significativi, sono interpretati da volti molto conosciuti nel mondo del cinema.

Film western

Da qualche giorno ho cominciato a scrivere brevi note su film del genere western (il mio preferito). Li ho scelti e li sceglierò tra questi che possiedo, badando non solo che siano ben fatti ma che mantengano ancora la magia del genere.

Western: Appaloosa
Western: Balla coi lupi
Western: Bandolero
Western: Berretti verdi
Western: Bravados
Western: Bronco Billy
Western: Buffalo Bill e gli indiani
Western: Carovana d’eroi
Western: Carovana di fuoco
Western: Catlow
Western: Cavalca, vaquero!
Western: Cavalcando col diavolo
Western: Cavalcarono insieme
Western: Chato
Western: Chisum
Western: Cimarron
Western: Corvo Rosso non avrai il mio scalpo
Western: Cowboy
Western: Custer, eroe del West
Western: Django
Western: Doc
Western: Duello al sole
Western: Duello all’ultimo sangue
Western: El Dorado
Western: Far West
Western: Frank & Jesse
Western: Frank & Jesse James
Western: Furia selvaggia (Billy the Kid)
Western: Geronimo
Western: Giubbe Rosse
Western: Gli amanti della città sepolta
Western: Gli avvoltoi
Western: Gli implacabili
Western: Gli spietati
Western: Hombre
Western: I cacciatori dell’oro
Western: I cancelli del cielo
Western: I cavalieri dalle lunghe ombre
Western: I cavalieri del Nord Ovest
Western: I compari
Western: I Cowboys
Western: I due volti della vendetta
Western: I magnifici sette
Western: I professionisti
Western: I quattro del Texas
Western: I quattro figli di Katie Elder
Western: I tre banditi
Western: Il cavaliere della valle solitaria
Western: Il figlio di Kociss
Western: Il fiume rosso
Western: Il fuciliere del deserto
Western: Il giorno dei lunghi fucili
Western: Il giorno della vendetta
Western: Il grande paese
Western: Il grande sentiero
Western: Il grande silenzio
Western: Il Grinta
Western: Il massacro di Fort Apache
Western: Il meraviglioso paese
Western: Il mio nome è nessuno
Western: Il mucchio selvaggio
Western: Il piccolo grande uomo
Western: Il pistolero
Western: Il ritorno del pistolero
Western: Il segno della legge
Western: Il traditore di Alamo
Western: Io sono la legge
Western: Io, grande cacciatore
Western: Jess il bandito
Western: Joe Bass l’implacabile
Western: Johnny Guitar
Western: La ballata di Cable Hogue
Western: La banda dei dieci
Western: La battaglia di Alamo
Western: La carovana dei mormoni
Western: La conquista del West
Western: Là dove scende il fiume
Western: La freccia insanguinata
Western: La mia pistola per Billy
Western: La notte dell’agguato
Western: La pistola sepolta
Western: La più grande avventura
Western: La proposta
Western: La sparatoria
Western: La stella di latta
Western: La storia del generale Custer
Western: La vendetta dei Dalton
Western: La via del West
Western: Le tre sepolture
Western: Lo sperone insanguinato
Western: Lo sperone nudo
Western: Lo straniero della valle oscura
Western: L’ora delle pistole – Vendetta all’O.K. Corrall
Western: L’ultima caccia
Western: L’ultima carovana
Western: L’ultima conquista
Western: L’ultimo apache
Western: L’ultimo colpo in canna
Western: L’ultimo pellerossa
Western: L’uomo che uccise L. Valance
Western: L’uomo dai sette capestri
Western: L’uomo del West
Western: L’uomo di Laramie
Western: McLintock
Western: Mezzogiorno di fuoco
Western: Missouri
Western: Nessuna pietà per Ulzana
Western: Nevada Smith
Western: Non stuzzicate i cowboys che dormono
Western: Ombre rosse
Western: Passaggio di notte
Western: Pat Garrett e Billy Kid
Western: Pat Garrett e Billy Kid
Western: Poker di sangue
Western: Quattro tocchi di campana
Western: Quel maledetto colpo al Rio Grande Express
Western: Quel treno per Yuma
Western: Quien Sabe
Western: Rancho Bravo
Western: Rancho Notorius
Western: Rio Bravo-Un dollaro d’onore
Western: Rio Lobo
Western: Romantico avventuriero
Western: Rullo di tamburi
Western: S. Leone: C’era una volta il West
Western: S. Leone: Giù la testa
Western: S. Leone: Il Buono, il Brutto e il Cattivo (versione restaurata
Western: S. Leone: Per qualche dollaro in più (versione restaurata)
Western: S. Leone: Per un pugno di dollari (versione restaurata)
Western: Scusi, dov’è il West?
Western: Sentieri selvaggi
Western: Sfida all’O.K. Corrall
Western: Sfida infernale
Western: Sfida nella città morta
Western: Sfida nell’Alta Sierra
Western: Sfida oltre il fiume rosso
Western: Shenandoah – La valle dell’onore
Western: Sierra Charriba
Western: Silverado
Western: Soldati a cavallo
Western: Soldato blu
Western: Sole rosso
Western: Stringi i denti e vai!
Western: Tamburi lontani
Western: Tempo di uccidere
Western: Terra di confine
Western: Terra lontana
Western: Texas, adios
Western: Tom Horn
Western: Torna “El Grinta”
Western: Ultima notte a Warlock
Western: Un uomo chiamato cavallo
Western: Un uomo chiamato Shalako
Western: Uomini e cobra
Western: Uomini selvaggi
Western: Uomo bianco, va’ col tuo Dio
Western: Vera Cruz
Western: Welcome to Hard Times
Western: Wild Bill
Western: Winchester 73
Western: Wyatt Earp – La leggenda

“Io sono la legge” di Michael Winner

Del 1971. Qui ci stiamo avvicinando ai vertici del genere western con una capace regia e attori di ottimo livello come Burt Lancaster nella parte dello sceriffo Jered Maddox, Robert Ryan nella parte dello sceriffo Cotton Ryan e Lee Jacob Cobb nella parte del ricco allevatore Vincent Bronson.
Nella cittadina di Bannock, dove lo sceriffo è Jered Maddox (Burt Lancaster) mandriani alle dipendenze di Bronson (Lee Jacob Cobb) si sbronzano e aprono una sparatoria in cui ci scappa il morto. Poi tornano alla fattoria, situata in un’altra cittadina, Sabbath, dove lo sceriffo è Cotton Ryan (Roberto Ryan), compromesso con Bronson a cui è fedele. Maddox arriva a Sabbath con l’intenzione di arrestare i colpevoli e spera di ricevere aiuto da Ryan, che una volta era un veloce pistolero e conosce bene Maddox e la sua dimestichezza con la pistola (“Ogni colpo una vedova”, gli dirà una sua ex amante). Ryan cerca di dissuaderlo dal suo proposito ma senza riuscirci. Maddox si sente investito dalla legge e non accetta vie di mezzo. Inflessibile e di poche parole, vuole far processare i colpevoli. Questi ad uno ad uno, gli tendono vari agguati, ma ci rimettono la pelle. Così Bronson decide di assumere direttamente l’iniziativa e di affrontare, accompagnato dai suoi uomini, Maddox. Si crea l’atmosfera giusta per lo scontro.
Il film si apre a momenti di riflessione sull’importanza della legge (“Non si può giocare con la legge”), sulla lealtà e sulle ferite provocate dalla violenza e dalla corruzione.

“Cowboys” di Mark Rydell

Ci vuole del coraggio per far morire in un film un personaggio interpretato da John Wayne. Quel coraggio l’ha avuto Mark Rydell in questo film del 1972.
Wil Andersen (John Wayne) è un allevatore di bestiame che deve trasferire a distanza la sua mandria di buoi e cavalli e ha bisogno di aiutanti. Quelli che avevano promesso di accompagnarlo si ritirano, poiché è stata scoperta nelle vicinanze una vena d’oro e tutti accorrono là. Così Vil rimane solo, finché qualcuno gli suggerisce di assumere i ragazzi della vicina scuola. Li addestra e partono pieni di entusiasmo. Vil ha modo di apprezzare l’impegno e il valore dei ragazzi. Ma non tutto va liscio. Una banda di fuorilegge si è messa alle sue calcagna per portarsi via la mandria. Si arriva al dunque, e Vil viene ucciso e sepolto dai compagni, i quali non si arrendono e si riprenderanno la mandria portandola a destinazione.
Il regista racconta in modo piano e lineare la storia che ha, proprio nella morte di John Wayne, la sua straordinarietà.

“Un uomo chiamato Cavallo” di Elliot Silverstein

È del 1970. Si svolge in un accampamento di Sioux, così che il regista ne trae l’occasione per mostrarci la vita quotidiana di una tribù indiana. Nell’accampamento vive anche John Morgan (interpretato da Richard Harris) come prigioniero. A poco a poco si abitua alle loro usanze e al nome che gli hanno dato: Shunka Wakan (che significa “cavallo” nella lingua della tribù).
S’innamora della figlia del capo Mano Gialla, Tortora Bianca, e per sposarla deve sostenere alcune prove molto dolorose, tra le quali quella dei ganci trafitti nel petto che dovranno sostenerlo sospeso in aria. Supererà la prova e potrà sposare Tortora Bianca, che lui chiamerà Mia Libertà.
I riti del matrimonio sono suggestivi, come suggestiva è la vita nell’accampamento. Succede però che una tribù nemica, gli Shoshones, irrompe nel campo facendo strage di uomini, donne, vecchi e bambini con lo scopo di impossessarsi dei loro cavalli. Nello scontro muore Tortora Bianca, che era in attesa di un figlio.
Commovente la scena che ci mostra lo strazio della madre, che, secondo l’usanza indiana, rimarrà sola e dovrà mendicare gli aiuti per vivere. Come pure la lunga fila dei superstiti che abbandonano il campo distrutto dagli Shoshones per trasferirsi altrove.
L’uomo chiamato Cavallo li saluterà da una bassa collina, da dove, scortato da alcuni indiani amici, prenderà la via del ritorno in Inghilterra.

Sergio Leone e le sue trilogie

In questo genere è stato un gigante. Ha portato delle novità che ancora appaiono rilucenti, svecchiando un po’ il genere classico. Le sue studiate lentezze, i suoi primi piani calamitano l’attenzione e danno suspence all’attesa. Furono definiti dagli americani ‘spaghetti western’ in senso spregiativo, poiché realizzati da italiani. Ma oggi primeggiano e hanno imposto all’attenzione internazionale il western all’italiana. Coi suoi film, Leone ha reso famosi due attori, uno dei quali già noto, Gian Maria Volonté, e un altro, Clint Eastwood, a suo tempo sconosciuto, che poi è risultato grande non solo nella recitazione, ma anche nella regia, attento ai problemi della società moderna.
Da annotare le immortali colonne sonore di Ennio Moricone.

TRILOGIA DEL DOLLARO

Per un pugno di dollari (1964)

È il primo della celebre “Trilogia del dollaro”, che ha dato fama internazionale a Sergio Leone e al musicista Ennio Moricone.
Siamo in Mexico, nel villaggio di San Miguel. Un giorno arriva un pistolero americano, Joe (Clint Eastwood) con il poncho e un mezzo sigaro in bocca. Si fa subito notare, poiché fa fuori quattro uomini che lo avevano preso in giro. Nel villaggio dominano 2 famiglie, i Rojo, a cui appartiene Ramon (Gian Maria Volonté), e i Baxter. Con uno stratagemma, Joe li indurrà a scontrarsi tra loro e, nel mentre, trafuga l’oro che Ramon aveva sottratto all’esercito messicano in un agguato. Ramon è innamorato di una bella donna, Marisol, sposata con “un povero disgraziato”, al quale Ramon l’ha sottratta.
Questa donna sarà oggetto dell’attenzione di Joe che la libererà e la farà fuggire con la sua famiglia. Saputolo, Ramon gli darà la caccia, finché si arriverà al bellissimo duello finale con Ramon che si crede imbattibile col fucile, e Joe che, armato invece di pistola, lo uccide. (Ramon aveva detto: “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto. È un vecchio proverbio messicano.”.

Per qualche dollaro in più (1965)

Viene subito dopo, e oltre a Clint Eastwood (nella parte de Il Monco, ancora col poncho e il mezzo sigaro in bocca) e Gian Maria Volonté (nella parte di El Indio) troviamo un bravo Lee Van Cleef (nella parte del colonnello Douglas Mortimer). Apparirà anche, componente della banda dell’Indio, un ancora poco conosciuto Klaus Kinski nella parte de Il gobbo. Come nel primo film il doppiatore di Clint Eastwood è Enrico Maria Salerno con la sua bella voce.
Il Monco è chiamato così per il fatto che usa sempre la mano sinistra per ogni azione normale, con il fine di lasciare sempre libera la mano destra per estrarre la pistola. È un cacciatore di taglie, come lo è il colonnello.
Entrambi si trovano ad intraprendere la stessa impresa, ossia la caccia all’Indio, che con la sua banda vuole svaligiare la banca di El Paso, ritenuta una “roccaforte” inespugnabile. Il colpo andrà a buon fine e il denaro, dopo varie peripezie, finirà nelle mani del Monco, che restituirà i soldi alla banca incassandone la ricompensa, come pure incasserà le taglie degli uomini della banda tutti uccisi.
Scopriremo che il colonnello Mortimer ha una ragione in più per dare la caccia all’Indio (che chiamerà “un pazzo drogato”), il quale gli ha violentato la sorella (che poi si è uccisa), della quale porta sempre con sé la foto, incastonata in un orologio con carillon. Lo stesso orologio che possiede l’Indio, che l’ha sottratto proprio alla sorella.
Bello l’inizio che vede un cavaliere procedere lentamente su una vasta landa e si avverte il rumore di qualcuno che si prepara a sparare col fucile, e di lì a poco si sente lo sparo e si vede il l’uomo cadere da cavallo colpito a morte. Come pure è impareggiabile il duello finale tra Mortimer e l’Indio, al quale sarà presenza determinante quella del Monco.
Anche in questo film uno dei maggiori protagonisti è la bella musica di Ennio Moricone.

Il buono, il brutto, il cattivo (1966)

Conclude la “trilogia”. Ritroviamo Clint Eastwood (“il Biondo”, il buono) e Lee van Cleef (“Sentenza”, il cattivo) e un nuovo egregio interprete, Eli Wallach (Tuco Ramírez, il brutto). Leggo su Wikipedia che “Utenti e lettori di siti e riviste specializzati, ma anche importanti cineasti come Quentin Tarantino, lo considerano tra i migliori film western della storia del cinema, nonché una delle migliori pellicole di tutti i tempi.”.
Per me, invece, è difficile scegliere, e semmai darei la palma a “C’era una volta il West”, di cui scriverò più sotto. È vero, però, che questi 2 film rivelano una più completa maturità stilistica del regista.
Comunque la storia si svolge durante la guerra di secessione americana. La trama è complessa (da ciò anche la lunghezza del film: quasi 3 ore), nonostante che la narrazione sia scorrevole. Si cerca una cassa contenente 200.000 dollari che è stato nascosta in un cimitero. Tuco conosce il nome del cimitero e il Biondo conosce il nome della tomba. Sono costretti, dunque, ad essere amici-nemici. Alla ricerca della cassa, vi è anche Sentenza, che non guarda in faccia nessuno e si fa strada cospargendola di morti. Nel finale si avrà un ‘triello’ (duello a tre) spettacolare, nel quale però Sentenza verrà ucciso dal Biondo. Restano lo stesso e Tuco, ma alla fine prevarrà il Biondo che si porterà con sé metà del bottino, lasciando l’altra metà all‘amico-nemico, costretto però a subire una umiliazione. Sullo sfondo assistiamo ad alcune scene della guerra secessionista.

TRILOGIA DEL TEMPO

C’era una volta il West (1968)

Chiusa la “Trilogia del dollaro” si procede di bellezza in bellezza. Si dà inizio alla “Trilogia del tempo”, che proseguirà con Giù la testa (1971) e C’era una volta in America (1984).
Si cambiano anche attori, tra cui troviamo i bravissimi Charles Bronson, Henry Fonda e Jason Robards, e si introduce l’affascinante Claudia Cardinale, che vi ricopre uno dei suoi ruoli più attrattivi, dopo quello di Angelica ne “Il Gattopardo” di Luchino Visconti (1963). La colonna sonora di Ennio Morricone raggiunge vette altissime, e resta indimenticabile. Anche questo film ha la durata di quasi 3 ore.
La scena iniziale è da antologia e andrebbe vista più di una volta per la sua bellezza.
Tre fuorilegge, in una stazione ferroviaria, mandati da Frank, interpretato da Henry Fonda, attendono Armonica (chiamato così perché si annuncia suonando un’armonica), interpretato da Charles Bronson, per ucciderlo. Leone li riprende ad uno ad uno con primi piani esemplari e particolarmente suggestivi come la mosca che infastidisce uno di loro, come la goccia d’acqua che cade sul cappello di un altro, e come il terzo che continua a far schioccare le dita delle mani.
Già queste prime immagini ci dicono della qualità del film.
Armonica arriva e li fa fuori tutti e tre. Fa capire che si aspettava di incontrare Frank e non i suoi scagnozzi.
Ci troviamo nel West, in un paese immaginario, e si sta costruendo una nuova ferrovia, che deve passare da un terreno il cui proprietario, Brett MacBain, non vuole sapere di venderlo alla Compagnia ferroviaria. Immagina di costruirvi una propria stazione in grado di rifornire d’acqua i treni di passaggio e i visitatori della zona, e addirittura una città intorno.
Ma lui e i suoi 3 figli sono uccisi da Frank, al servizio del magnate Morton, interpretato da Gabriele Ferzetti, “storpio” a causa di una tubercolosi ossea, il quale vuole a tutti i costi quel terreno.
Sin dalle prime mosse un altro personaggio di rilievo si presenta sulla scena, è Cheyenne, interpretato da uno straordinario Jason Robards, un bandito che si muove con la sua banda nella zona facendo molte vittime. È scappato mentre lo conducevano in prigione, uccidendo la scorta, e si incontra in un malandato locale con Armonica, e i due a poco a poco, quasi in una competizione, si prenderanno la scena. Armonica cerca la vendetta poiché Frank ha ucciso suo fratello.
È anche il momento in cui entra in scena Jill, interpretata da Claudia Cardinale, ex prostituta, che ha sposato MacBain e dunque ha ereditato la sua proprietà, e il film da lì in poi è illuminato dalla sua bellezza. Cheyenne le dirà: “Tu non immagini quanta gioia mette in corpo a un uomo una donna come te”.
Frank viene mandato da Norton a convincerla, ma Frank lavora per sé e le chiederà inutilmente di sposarlo.
Presto, però, dovrà fare i conti con Armonica, in un duello che gli costerà la vita, e in cui Armonica gli ricorda il proprio fratello che lui ha impiccato. Frank domanderà: Aspettavi me? e Armonica risponde: Da molto tempo.
Un duello ineguagliabile per intelligenza e raffinatezza.

Giù la testa (1971)

Quasi di 3 ore anche questo film. Siamo in Messico, nel 1913, durante la rivoluzione. Juan Miranda, interpretato da Rod Steiger, è a capo di una banda composta da suo padre e dai suoi figli. Si trovano su di una diligenza appena svaligiata quando sentono degli scoppi e tra nuvole di fumo compare in sella a una motocicletta Sean Mallory, un dinamitardo rivoluzionario (interpretato da James Coburn), già combattente dell’I.R.A. in Irlanda. È imbottito di esplosivi e quando Juan minaccia di sparargli, lui l’avverte: “Se io cado si dovranno rifare tutte le mappe”.
Anche in questo film, Leone non sbaglia quello che in letteratura si chiama incipit, e si sa che in letteratura un buon incipit determina già di per sé il valore assicurato di un romanzo. Ciò mi dà l’occasione di ribadire quanto detto e scritto in altre circostanze, ossia che il vero romanzo moderno è rappresentato dal cinema. La narrazione di Leone ne è un esempio grazie alla sua lenta e ponderata trama, senza strafare ma sempre lucida ed esauriente in ogni scena. Quello che io chiamo ‘il respiro del narratore’ è così eclatante in lui che quasi lo si tocca con le mani.
Ma riprendiamo la storia. I due si alleano nella speranza di far quattrini svaligiando una banca. Vi trovano, al posto dei soldi, i prigionieri politici lì rinchiusi dal regime. Sean lo sapeva, e si era servito dell’amico, ingannandolo. Li liberano e divengono degli eroi, mettendosi a disposizione della rivoluzione messicana. Juan non ne ha una buona opinione, poiché è convinto che i poveri resteranno sempre poveri, ma infine ne è preso, anche per non essere da meno di Sean. Pancho Villa e Emiliano Zapata combattono il presidente Francisco Madero, che ha preso il posto del dittatore Porfirio Díaz, ma governa con gli stessi metodi. Ha come alleati i tedeschi. L’attore Romolo Valli è uno dei capi dei rivoluzionari.
La rivoluzione messicana predomina nella parte finale del film.
Ancora protagonista la musica eccellente di Ennio Morricone.

C’era una volta in America (1984)

Si conclude con questo film la “Trilogia del tempo” e la nostra carrellata sui film di Sergio Leone. A fare la parte dell’asso pigliatutto è Robert De Niro nel ruolo di David “Noodles” Aaronson, da giovane interpretato dal bravo Scott Schutzman Tiler. Il film è basato sul romanzo “The Hoods” di Harry Grey (in italiano, Longanesi, 1966: “Mano armata”).
Coi suoi 3 amici, che poi diventano quattro con l’arrivo di Max (interpretato da James Wood) sin dalla gioventù fa parte di una banda di ragazzi che vogliono imporsi nel quartiere. Assisteremo a duelli fra bande. Siamo nel 1933 a New York e vige il proibizionismo. Crescendo diventeranno importanti, temuti e ricchi grazie alla gestione di locali per balli, cerimonie e gioco d’azzardo e del contrabbando di alcolici. Si levano tutte le voglie e conducono una vita immersi nel lusso.
Ma il film inizia quando tutto questo è già accaduto e Noodles ricompare dopo 35 anni (un amico gli domanda: Che hai fatto in tutti questi anni? e lui risponde: Sono andato a letto presto) e si reca a ritirare una valigia chiusa in una cassetta di sicurezza di cui ha la chiave, in cui è stato nascosto un milione di dollari. I suoi compagni sono tutti morti, così lui crede. Ma la valigia contiene solo fogli di giornale. Chi li ha presi? Si mette alla ricerca del ladro. Intanto altri lo cercano lasciando dietro di loro una scia di morti. Mandati da chi?
La durata del film è quasi da record, 220 minuti circa (così è scritto sulla retrocopertina).
Il flashback inizia quando Noodles ricorda Deborah, la bella ragazzina (Jennifer Connelly: Deborah Gelly da bambina), ora divenuta una star (Elizabeth McGovern: Deborah Gelly da adulta), che lui spiava mentre faceva in un magazzino prove di danza, appassionata di teatro.
Sono piccanti, ma rese con pudicizia, le schermaglie d’amore tra Noodles e Deborah ragazzi, (non mancheranno, tuttavia, scene decisamente ardite). In un altro flashback (ne avremo più d’uno durante la narrazione) si apprende che Noodles è stato anche in prigione per aver ucciso, quando era nella banda di ragazzi, un rivale e che alla sua uscita in libertà si è unito ai compagni già affermati nella malavita, dei quali seguiremo alcune gesta.
Il finale ci riserverà una sorpresa e ci svelerà i vari interrogativi e soprattutto chi ha preso quel milione di dollari.
Segnalo il ballo di Deborah e Noodles, adulti, in un salone di ristorante prenotato tutto per loro.
Anche per questo film alcune note della colonna sonora (che contiene anche altri brani famosi) di Morricone sono immortali.

“La storia del generale Custer” di Raoul Walsh

Sulla figura del generale Custer tanto si è detto e tanto si è scritto, commettendo anche errori e forzature.
La sua storia è celebre e soprattutto è iconica la sua morte nello scontro con gli indiani.
Walsh nel 1941 volle farne un film, che ha i suoi pregi e ancora oggi lo si guarda con una certa ammirazione, soprattutto quando Custer (prima del suo ritiro, aveva il grado di Generale), richiamato in servizio col grado di Tenente Colonnello, viene inviato a Fort Abraham Lincoln, nel Dakota del Nord.
Qui vivono gli indiani Sioux, autori di molte scorrerie, con il loro capo Crazy Horse (Cavallo Pazzo) interpretato da un giovane Anthony Quinn.
Questa presenza è da far notare, poiché già nelle sue prime esperienze, a lui sono affidati ruoli di in un certo rilievo. Sappiamo poi la invidiabile carriera fatta da questo attore, bravissimo in tutti i ruoli e determinante spesso per il successo della pellicola.
Herrol Flynn (uno degli attori più celebri di tutti i tempi) recita la parte del generale George Armstrong Custer, all’inizio un po’ spaccone, e infine soltanto temerario. Al suo fianco Olivia de Havilland nella parte di sua moglie Elizabeth Bacon.
Con la celebre battaglia di Little Bighorn tra il 7° cavalleggeri guidati da Custer (che sa di andare incontro alla morte) e gli indiani di Crazy Horse, Walsh, che non risparmia critiche al governo americano di quel tempo, ci regala una narrazione di alta qualità.

“Tom Horn” di William Wiard

Il film, del 1980, ha come personaggio principale il cow boy Tom Horn, interpretato da Steve McQueen, tratto dagli scritti dello stesso Tom Horn, famoso per essere stato un eroe della guerra agli indiani e per aver catturato il loro terribile capo Geronimo. Horn (è una storia vera) viene ingaggiato da un’associazione di allevatori affinché li protegga dai ladri di bestiame, anche uccidendoli, se necessario.
Horn accetta l’incarico e lo sta assolvendo con rigore, ammazzando tutti i ladri che ha trovato sulla sua strada, ma, a questo punto, l’associazione ritiene che stia esagerando con il numero dei morti e combina una trappola per liberarsene. Viene trovato ucciso un ragazzo con le stesse modalità e lo stesso calibro di pallottola usati da Horn, così che viene accusato dell’omicidio. Non ci sarà nulla da fare e anche la sua ragazza, la maestra Glendolene Kimmele (interpretata da Linda Evans) lo lascerà, credendolo colpevole. Sarà impiccato il 20 novembre 1903. Il suo amico John Cathcart Coble rilascerà il 1 marzo 1904 una dichiarazione in cui affermerà di essere convinto, e che questa è la verità, dell’innocenza di Tom.
Steve McQueen recita con la sua solita sobrietà ed è da notare la sua dimessa e sgangherata camminatura, che non somiglia affatto a quella iconica di John Wayne, ma non per questo è meno attrattiva.

“El Dorado” di Howard Hawks

Metti insieme uno specialista, Howard Hawks, John Wayne e Robert Mitchum e che cosa ne può venir fuori se non un ottimo film western, godibile anche oggi. È del 1966. Ricordo che il genere western ci terrà compagnia ancora per un po’.
Cole Thornton, interpretato da John Wayne, è un famoso pistolero e viene chiamato da un potente della zona, Bart Jason, per riuscire ad impossessarsi delle terre di Kevin MacDonald e se, necessario, eliminare Jimmy Harrah (interpretato da Robert Mitchum), sceriffo di El Dorado e una volta amico di Thornton. Giunto sul posto, lo sceriffo gli rivela in che guaio sta per mettersi e cioè che non solo dovrà contendere le terre a MacDonald, ma dovrà anche uccidere lui, che è deciso ad opporsi alle prepotenze di Jason.
Così Thornton va da Jason e gli dice papale papale che rifiuta l’incarico. Sulla via del ritorno, per un malaugurato destino, uccide il figlio di McDonald, il quale è riuscito comunque a sparargli al fianco e il proiettile, non estratto, gli procurerà ogni tanto un intorpidimento alla mano destra. Avrà dei guai per questo.
Cole va dal padre, riportandogli il figlio a dorso di un cavallo. La situazione è destinata a complicarsi, poiché Jason ha assoldato un altro pistolero, Nelse McLeod con la sua banda, e Cole rischia di scontrarsi con lui. Intanto ha conosciuto un ragazzo svelto di coltello, Mississippi, e i due finiscono per associarsi. Ci sarà una sorpresa: Jimmy, lo sceriffo, innamoratosi di una poco di buono, è diventato un ubriacone.
Allo spettatore toccherà vedere come finirà la storia, ma garantisco che ne sarà contento. Le emozioni non mancano dal principio insino alla fine.

“L’uomo dai sette capestri” di John Huston

È del 1972. Ogni tanto a Huston piace assumere le due vesti di regista e di attore, prendendosi una piccola parte. Del resto è bravo anche in questo e il suo personaggio è sempre caratteristico e vivace.
In questo film abbiamo alcuni attori già famosi, Paul Newman, nella parte del giudice Roy Bean, Ava Gardner nella parte dell’avvenente cantante lirica Lillie Langtry (comparirà solo alla fine del film), Anthony Perkins, nella parte del reverendo La Salle e, appunto, John Huston nella parte di Grizzly Adams (dirà che è sempre vissuto tra gli orsi).
Il giudice Roy Bean è in realtà un ex pistolero che si è nominato giudice da sé, con la forza, e si è circondato di compagni coi quali fa il bello e il cattivo tempo nel paese.
Arrivatovi per la prima volta e ricercato con una taglia sul suo capo, entra in un saloon e viene picchiato dagli avventori che, messogli una corda al collo e legatolo ad un cavallo, gli daranno il via, ma riuscirà a scamparla poiché la corda, già logora, si strapperà. Ritornato nel saloon farà fuori gli avventori. In paese giungerà il reverendo La Salle e li seppellirà. Roy Bean si autodichiarerà giudice promettendo di portare l’ordine e la legge nel paese.
Intanto mette su un saloon “con mescita e tavoli da gioco” intestandolo ad una cantante famosa, di cui è ammiratore, Lillie Langtry (“Principi e re bevono champagne dalla sua scarpetta”).
Quando capita in paese una banda di brutti ceffi, li arruola come suoi aiutanti.
È un western insolito carico di ironia e di una velata critica al sistema della legge (si dirà: “La legge è dalla sua parte. Non ho parlato di giustizia.”). L’ironia è talmente forte che perfino duelli e impiccagioni che vi si compiono a iosa ne sono imbevuti.
Il film terminerà, lui morto, con la visita della cantante (una splendente Ava Gardner) al locale di Roy Bean che è diventato un museo e in cui, nel libro dei codici usato da lui per amministrare a suo modo la legge, troverà una sua lettera d’amore in cui si dichiara suo “ardente ammiratore e paladino”.
Una breve scena da segnalare è quella di quando la sua giovane donna Maria Elena (interpretata da Victoria Principal) dà alla luce una bambina e poi muore nelle braccia di Roy, il quale nello stringerla a sé, guarda nella stanza e la invoca: “Maria” come se la cercasse e fosse ancora presente intorno a lui.

“Il mucchio selvaggio” di Sam Peckinpah

È uno dei registi più originali e innovativi di Hollywood. Il film è del 1969, tratto da un racconto di Roy N. Sickner, e vede come protagonisti attori di un certo calibro come William Holden nella parte del fuorilegge Pike Bishop, Ernest Borgnine in quella del suo compagno Dutch Engstrom e Robert Ryan nella parte del cacciatore di taglie Deke Thornton.
La banda di Bishop giunge a cavallo in città, tutti i componenti travesti da soldati. Vogliono svaligiare una banca, entrano e racimolano il denaro. Ma ad attenderli in un’imboscata c’è Thornton coi suoi accoliti un po’ scalcinati (li chiamerà “ladri di galline”), assunti dalla banca per proteggersi dai banditi.
All’uscita, ne nasce una furibonda sparatoria con morti da una parte e dall’altra. Il bottino si rivelerà fasullo, sacchi di rondelle di ferro. Si dovrà studiare un altro piano altrove. Si traferiscono in Messico, dove trovano una popolazione impoverita dalla guerra civile con Pancho Villa che si è ribellato alla dittatura di Victoriano Huerta. Intanto anche Thornton è arrivato in Messico a caccia della banda di Bishop per riscuoterne la taglia, il quale si è messo, con la promessa di un mucchio di soldi, a disposizione di Mapache, un generale despota. Devono assalire un treno americano che trasporta armi.
Ci riusciranno e quel carico farà gola a molti.
Peckinpah ci riserverà delle sorprese nel finale.

“I cavalieri del Nord Ovest” di John Ford

Ci troviamo di fronte ad un maestro del genere western, e non solo. In questo film del 1949 Ford esalta le gesta della cavalleria americana nella battaglia contro gli indiani.
È con Ford che la celebre Monument Valley (quella con colline e spuntoni di roccia), che farà da sfondo a molti altri western, qui ha la sua massima celebrazione. Sembra che tutto si svolga sotto i suoi occhi. Quelle rocce, aspre e nude, di un colore rossiccio, assumono il ruolo di veri e propri personaggi.
John Wayne ha il grado di capitano e comanda uno squadrone di cavalleggeri (che ha per mascotte un cane), con il compito, proprio alla vigilia del suo pensionamento, di condurre la moglie e la nipote del comandante del Forte (se la contendono due giovani ufficiali) a destinazione di sicurezza, poiché gli indiani sono sul sentiero di guerra. Tra essi i capi che hanno acquistato gloria e fama con la vittoria sul generale Custer nella battaglia di Little Bighorn, Cavallo Pazzo e Toro Seduto.
Gli avvenimenti narrati sono il seguito di quella celebre battaglia.
Falliranno e dovranno tornare indietro. Ma non è finita: gli indiani si stanno avvicinando al Forte e si preparano a dare battaglia. Questa volta la perderanno.
Ford ha come, al solito, spunti di comicità, e il film ha momenti di solenne esaltazione, forse un po’ eccessiva. Fa parte della trilogia sulla cavalleria statunitense a cui appartengono Il massacro di Fort Apache (1948) e Rio Grande (1950).

“Il grande sentiero” di John Ford

Ford ha scelto Richard Widmark come protagonista di questo film del 1964, lungo più di 2 ore e mezzo e tratto da un racconto di Mari Sandoz. Questi gli attori presenti e i ruoli assegnati: Richard Widmark: cap. Thomas Archer; Carroll Baker: Deborah Wright; James Stewart: Wyatt Earp; Edward G. Robinson: Carl Schurz; Karl Malden: cap. Oscar Wessels.
Come vedete, tutti attori di pregio.
Gli indiani che il capitano Archer deve tenere sotto controllo sono i Cheyenne, insoddisfatti delle condizioni in cui il governo americano li ha costretti a vivere.
Si comincia con l’incontro che il governo ha fissato con una delegazione indiana, lasciata però per ore in attesa sotto il sole cocente. Gli americani non arrivano, così gli indiani si ritirano. I giovani fratelli Aquila Nera e Zanna di Lupo, avvicinati da Archer, esprimono sdegnati il loro pensiero: “Le parole dei bianchi sono false”. Non è una bella situazione. Intanto gli indiani hanno deciso di non mandare i loro bambini alla scuola dei bianchi, tenuta dai quaccheri. Si attendono le conseguenze, che saranno presto manifeste. I cheyenne decidono di abbandonare le terre aride, desertiche, e s’incamminano per fare ritorno alle loro terre d’origine. La maestra bianca andrà con loro. È l’inizio del grande sentiero, che non mancherà di sottoporli a dure fatiche e all’inseguimento dei soldati (“giubbe blu”). Ad un certo punto i cheyenne decidono di fermarsi e di tendere un’imboscata agli inseguitori, lasciando che le loro donne scavino delle trincee. Archer cerca di evitare lo scontro ma il suo superiore arriva con l’artiglieria e fa fuoco su di essi, facendone strage, ma muore nello scontro.
Tra i cheyenne la situazione si complica quando il figlio di Aquila Nera cerca di insidiare la moglie di Zanna di Lupo. Poi arriva il momento della separazione dei due fratelli. Aquila Nera, con alcuni dei fuggiaschi, rinuncia a proseguire il cammino per consegnarsi al più vicino Forte americano, mentre Zanna di Lupo, coi restanti, prosegue la fuga per arrivare alla loro terra d’origine. Assisteremo a sviluppi interessanti.
Il film è degno della fama di Ford, grandioso per qualità della narrazione (con siparietti secondo la maniera del regista) e delle immagini.

“Uomini selvaggi” di Blake Edwards

Il regista è famoso per la serie di film della Pantera rosa che tanto successo ha avuto nel mondo, con l’indimenticabile e inimitabile Peter Sellers. Ma si è cimentato anche nel western con questo film del 1971 avvalendosi di due attori già affermati nel genere: William Holden, nella parte di Ross Bodine, e Karl Malden, nella parte del suo padrone e poi rivale Walter Buckman, grosso allevatore. Ma quest’ultimo morirà anzitempo ucciso da un fuorilegge. Ha incaricato i suoi figli di rintracciare Bodine e il suo amico Frank Post, entrambi suoi dipendenti, poiché hanno rapinato una banca disonorando il suo nome. I due, intanto, con il denaro rubato, 36 mila dollari, vogliono trasferirsi in Messico per condurre una nuova vita.
L’inseguimento dei due fratelli Buckman avrà successo.
Il regista ha saputo costruire il film a poco a poco, con una narrazione lenta, la quale si accende nella parte finale quando i Buckman stanno per raggiungere i fuggiaschi. Le scene della fuga in un paesaggio di neve e le azioni che vi si svolgono sono esaltanti.

“Cavalca vaquero!” John Farrow

È un film del 1953, uno dei primi che hanno contribuito a farmi amare il genere western. Ecco i protagonisti: Robert Taylor, nella parte di Rio, fratellastro e braccio destro di Esqueda; Anthony Quinn, nella parte del terribile bandito José Esqueda e Ava Gardner, nella parte di Daniela Cameron.
La regione tra il Texas e il Messico, nei pressi del fiume Rio Grande, è un teatro d’eccellenza per molti film western. E lo è anche in questo caso.
La bella Daniela giunge nel paese per riunirsi al suo sposo Tom Cameron, il quale le ha parlato di un bel ranch da lui costruito apposta per viverci bene e in santa pace, ma quando vi arrivano, trovano tutto bruciato da un incendio e ucciso il bestiame. Allora, convinto che il colpevole sia Esqueda, indice un’assemblea per indurre i cittadini a riunirsi per combatterlo. Esqueda spadroneggia e tutti lo temono, perfino lo sceriffo. Ad accompagnare Esqueda c’è sempre Rio, che lo asseconda, anche se non è sempre convinto di ciò che sta facendo il fratellastro.
L’assemblea vede pochi partecipanti, poiché è venuto anche Esqueda e temono che ci scappi il morto. Intanto, Cameron ha costruito una nuova casa, simile questa volta ad una fortezza, e Esqueda incarica Rio di distruggerla. Ma questa volta non ci riusciranno, poiché arriverà uno squadrone di cavalleria e metterà in fuga i banditi. Inseguito da Cameron, Rio cade da cavallo e viene da lui catturato. Fanno un patto: Cameron non lo consegnerà alla giustizia se lui lavorerà per suo conto. Rio accetta e Esqueda non la prende bene.
Tra i due ci sarà un definitivo scontro finale.
Rio dirà a Daniela: “La mia vita vale poco per chiunque e niente per me.”

“Il massacro di Fort Apache” di John Ford

Nel genere western, quando si legge il nome di John Ford si è sicuri che ci troveremo di fronte ad un risultato di grande qualità. Il suo nome è ormai una leggenda, come lo è quello di uno dei suoi attori prediletti, John Wayne, che qui recita la parte del capitano Kirby York. Insieme a lui, Henry Fonda, nella parte del suo superiore colonnello Oswald Turner, che porta con sé a Fort Apache la figlia Philadelphia, interpretata da una giovanissima Shirley Temple, subito innamoratasi del tenente Manuel Shannon O’Rourke (l’attore John Agar), figlio del sergente maggiore Michele, interpretato dall’attore Ward Bond. Lui e Victor McLaglen (sergente Festus Mulcahy), sono figure caratteristiche di tanti film western, con la loro possenza fisica e la loro ruvidezza nei comportamenti. Ma sono presenti anche altri, altrettanto caratteristici, come Pedro Armendariz e Hank Worden.
Durante il film avremo modo di ammirare più volte (ma in bianco e nero, come tutto il film) ampie scene della Monument Valley.
Nulla fa presagire la tragedia che colpirà il Forte, e Ford, con maestria e leggerezza, ci intrattiene presentandoci una vita di caserma molto serena, anche se il nuovo colonnello vi sta portando una certa rigidezza, riducendone il chiassoso cameratismo preesistente. Come al solito, Ford ci confeziona dei siparietti comici che, in questo caso, aiutano a tenere lontana l’imminente tragedia. Tutto cambia, infatti, di lì a poco quando gli indiani Apaches, guidati dal grande capo Cochise (anche Kociss), manifestano le loro intenzioni bellicose, non volendo rientrare nella riserva.
Da questo momento in poi, il film assume la sua grandezza di capolavoro, con scene da tenere a memoria.
È il secondo film della trilogia della cavalleria, dopo I cavalieri del Nord Ovest, a cui seguirà Rio Grande.

“La carovana dei mormoni” di John Ford

È ancora John Ford a dirigere nel 1950 uno dei miei film preferiti, che ha interpreti poco noti ma assai bravi: Ben Johnson, nella parte di Tommy, Harry Carey Jr., nella parte di Sandy, Joanne Dru, nella parte di Linda e Ward Bond, nella parte di: George, il capo carovana C’è anche Hank Worden, nella parte di Luke simpatico e svitato fuorilegge primogenito del capobanda zio Shiloh Clegg, interpretato da Charles Kemper.
Guardare un film di Ford e di più che leggere un romanzo eccellente. Ritmo, pause, movimenti e scenografie si susseguono al ritmo di una musica.
Una carovana di mormoni deve raggiungere una terra a loro assegnata a San Juan in California; faranno da apripista ad altri mormoni quando si saranno insediati. Chiedono che a far loro da guida siano due venditori di cavalli (che i mormoni acquisteranno, pagando un soprappiù per il servizio di guida), poiché la strada è irta di ostacoli, e soprattutto c’è il pericolo di incontrare gli indiani. Le guide sono Tommy e Sandy.
Lungo la strada (deserto e rocce) incontrano una compagnia di attori composta da un simpatico e attrattivo capocomico (John Locksley Halle, interpretato da Alan Mowbray) e da 2 ragazze (una delle quali è Linda), il che animerà il viaggio. Ci saranno canti, balli e preghiere. I guai incominciano quando nel loro campo arriva una banda di fuorilegge. Subito dopo, ecco l’incontro con gli indiani Navaho che, inaspettatamente, dichiarano di essere amici dei mormoni e li ospitano nel loro campo, facendo festa.
Ma i banditi si sono aggregati alla carovana e, sotto minaccia, ne hanno preso il comando, ma non sarà per molto tempo.
Ford ci dà un lieto fine con i mormoni che giungono a destinazione.

“La via del West” di Andrew V. McLaglen

È del 1967, tratto dal romanzo Il sentiero del West scritto da A. B. Guthrie Jr.
Abbiamo un ottimo trio di attori: Kirk Douglas, nella parte di William J. Tadlock, Robert Mitchum, nella parte di Dick Summers e Richard Widmark, nella parte di Lije Evans.
Tadlock, ex senatore, si è messo in testa di portare alcune famiglie nell’Oregon, dove vuole costruire una nuova città, di cui ha già disegnato una mappa, percorrendo un lungo tragitto irto di difficoltà. Chiede a Summers di fargli da guida. Dopo qualche incertezza, Summers accetta.
Nella carovana detta “della libertà”, c’è anche Evans, con la bella moglie Rebecca (“Becky”), interpretata da Lola Albright, e col figlio Brownie, il quale è corteggiato da una bella fanciulla sessualmente attraente, Mercy McBee, interpretata dall’esordiente Sally Field, brava nella parte. Diranno i suoi genitori: “Se non maritiamo quella ragazza prima di arrivare nell’Oregon, finirà con lo scappar via col primo bufalo che incontriamo.”. Nascono le prime divergenze tra il capo carovana Tadlock, troppo severo, e Evans (i due hanno in comune un figlio ciascuno che portano con sé), mentre la guida Summers sta a guardare, lasciandoci intendere che da ciò non sortirà nulla di buono. Summers ha problemi con la vista, che peggiora di giorno in giorno.
Succede che della carovana fa parte anche una giovane coppia, la cui moglie non riesce a fare l’amore col marito poiché ha timore della gravidanza, da cui è terrorizzata. Ed ecco che il marito, Johnnie Mack, interpretato da Michael Witney, trova Mercy nei paraggi ed è attratto da quella smorfiosa che lo lascia però a bocca asciutta.
Siamo abituati a film che vedono spostamenti di carovane in cerca di luoghi migliori dove fondare nuove città e anche questo film ne approfitta per regalarci scenari imponenti e molto suggestivi, come l’attraversamento di un fiume, o del deserto, o le feste tra i pionieri, e così via.
Ma il clima di attesa è reso sempre da piccoli episodi che hanno già in sé il seme di una complicazione, le cui conseguenze sono imprevedibili.
Così succede per l’incontro amoroso tra Mercy e Mack, il quale avrà un seguito, ma la sfortuna vorrà che l’uomo uccida un bambino indiano, e dovrà pagarne la colpa con l’impiccagione. Come pure restiamo in attesa allorché Tadlock corteggia la bella moglie di Evans, che, vedremo, manifesterà stima nei suoi confronti e nel suo progetto.
È una storia ricca di contrappunti con i quali si è irretiti grazie all’abilità narrativa del regista.
Anche la parte finale avrà momenti esaltanti allorché la rivalità tra Tadlock e Evans arriverà al suo punto massimo. La calata dei carri e delle bestie lungo un costone di roccia per attraversare un fiume e raggiungere finalmente l’Oregon è memorabile. Tadlock e suo figlio, invece non raggiungeranno la terra agognata.
Una frase che dà un significato alla storia: “Non si ottiene niente con la frusta, né da noi stessi né da nessun altro.”

“Il pistolero” di Don Siegel

Chiedo al lettore di avere tanta pazienza, poiché mi intratterrò ancora a lungo con il genere western, da me tanto amato. Mi sono chiesto se ne vale la pena e mi sono risposto di sì, perché il western parla di uomini e donne che hanno costruito una civiltà, sacrificandosi e affrontando tanti pericoli, e spesso la morte. Le loro azioni, buone o cattive, hanno sempre avuto il sapore di gesta leggendarie. Non scriverò di tutti i film western che possiedo, ma farò una scelta, che comunque richiederà la vostra pazienza, poiché sarà ampia, ma da cui riceverete, sono sicuro, piacere ed emozioni.
Con questo film del 1976, tratto dal romanzo di Glendon Swarthout, registriamo l’addio a uno dei suoi eroi, John Wayne, il quale, già malato di cancro, morirà poco dopo la fine delle riprese, nel 1979. Di lui parleremo ancora, comunque, poiché ci sono film i quali solo l’unione delle capacità del regista e di Wayne li ha resi immortali.
Il film si avvale, oltre che della presenza di John Wayne, nella parte John Bernard “J.B.” Books, vecchio pistolero malato, di Lauren Bacall, nella parte di Bond Rogers e James Stewart, nella parte del dottor E.W. Hostetler.
John (“Jimmy”) si reca a Carson City per farsi visitare dal dott. Hostetler, suo vecchio amico, il quale gli diagnostica un cancro, che gli darà pochi mesi di vita.
Ma Jimmy deve regolare un vecchio conto con un ex bandito e due suoi compari che gli hanno ucciso il fratello Albert, e decide di restare in città prendendo in affitto una camera nella pensione della vedova Bond Rogers, dando un nome falso. Ma il figlio di lei, Gillom Rogers, interpretato da Ron Howard (che diventerà in futuro un famoso regista) scopre la sua vera identità e lo rivela alla madre, la quale vuole scacciare dalla sua pensione il pericoloso pistolero.
Nella cittadina la sua presenza ha creato una grande tensione Ci saranno vari tentativi per farlo fuori; ma il film tende a prepararci a uno strepitoso duello finale.

“Chisum” di Andrew V. McLaglen

È del 1970, ricavato da una storia vera e da un personaggio realmente esistito con quel nome.
Chisum è un grosso allevatore stimato nel paese di Lincoln, nel quale, però si insedia Lawrence Murphy, ricco pure lui e con intenzioni di dominare la zona. Dirà: “Chisum è un uomo che rispetta la legge, invece qui la legge la faccio io.”. Viene assoldata una banda per rubargli il bestiame e magari per farlo fuori, ma Chisum è un osso duro e ha dalla sua anche un altro onesto allevatore, Henry Tunstall, il quale ha a suo servizio un pistolero che diventerà famoso, William Bonney detto Billy the Kid (“Io colpisco dove miro”). Arriva con la sua banda anche l’amico di scorrerie di Billy, Jess Evans, il quale si meraviglia che Billy sia diventato un guardiano di vacche.
Giunge anche la nipote di Chisum, Sally, un po’ vivace e tra lei e Billy nasce una simpatia (ma ci saranno sorprese). Infine ecco Pat Garrett, un famoso pistolero che conosce il passato di Billy.
Ce n’è già abbastanza per aspettarci degli sviluppi quanto meno esplosivi. Arriva perfino un cacciatore di taglie, che diventerà sceriffo, pure lui al servizio di Murphy.
Il regista già mette tutta la materia sulla scacchiera, e ci sarà soltanto da muovere di volta in volta con abilità i vari pezzi, che hanno già una fisionomia ben tracciata, per disegnare una trama sensazionale. L’abilità finora dimostrata da McLaglen, infatti, è un’ottima garanzia per gli esiti finali.
Intanto la storia fa un passo avanti. Per contrastare il dispotismo di Murphy, Chisum e il suo amico Tunstall decidono di aprire pure loro una banca ed uno spaccio, al fine di calmierare i prezzi e rendere sostenibile la vita agli abitanti di Lincoln. Ma non finisce qui. Tunstall viene ucciso dagli uomini di Murphy, e Billy lo vendicherà.
La sparatoria finale tra gli uomini di Billy e quelli dello sceriffo, che si fronteggiano, vedrà irrompere nella strada un’inferocita mandria, sospinta da Chisum e dai suoi uomini, grazie alla quale sarà risolta la contesa. Murphy morirà in seguito ad una cazzottata con Chisum e Billy tornerà a fare il fuorilegge.

“La più grande avventura” di John Ford

Del 1939, basato sull’omonimo romanzo di Walter D. Edmonds.
Prima di entrare nella storia, fatemi fare un omaggio a John Carradine, un volto che ha molte presenze nei film western, anche se in rappresentanza di personaggi minori, ma sempre ben caratterizzati.
Siamo negli anni che precedono la guerra di indipendenza americana, e precisamente nel 1776.
Gilbert (“Gil”) Martin, interpretato da Henry Fonda, e Lana Borst, interpretata da Claudette Colbert, si sposano e decidono di trasferirsi dove lui ha una piccola fattoria, e dove già si è insediata una colonia di tedeschi, coi quali presto si amalgamano, conducendo una vita serena, dopo le molte tribolazioni iniziali, tra le quali l’irruzione in casa, in una giornata di pioggia, del vecchio indiano Falco Blu, amico di Gil. Ogni tanto tutti i coloni si riuniscono nel vicino Forte per esercitarsi a combattere, visto che ci sono forti segnali della imminente guerra d’indipendenza americana e gli inglesi, appoggiati dagli indiani, a cui hanno promesso mari e monti, scorrazzano nella zona.
Tutto bene, dunque, fintanto che non arrivano gli indiani comandati dall’inglese Caldwell (il nostro John Carradine che, nel personaggio che interpreta, porta una benda nera all’occhio destro) e bruciano la loro fattoria. Lana è in attesa di un bambino, ma per mettersi in salvo, lo perde. Lui cercherà di consolarla: “Tu stai bene, solo questo conta adesso.”.
Rimasti senza casa e senza beni chiedono di mettersi al servizio di una ricca vedova, la signora McKlenna, interpretata da Edna May Oliver (anche questo, un volto caratteristico del cinema) e sembra che tutto proceda per il meglio quando di nuovo tutti i coloni sono attaccati dagli indiani. Questa volta sono i coloni ad avere la meglio. “Gliele abbiamo date, ma abbiamo vinto”, dirà Gil ferito a Lana, che lo sta medicando in mezzo a tanti altri feriti. Ma la vittoria ha breve durata, poiché gli attacchi si susseguiranno fino a quando, rinserratesi i coloni nel vicino Forte, Gil non si offrirà di andare a chiedere rinforzi, i quali arriveranno in tempo.
La narrazione di questo film ha la potenza e la coralità di un Tolstoj. Succede spesso con questo grande regista che, non a caso, ha 4 Oscar al suo attivo. Innumerevoli le scene che andrebbero sottolineate. Una per tutte: quando Gil corre a chiedere rinforzi e tre indiani lo inseguono.

“L’uomo del West” di William Wyler

Un altro attore che ha spadroneggiato nel genere western è stato Gary Cooper, con la sua figura alta e dinoccolata e il suo sorriso appena accennato su di un volto scarno e con le fossette sulle gote. Si proiettano raramente i film che lo vedono protagonista.
Questo è del 1940, tratto da un racconto di Stuart N. Lake, e vi gioca il ruolo di un cow boy, Cole Harden, che alla fine diventerà vice sceriffo.
Siamo nell’area in cui il fiume Pecos confluisce nel Rio Grande, così chiamato nel Messico e chiamato invece Rio Bravo nella parte americana.
Harden vi giunge con le mani legate dietro la schiena, poiché è accusato di avere rubato il cavallo su cui è in sella. È portato davanti al proprietario di un saloon, Roy Bean, interpretato da un altro volto caratteristico del cinema, Walter Brennan, che si è autonominato giudice e spadroneggia nel paese (dirà a Harden: “Chi l’ha detto che è un bar, questo è un tribunale”), dove è in atto una guerra tra allevatori, sostenuti dal giudice, e i contadini che vogliono alzare recinti per difendere i loro raccolti. Brennan è bravissimo nella sua parte e per questo meriterà nel 1941 il Premio Oscar per il migliore attore non protagonista. Vedremo altri giovani attori, allora alle prime armi, e poi divenuti famosi.
Harden dichiara di averlo comprato, ma è provato che chi glielo ha venduto lo aveva rubato, poiché il vero proprietario lo riconosce davanti al giudice. Ma Harden non è creduto: si insiste che lui ha rubato il cavallo, nonostante una ragazza, Jane Ellen Mathews, interpretata da Doris Davenport, giunta lì per difendere un abuso perpetrato sui contadini, denuncia l’irregolarità del processo. Tutto inutile. È condannato all’impiccagione. Ma Harden escogita uno stratagemma che rimanda l’esecuzione della sentenza. Promette, infatti, al giudice, che ne è un ammiratore sfegatato, di portargli un ciuffo di capelli della sua attrice preferita, Lily Langtry (è lo stesso nome, Lillie Langtry, di una cantante veramente esistita, interpretata da Ava Gardner nel film del 1972 di John Huston intitolato: “L’uomo dai sette capestri”). Il giudice acconsente. Ma la fortuna vuole che nel saloon capiti proprio l’uomo che gli ha venduto il cavallo, che morirà nello scontro con Harden e il giudice.
Harden andrà a ringraziare la ragazza che lo ha difeso nel corso del processo, la quale riuscirà a convincerlo a restare con lei e a dare una mano nel lavoro dei campi. Ma tra allevatori e contadini permangono i contrasti e ne nascerà un feroce scontro con l’incendio dei raccolti e il duello finale, in un teatro vuoto, tra Harden e il giudice, che Harden porterà poi, morente, davanti all’attrice, giunta in paese per una esibizione, esaudendo così il suo sogno. Reso con spettacolare risultato l’incendio dei campi e il duello nel teatro.

“Rancho notorius” di Fritz Lang

Girato nel 1952 ha tra i suoi protagonisti nientemeno che Marlene Dietrich, nella parte di Altar Keane (Ambra, nel doppiaggio), prima entraineuse e in seguito proprietaria di un ranch, il ‘Mulino d’oro’, che dà rifugio a molti fuorilegge, tra cui Mel Ferrer, nella parte di Frenchy Fairmont, un temuto pistolero. È stato lui a farle vincere tanto denaro da poter acquistare il ranch, ora sono più che amici. Lui le dice: “Sono sempre lunghi i giorni che passo lontano da te.”.
Altar resta tuttavia una donna indipendente e decisa.
È giusto far notare anche la presenza di un attore che ha ricoperto vari ruoli nel western, ossia Arthur Kennedy, che qui interpreta la parte di Vern Haskell, un mandriano alla caccia degli assassini della sua fidanzata, la quale è stata uccisa da due banditi che hanno rapinato il suo negozio.
Fatta amicizia in prigione con il pistolero, è da questi condotto nel ranch di Altar, dove ha preso rifugio, insieme con altri, un bandito che ha sulla guancia sinistra due cicatrici prodotte da graffi. Vern sospetta che sia lui l’assassino, ma ha ancora dei dubbi, poiché Altar porta indosso una spilla che lui aveva regalato alla fidanzata. Potrebbe essere, dunque, anche Frenchy, legato sentimentalmente ad Altar, l’assassino. Lo spettatore sa bene che non è Frenchy, ma i dubbi di Vern riescono ad empatizzarsi con lui, grazie all’abilità narrativa di Lang. Avremo un finale a sorpresa.

“Nessuna pietà per Ulzana” di Robert Aldrich

È un film di valore, di cui non si parla molto. Girato nel 1972, ha come protagonista Burt Lancaster nelle vesti dell’esperto scout McIntosh.
Gli indiani, scontenti del trattamento a loro riservato dal governo americano, imperversano comandati da un feroce e astuto capo apache di nome Ulzana (dirà McIntosh: “Uccidono chiunque vogliono”), interpretato da Joaquín Martínez, e fanno strage di coloni. Significative le immagini dell’assalto alla donna che fugge col calessino sul quale è anche suo figlio, e l’uccisione del colono e del suo cane. L’uomo si era asserragliato nella sua casa che viene bruciata, come viene bruciato lui stesso. Ad una precisa domanda, la guida indiana dirà che gli indiani uccidono perché dell’uomo ucciso si appropriano della sua forza.
Un plotone di cavalleria è inviato dal governo per dar loro la caccia al comando del tenente DeBuin affiancato da McIntosh e dalla guida Ke-Ni-Tay, cognato di Ulzana ma suo nemico.
La caccia a Ulzana è ricca di emozioni, basti pensare che il giovane figlio del capo apache viene ucciso da McIntosh, e Ulzana ora non fugge più ma cerca vendetta.
È un film poderoso, che tiene lo spettatore incollato alle immagini sino alla fine.

“Rio Grande” di John Ford

Ed eccoci di nuovo con il leggendario John Wayne, più vivo che mai in questo film del 1950, che completa la ‘trilogia della cavalleria’. Questo film ha assunto in Italia anche il titolo di “Rio Bravo”, ma “Rio Bravo” è il titolo autentico di un altro western famoso, del 1959 con la regia di Howard Hawks, sempre con John Wayne, e tradotto in italiano col titolo di “Un dollaro d’onore”, di cui scriverò fra poco.
In “Rio Grande”, accanto a John Wayne che interpreta il personaggio del tenente colonnello Kirby Yorke, troviamo Maureen O’Hara, una delle mie attrici preferite, nel ruolo di sua moglie, Mrs. Kathleen Yorke.
Il film è tratto da uno scritto di James Warner Bellah.
Abbiamo a che fare con indiani che si sono ribellati ai dettami del governo americano, e Yorke deve dargli la caccia. Al suo reggimento è assegnato come soldato semplice suo figlio Jefferson, che lui non vede da 15 anni, essendosi separato dalla moglie. Nonostante cerchi di essere severo con lui, il colonnello lo tiene fuori dai pericoli. La caccia agli indiani si ferma quando si arriva al confine con il Messico, segnato dal fiume Rio Grande. Più oltre non può andare. Ma finalmente il generale dà l’ordine di varcare il confine, poiché gli indiani hanno rapito dei bambini e li hanno portati in Messico, rinchiudendoli in una chiesa. È ciò che attendeva con ansia il colonnello, il quale però vuole che suo figlio non faccia parte della spedizione. Incarica il caporale Travis Tyree, interpretato da Ben Johnson, di prendere due uomini con sé per andare in avanscoperta. Tyree sceglie tra questi anche il figlio Jefferson e questa volta il colonnello non si oppone.
La missione avrà successo e quando il colonnello verrà colpito da una freccia indiana, chiederà proprio al figlio di estrargliela.
Da segnalare ancora una volta che in tutta la trilogia una parte importante la svolge col suo possente fascino la Monument Valley.

“Un dollaro d’onore” di Howard Haws

Vanta un eccellente cast con John Wayne nella parte dello sceriffo John Chance, Dean Martin, nella parte del suo vice sceriffo Dude e Angie Dickinson, nella parte della bella Feathers, un’avventuriera.
Uscito nel 1952, ebbe molto successo.
Nathan Burdette, interpretato da John Russell, spadroneggia nella cittadina di Rio Bravo. Chance non ha molte carte da giocare per fermare la sua prepotenza. Il suo vice Dude è diventato un ubriacone a causa di una delusione d’amore e Chance può contare solo (ma sul finale quando lo nominerà vice sceriffo) sul giovane pistolero Colorado “Kid” Ryan, interpretato da Ricky Nelson, giunto in paese al servizio di un allevatore amico di Chance.
In realtà c’è anche un vecchio zoppo, Stumpy, pure lui vice sceriffo, che aiuta a tenere sotto controllo l’ufficio e la prigione. È il bravo e caratteristico attore Walter Brennan che interpetra quella parte.
I guai sorgono subito all’inizio quando il fratello di Burdette, Joe, entra ubriaco nel saloon e uccide un avventore e Chance lo arresta.
Burdette ne esige la liberazione e fa vari tentativi per riuscirvi, schierando i suoi uomini nei pressi della prigione, pronti a sfruttare la minima occasione favorevole.
Uccidono il padrone di Colorado Kid e questi vuole vendicarlo. L’atmosfera si surriscalda. Dune, più volte umiliato per il suo vizio, smette di bere e sta ritornando il veloce e astuto pistolero di un tempo, quando tutti lo temevano.
La regia ci regala due scene rimaste memorabili. La prima è quando Dune ubriaco entra nel saloon ed elemosina da bere e Joe gli getta una moneta nella sputacchiera posta sul pavimento. La seconda è quando Dune, dopo aver ferito uno della banda, entra nel saloon dove lo ha visto rifugiarsi. Gli avventori negano che un uomo sia entrato, ma nel bicchiere pieno di birra che è sul bancone cadono delle gocce di sangue. L’uomo è nascosto, infatti, sopra la scalinata, e Dune lo fa fuori. Chance si complimenta con lui, poiché è tornato quello di un tempo.
Ma in paese arriva ora nientemeno che Nathan Burdette: vuole far visita al fratello chiuso in prigione. Si avverte già l’atmosfera della resa dei conti. Chanche continua a muoversi portando sempre con sé l’inseparabile fucile. La bella avventuriera, intanto, rimessasi sulla buona strada, gli fa la corte, sempre con un suo furbo sorriso, senza però riuscire a scuoterlo, ma si avverte già che Chance è pronto a cederle.
L’ufficio dello sceriffo e la prigione fanno da punto focalizzante della narrazione. È lì che si discute e si prendono le decisioni.
Ormai ci siamo. Per la seconda volta Dune viene catturato e Nathan chiede lo scambio con il fratello. Chance accetta, e lo splendido finale gli darà ragione.

“Ombre rosse” di John Ford

È uno dei classici dei classici, che vede protagonista un praticamente esordiente John Wayne che, dopo Henry Fonda, diventerà l’attore prediletto dal grande regista americano. È tratto da un racconto di Ernest Haycox. In questo film del 1939 Ford già manifesta il suo amore per la Monument Valley la cui visione ci accompagnerà in molte scene suggestive.
Ringo è il nome del personaggio che John Wayne interpreta, un fuorilegge fuggito di prigione per vendicare la morte del padre e del fratello.
Siamo sopra una diligenza a bordo della quale vi sono personaggi tipici come Thomas Mitchel, nella parte del dottore ubriacone Josiah Boone, e Donald Meek, nella parte del rappresentante di liquori Samuel Peacock, della cui valigetta Boone si appropria per attingervi di quando in quando lungo il viaggio. Con loro ci sono altri individui e in particolare la bella ma mal tollerata Dallas, una prostituta, interpretata da Claire Trevor, e un altro personaggio, un giocatore di carte, Hatfield, interpretato dal sempre bravo John Carradine.
La diligenza incontra per strada, con sulle spalle la sua sella, il ricercato Ringo che chiede un passaggio che gli viene concesso. Lo sceriffo, che è a bordo, lo prende in custodia. Fanno alcune soste, nella seconda delle quali l’altra signora a bordo della diligenza partorisce una bambina.
Ma all’improvviso arriva una freccia dentro la diligenza che ferisce Peacock, il rappresentante di liquori, preannuncio degli indiani apache che stanno arrivando comandati da Geronimo (spettacolari le riprese dell’assalto). Hatfiel, il giocatore di carte, che si era preso cura della partoriente, viene invece colpito a morte.
Grazie all’arrivo della cavalleria, la diligenza può raggiungere la destinazione, dove subito si sparge la voce che è arrivato Ringo, e gli assassini (3 fratelli) ricercati da Ringo vengono avvertiti.
È giunto il tempo della vendetta, e Ford ne farà un momento solenne coi 3 fratelli che, usciti dal saloon e messisi per strada, incontreranno (è sera) Ringo, armato di fucile. Si getterà a terra e farà fuoco uccidendoli. Per quanto riguarda Dallas, la prostituta, Ford le riserva un lieto fine.

“Rio Lobo” di Howard Hawks

Il film è del 1970 e si svolge durante la guerra di secessione americana.
Un treno nordista con un carico d’oro è assalito dai confederati che fanno fuggire i nordisti di scorta con uno stratagemma. Alcuni restano feriti tra cui un amico, che perderà la vita, del colonnello Cord McNelly, interpretato da John Wayne, il quale si mette subito alla loro ricerca.
Desidero segnalare la presenza nel film di un attore che ho in simpatia e sempre bravo nella parte, Jack Elam, che qui interpreta il ruolo del vecchio Phillips, di cui scriverò nel corso della narrazione.
Andando in perlustrazione, il colonnello viene catturato dagli stessi assalitori del treno, che vogliono servirsene per oltrepassare le linee nordiste, ma il tentativo fallisce e i sudisti vengono fatti prigionieri. La guerra ha termine e i prigionieri vengono liberati. Il colonnello è convinto che l’assalto del treno sia stato possibile grazie a una spiata e vuole scoprire il colpevole. Fa un patto con il capitano degli assalitori, Pierre Cordora, interpretato da Jorge Rivero, e il suo sergente Tuscarora, interpretato da Christopher Mitchum, che sono rimessi in libertà, affinché gli rivelino il nome dei traditori, che – gli dicono – sono due, uno grosso come il colonnello e uno albino e piccoletto.
Tornato pure lui in borghese il colonnello, riceve un avviso da Tuscarora, il quale lo informa che almeno una delle due spie si trova a Rio Lobo, e forse anche il secondo uomo.
Ma il secondo uomo, il piccoletto, è trovato e ucciso in un saloon fuori da Rio Lobo con uno scontro a fuoco, a cui partecipa dalla parte dell’ex colonnello, anche l’ex capitano sudista, che si accompagnerà a McNelly nella sua personale caccia nella città di Rio Lobo, insieme con una ragazza, Shasta Delaney, interpretata da Jennifer O’Neill, che è stata la causa di quello scontro.
Il traditore è presto trovato. Un uomo spadroneggia a Rio Lobo, e lo sceriffo è a suo servizio. Si è intestardito e vuole acquistare a un prezzo irrisorio un ranch che appartiene al patrigno di Tuscarora, il vecchio Phillips, interpretato da Jack Elam, cui ho accennato più sopra. È l’ex sergente maggiore Ike Gorman, che ora si fa chiamare Ketcham, interpretato da Victor French.
Ketcham però ha in mano un asso da giocare; il suo sceriffo ha fatto arrestare Tuscarora accusandolo di essere un ladro di cavalli. Per liberarlo vuole il ranch desiderato.
McNelly ha un’altra idea, catturare addirittura Ketcham per scambiarlo con Tuscarora. Il suo progetto riesce, ma la sfortuna vuole che Cordora, mandato a chiedere rinforzi, viene preso dagli uomini dello sceriffo e così ora lo scambio dovrà avvenire tra Ketcham e Cordora.
Il film ha una trama molto articolata e piacevole, e vi si vede la mano di un regista capace come Howard Hawks.

“Il Grinta” di Henry Hathaway

Con questa interpretazione John Wayne vinse nel 1970 il suo unico Oscar.
Il film del 1969 è tratto dal romanzo di Charles Portis.
Il leggendario attore vi recita il ruolo di Rooster Cogburn detto “Il Grinta”, uno sceriffo federale ormai anziano che si è fatto la fama di cacciatore spietato di delinquenti e a maggior ragione di assassini. Porta una benda nera sull’occhio sinistro, perduto durante la guerra contro i nordisti. All’inizio assistiamo all’impiccagione di 3 di essi e le immagini ci mostrano come, a quei tempi, l’impiccagione fosse occasione di spettacolo. Qualche ragazzo vi andava perfino per vendere le noccioline!
Una giovane di nome Mattie Ross, interpretata da Kim Darby (molto brava), va a trovarlo affinché dia la caccia all’assassino di suo padre, un allevatore di cavalli, il cui aiutante, in stato di ubriachezza, lo ha ucciso. Il nome dell’assassino è Tom Chaney, interpretato da Jeff Corey.
Il Grinta accetta l’incarico e il compenso in denaro (100 dollari), ma la ragazza pone subito la condizione di andare con lui, che cerca di convincerla ad evitare i rischi che senz’altro ci saranno, poiché il ricercato si è unito ad una banda di fuorilegge comandati da Ned Pepper, interpretato da Robert Duvall, già scontratisi una volta con lo sceriffo buscandone una cicatrice sulla bocca.
Ai due si aggiunge un sergente dei ranger, texano, La Boeuf, interpretato da Glen Campbell, che va a caccia dello stesso uomo. Tentano più volte di sbarazzarsi della ragazza, ma Mattie è ostinata e capace di tenergli testa.
Di solito i film western sono violenti, spesso ci sono scontri sanguinosi e duelli mortali, però sono sempre ricchi di paesaggi meravigliosi. Succede anche qui, lungo il percorso che i tre fanno per raggiungere l’assassino, e quando i paesaggi dominano nella scena, c’è sempre poesia.
Trovano la banda, compreso l’assassino del padre di Mattie. Assistiamo ad uno scontro epico che resta iconico nel suo genere. Lo sceriffo è in sella al suo cavallo, ha davanti a sé i 4 (su 5) banditi superstiti. Non li teme, si mette in bocca le redini e con una mano prende il fucile e con l’altra la pistola e via di corsa incontro a loro, sparando in continuazione ora con l’uno ora con l’altra. Li fa fuori tutti.
Nel rivederlo ho accresciuto la mia quotazione, già alta, su questo film.

“Torna ‘El Grinta’” di Stuart Millar

C’era da aspettarselo che qualcuno, visto il successo de “Il Grinta”, provasse a fare un seguito. Nel 1975 ci si è messo Stuart Miller che, per assicurarsi il successo, che poi è venuto, ha voluto con sé, oltre a John Wayne (nella parte dello sceriffo Rooster Cogburn), la bravissima Katharine Hepburn (nella parte di Eula, figlia di un predicatore nordista, anch’ella fervente devota), la quale farà con John Wayne, quando siedono insieme sul carro rubato, un duetto che è un capolavoro. Il film ha spunti comici di notevole qualità. Ma andiamo con ordine.
Anche qui Cogburn è uno sceriffo spietato. Senza muover ciglio ha fatto fuori tre banditi, e questo suo modo spregiudicato di agire (“eccessivo zelo e esagerata irruenza”) induce il giudice a revocargli il mandato.
Ma sarà per poco, poiché in paese giunge una banda capitanata da un certo Hawk, interpretato da Richard Jordan, la quale assalta un carro che trasporta armi e esplosivi, al fine di servirsene per svaligiare una banca. Il giudice è costretto a richiamare Cogburn, il solo che possa tenere testa alla banda, la quale si ferma, per una sosta, al villaggio di indiani dove opera il missionario nordista e sua figlia, e vi fa un massacro. Uccidono anche il padre di Eula. Poco dopo arriva, solitario, lo sceriffo che, rendendosi conto di ciò che è accaduto; porta con sé la donna (“Quella donna è cocciuta colme un mulo”) e un giovane indiano scampato alla morte, che vengono ospitati da una famiglia amica dello sceriffo. Ma la donna è decisa a seguire Cogburn e lascia subito dopo la casa raggiungendolo insieme con l’indiano. E qui cominciano i simpatici battibecchi tra i due, poiché Cogburn farebbe volentieri a meno della sua compagnia (“Se le donne avranno il voto, che Dio ci protegga”; “Chiunque avesse l’idea di prenderla di petto, avrebbe la peggio”).
Intanto la banda, inseguita dagli indiani, ne fa strage avvalendosi degli esplosivi rubati.
Ma Cogburn, con l’aiuto di Eula e dell’indiano, riesce a recuperare il carro mettendo in fuga la banda. Ora Eula e Il Grinta siedono insieme, a cassetta, sul carro recuperato e danno luogo a quel delizioso duetto a cui ho accennato più sopra. E non finirà lì.
Non c’è un momento il cui il film annoi. Le immagini si alternano tra quelle che riguardano la banda e quelle che riguardano i tre inseguitori. Paesaggi e narrazione scorrono fluidamente. E John Wayne e Katharine Hepburn avrebbero meritato un premio.
Chi ha visto “Amore tra le rovine” di George Cukor, uscito nello stesso anno, il 1975, e apprezzato i duetti che vi si svolgono tra Katharine Hepburn e Laurence Olivier converrà che quelli di questo film gli stanno alla pari.
Tornando al film, la banda di Hawk non desiste; vuole recuperare il carro ad ogni costo, ma non è facile; Cogburn è astuto. Ora ha trasferito il carico su una chiatta e si è messo a percorrere il fiume (belle le immagini, soprattutto quando affrontano le rapide) sperando di cavarsela. Ma anche sul fiume le trappole non mancano.
I colpi di scena si susseguono coinvolgendo lo spettatore che, pur immaginando il lieto fine, non ne sa il modo e resta attratto dalla narrazione.
Il regista, meno famoso di Henry Hathaway (lo ricordiamo: regista de “Il Grinta”) rivela lucidità e controllo.
Quando Eula e Cogburn si lasciano (lei tornerà alla missione) tesse le lodi dello sceriffo con tale foga e con tale sentimento di affetto che lui, mentre lei si allontana, dirà: “Porco mondo, ha avuto ancora lei l’ultima parola”.

“Il fiume rosso” di Howard Hawks

È del 1948, tratto da un racconto di Borden Chase. John Wayne vi assume la parte di un ricco allevatore con il nome di Thomas Dunson, e Montgomery Clift la parte del suo figlioccio, Matt Garth.
Conosciamo la bravura di Wayne nell’interpretare i western, ma questo film ci dà l’occasione di misurare quella di un giovane Montgomery Clift al suo esordio, con la curiosità implicita di vedere come se la cavi alle prime armi un attore che diventerà poi famoso.
Dunson lascia una carovana per andare da solo nel Texas attraversando il fiume Rosso in cerca di fortuna. Mentre si allontana vede del fumo in lontananza proprio dove sta dirigendosi la carovana nella quale è rimasta la fidanzata. È attaccata dagli indiani. Muoiono tutti, compresa lei, poiché Dunson ritrova un braccialetto che le aveva regalato poco prima indosso a un indiano, che uccide in un duello nell’acqua. Con lui a condurre il carro è Nadine Groot, che sarà anche la voce narrante, interpretato dal bravo Walter Brennan. Un ragazzo è fuggito al massacro e Dunson lo prende con sé.
Il tempo passa e Dunson ha realizzato il suo sogno. È diventato un allevatore importante e il ragazzo, Matt Garth, è cresciuto, ed ora è interpretato da Montgomery Clift, svelto di pistola e al quale Dunson ha regalato il braccialetto.
Devono trasferire una mandria di qualche migliaio di capi nel Missouri e Dunson raduna tutti i suoi cow-boy per metterli al corrente dell’impresa e del pericolo degli indiani. Tra essi c’è un bravo pistolero che diventa amico di Matt, Cherry Valance, interpretato da John Ireland, il quale sarà il protagonista un po’ goffo di un film di Roger Corman, “Il mercenario della morte” del 1956.
Durante una sosta di notte, per colpa di un mandriano che fa cadere del pentolame da un carro per prendersi dello zucchero, la mandria spaventata si mette in fuga e l’inseguimento per riportarla all’ordine è spettacolare. Vi perde la vita, però, un giovane mandriano che in quel viaggio aveva riposto il suo sogno di acquistare una terra tutta sua e di regalare un paio di scarpette rosse alla moglie.
Il colpevole viene punito severamente e con ciò si apre nel gruppo una divisione con Dunson e Matt che si trovano su posizioni opposte. La divisione sarà netta quando Dunson vorrà impiccare due mandriani che erano fuggiti. Avrà la meglio Matt, meno severo.
Sarà lui a condurre la mandria d’ora in poi, non più nel Missouri ma in una località più vicina, Abilene. Dunson, lasciato solo, la seguirà per cercare la sua vendetta (“Ti troverò dove sarai dovesse cascare il mondo e ti ammazzerò”). Entrerà in scena anche una donna, innamoratasi di Matt, Tess Millay, interpretata da Joanne Dru, la quale avrà un ruolo importante nella riconciliazione tra i due.

“Nevada Smith” di Henry Hathaway

Del 1966. Abbiamo a che fare con un attore eclettico morto troppo presto, nel 1980, a 50 anni: Steve McQueen, nella parte di Nevada Smith, e con un altro attore presente in molti film western, Karl Malden, nel ruolo del fuorilegge Tom Fitch.
Succede che a Nevada Smith (si farà chiamare così, ma il suo vero nome è Max Sand: “Io sono un bianco a metà”, è figlio di un’indiana), tre fuorilegge (tra cui l’attore Arthur Kennedy), comandati da Tom Fitch fanno irruzione a casa sua e uccidono i suoi genitori.
Max arriva troppo tardi, solo per constatare il massacro (“Non sembrano più neanche esseri umani”). È un contadino e non sa sparare come si deve, ma in lui cova il desiderio della vendetta. Ha visto in faccia i 3 assassini e vuole ucciderli. Così ne va a caccia, dopo aver bruciato la sua casa con dentro i corpi straziati dei suoi genitori, la madre un’indiana kiowa. Ha un cavallo, un fucile e 8 dollari con sé. Inesperto, presto gli rubano cavallo e fucile. Appiedato, incontra un venditore di armi, Jonas Cord (interpretato da Brian Keith) che gli insegna a sparare con la pistola e a essere un po’ più furbo (“Trovarli sarà una cosa e ucciderli un’altra”).
La narrazione, molto quieta e coi tempi giusti, è affascinante.
Ad Abilene, una cittadina che ricorre nei western, trova lavoro come mandriano e proprio lì, in un saloon, incontra il primo degli assassini e lo fa fuori. Il duello ai coltelli è superbamente reso. Ancora più avvincente la caccia al secondo, che si trova rinchiuso in una prigione della Louisiana, situata in mezzo alla palude. Max escogita un modo per farsi arrestare e rinchiudere proprio lì. Individua l’assassino e finge si escogitare una fuga, aiutati da una lavorante delle vicine risaie, Pilar, una creola, che li aiuta a procurarsi una barca per attraversare la palude. Morirà, morsa da un serpente. Nel corso di questo trasferimento (suggestive le immagini), Max uccide il secondo fuorilegge. Più difficile per il terzo, Tom Fitche, accorto e sospettoso. Entra, perciò, nella sua banda in incognito, col falso nome di Nevada Smith. Tom sa già che i suoi due ex compagni sono stati uccisi da un certo Max, e quando sente pronunciare da qualcuno il suo nome, si mette in sospetto e in guardia. Arriva a convincersi, per una fortunata circostanza, che Max sia nella sua banda, ma non sa riconoscerlo. La sua attenzione si fa spasmodica.
Il regista sa approfittare di questa situazione e l’alimenta con la suspence. È una delle migliori cacce all’uomo realizzate dal cinema.
Ovviamente Max completerà la sua vendetta.

“Mezzogiorno di fuoco” diretto da Fred Zinnemann

Del 1952. Anche in questo caso siamo all’eccellenza dell’eccellenza, soprattutto per la sobrietà del film che si traduce in luminosa bellezza, ed è certamente l’interpretazione più ricordata ed anche autorevole di quel grande attore che fu Gary Cooper, che qui interpreta la parte dello sceriffo Willy Kane. A stargli a fianco c’è nientemeno che Grace Kelly nella parte della moglie quacchera Amy Fowler Kane. Il film vede anche la presenza di colui che diverrà famoso nei film western di Sergio Leone, ossia Lee Van Cleef, nella parte di Jack Colby.
Tre fuorilegge, tra cui il fratello Ben Miller, interpretato da Sheb Wooley, attendono alla stazione di Hadleyville, nel territorio del Nuovo Messico, il loro capo Frank Miller, interpretato da Ian MacDonald, uscito di prigione, che arriva col treno di mezzogiorno (certamente Sergio Leone questa scena l’ha avuta presente quando girava il film del 1969 “C’era una volta il west”).
È questo pericoloso arrivo che convince lo sceriffo Kane, che, sposatosi, ha riconsegnato la stella di sceriffo e si appresta a lasciare la cittadina, a rimandare le sue dimissioni per affrontare il fuorilegge nell’interesse dei cittadini. La moglie quacchera non è d’accordo poiché contraria all’uso delle armi, ma Kane insiste: “Io devo rimanere”. Amy, dopo una prima incertezza, non lo lascerà solo ed anzi risulterà importante nello scontro finale.
Kane chiede aiuto ai cittadini, ma nessuno è disposto a rischiare la vita, nemmeno il suo vice.
C’è un’altra persona che teme l’arrivo di Frank, è Helen Ramirez, interpretata da Katy Jurado, una messicana proprietaria di un saloon. È stata la donna di Frank, e anche dello sceriffo prima che questi conoscesse Amy, l’attuale moglie. Teme l’ira di Frank per non essergli stata fedele.
Il film si dipana intorno all’ora che precede l’arrivo di Frank, ossia tra circa le 11 e mezzogiorno. Paura e attesa dello scontro la fanno da padrone. Il tutto è diretto magistralmente dalla regia che scandisce il passare del tempo. Ogni tanto l’inquadratura ritorna ai tre fuorilegge che attendono l’arrivo del treno. La solitudine di Kane si taglia col coltello.
Ma siamo arrivati al dunque. Frank Miller e i suoi sono, infatti, arrivati in città. È passato da poco mezzogiorno, l’atmosfera si fa ancora più incandescente. La gente ha paura e si rintana in casa o nella bottega, spiando la strada. Miller e i suoi avanzano cauti ma spavaldi e sicuri, poiché sono in numero superiore. Sanno che Kane è solo e Frank sente vicina e sicura la sua vendetta nei confronti di Kane, che fu determinante nel catturarlo e nel mandarlo in galera. Dunque, sono 4 contro 1.
La strada è deserta, di qua Kane (ha dovuto perfino sostenere poco prima una cazzottata col suo vice che voleva mandarlo via) il quale avanza solitario, di là i quattro che ancora non lo vedono ma gli vanno incontro. Tutto è avvolto nel silenzio, quando un rumore causato dalla sbruffoneria di uno dei quattro (fracassa una vetrina per impossessarsi di un cappellino da donna) mette in allarme Kane, che ora si muove con circospezione. Infine si vedono e inizia la sparatoria. Kane ce la farà, con l’aiuto della moglie che appena sentito il primo sparo scende dal treno e corre in suo soccorso. Ucciderà un fuorilegge e sarà determinante nella morte di Frank.
La gente ora si riversa nella strada, vorrebbe congratularsi con Kane, ma lui si toglie la stella di sceriffo e la getta a terra, disgustato. Poi sale sul calesse con la moglie e lascia il paese.
La ballata “High Noon” di Dimitri Tiomkin con testo di Ned Washington cantata da Tex Ritter, che apre e chiude la storia, è diventata un classico, conosciuta quanto e forse più del film.

“I magnifici sette” diretto da John Sturges

Il film, del 1960, ha una carrellata di ottimi attori. Eccoli: Yul Brynner (Chris Adams), Eli Wallach (Calvera), Steve McQueen (Vin Tanner), Charles Bronson (Bernardo O’Reilly), Robert Vaughn (Lee), Brad Dexter (Harry Luck), James Coburn (Britt).
Anche la colonna sonora di Elmer Bernstein è diventata celebre come il film, il quale è ispirato al capolavoro di Akira Kurosawa, “I sette samurai”, del 1954, come dichiarato nei titoli d’avvio. Il successo del film spingerà altri registi a produrre 3 sequel.
Un misero villaggio messicano è vessato da un bandito, Calvera, che con la sua banda viene nella stagione dei raccolti per portarseli via, lasciando a quella povera gente quasi nulla. La rapina va avanti da anni, finché il villaggio si ribella e manda alcuni a cercare qualcuno che d’ora in avanti li protegga. Incontrano Chris Adams, un pistolero, il quale li consiglia, anziché comprare armi, di assoldare alcuni pistoleri. Sarà lui a trovarli. Accettano.
Sono venuti a conoscenza del valore di Yul Brynner (“Chris”) e di Steve McQueen (“Vin”) poiché i due si offrono di guidare un carro funebre con sopra un indiano morto nel locale cimitero, dove sono accolti solo i bianchi. Gli uomini che si oppongono alla sepoltura desistono per paura.
Presto Chris riesce a trovare i pistoleri, tutti d’accordo di aiutare i contadini nonostante il compenso sia misero.
Simpaticamente e in qualche caso spettacolarmente è resa la scelta dei sette pistoleri, come quando accolgono Harry Luck, che immagina che sotto sotto ci sia la caccia a una miniera d’oro, e quando tocca all’uomo dal coltello veloce, Britt. Dirà Chris di lui: “Con pistola e coltello nessuno può batterlo”.
Completata la scelta tornano al villaggio, dove trovano soltanto uomini. Hanno nascosto le donne per paura di stupri.
Non resta che attendere Calvera e la sua banda; intanto insegnano ai contadini a sparare, e preparano le difese. Le donne, scoperte, tornano al villaggio e alle loro occupazioni.
Calvera arriva. Vede i pistoleri e capisce. “Noi vendiamo piombo” gli dice Vin. Non si aspettavano una tale accoglienza e perdono il primo scontro.
In queste fasi già appare la morale del film: per difendersi dai soprusi, bisogna imparare a difendersi: “E pensare che ci hanno derubato per tanti anni”.
Ritorneranno?
Sarà così e Calvera e la sua banda, proprio quando sembravano vincenti, avranno ancora una volta, e definitivamente, la peggio, e Calverà morirà. Il più giovane dei pistoleri, Chico, interpretato da Horst Buchholz, nel lasciare il villaggio con gli altri, avrà un ripensamento: si è innamorato di una di loro e tornerà indietro per restare con lei.
Bello il rapporto che si instaura tra Bernardo (Charles Bronson) e 3 bambini del villaggio.
Quando tutto sarà finito il vecchio capo dirà a Chris e ai pistoleri superstiti, che stanno per congedarsi, che in realtà sono i contadini che hanno vinto, poiché i contadini sono la terra e che i pistoleri sono stati come un forte vento che “libera il grano dalle locuste”.

“Sfida infernale” diretto da John Ford

Il suo titolo originale è “My Darling Clementine”, ossia, nello svolgimento del film, la colonna sonora rappresentata dalla canzone omonima, divenuta celeberrima, forse quanto “Lili Marleen”.
Il film, tratto da un romanzo di Stuart N. Lake, è del 1946. Gli attori principali sono Heny Fonda, nella parte del celebre sceriffo Wyatt Earp e Victor Mature, nella parte di Doc Holliday, personaggi realmente esistiti. Clementina Carter, fidanzata di Doc e di cui si innamora Earp, è interpretata da Cathy Downs e, dulcis in fundo, Linda Darnell, nella parte di Chihuahua, la ragazza di Doc.
Lo scontro, con cui si concluderà il film, è veramente avvenuto nel 1881 nei pressi di Tombstone, in Arizona.
Earp è stato sceriffo nella cittadina di Doge City, temuto e stimato; ora fa l’allevatore con i fratelli Morgan, Virgil e James. Stanno trasportando la loro mandria in California.
Incontrano un allevatore prepotente, Clanton, interpretato da Walter Brennan, con uno dei suoi quattro figli, il quale si propone di comprare l’intera mandria, ma il prezzo è troppo basso e Earp rifiuta.
Tre dei quattro fratelli Earp si recano a Tombstone per svagarsi e farsi un po’ di pulizie, lasciando a guardia del bestiame il fratello minore James. Nel saloon c’è un indiano ubriaco che si è messo a sparare su ogni cosa che gli capiti a tiro. Lo sceriffo e il vice sceriffo si rifiutano di arrestarlo, spaventati dalla sua furia, e danno le dimissioni. Earp sta facendosi la barba quando è disturbato dalla sparatoria dell’indiano; esce fuori e constata che nessuno vuole affrontarlo, e allora lo fa lui, trascinandolo fuori per le gambe. Vogliono ringraziarlo e quando Earp dice il suo nome, restano stupiti, conoscendo la sua fama, e gli propongono di accettare l’incarico di sceriffo. Earp rifiuta, ma quando, tornato coi fratelli alla mandria, trova ucciso James e il bestiame rubato, torna in città e accetta l’incarico.
Sa già che deve vedersela con i Clanton, che spadroneggiano con la violenza e che sicuramente sono responsabili di quanto gli è successo.
Il film prende qui l’abbrivio dando già un anticipo delle emozioni che incontreremo.
Stupenda l’immagine della tomba di James con lo sfondo della Monument Valley.
Facciamo ora la conoscenza di John Holliday, ossia di Doc, come è chiamato. Viene da Boston, è un chirurgo, ma è diventato violento e ubriacone. Tutta la città lo teme. Sa usare la pistola, e sa farsi obbedire. È malato di tubercolosi, e sempre più di frequente è colpito da attacchi di tosse.
La sua nuova ragazza è Chihuahua, una cantante del saloon, ma ecco che a trovarlo, dopo averlo cercato ovunque, è la fidanzata Clementina. Doc le spiega che non è più quello di una volta e che deve dimenticarlo e abbandonare il paese. L’arrivo di Clementina ha irritato Doc, tanto che i suoi rapporti con Chihuahua sono diventati tesi: “Non mi seccare e miagolale a qualcun altro le tue canzoni appiccicose”. Ma più tardi le prometterà di sposarla.
Come sua abitudine, Ford ci fa assistere a siparietti divertenti, sicché il film per qualche momento ci fa dimenticare la tragedia imminente. Infatti, Chihuahua porta al collo un medaglione che era appartenuto al fratello di Earp, James, nel corso della ruberia al bestiame. Interrogata, dice di averlo avuto da Doc, ma messa alle strette confesserà che a darglielo è stato Billy, uno dei figli del vecchio Clanton.
Accadranno altri fatti spiacevoli ed emozionanti, finché si arriverà allo scontro finale presso il recinto dei cavalli chiamato O.K. Corral.

“Sfida all’O.K. Corral” di John Sturges

È uno dei sequel, il più famoso ed anche il più riuscito. Anno 1957. Attori: Burt Lancaster, nella parte dello sceriffo Wyatt Earp e Kirk Douglas, nella parte di Doc Holliday. Come si vede 2 giganti.
Rispetto al film di Ford, questo è a colori.
La storia si somiglia, ma è giusto segnalare la mano diversa di Sturges, che deve aver avuto del coraggio per impegnarsi in questa realizzazione, il cui paragone sarebbe stato con quello già definito uno dei capolavori di John Ford. Sturges ce la fa, e riesce a ricavare dalla celebre storia (che accadde veramente nel 1881) un film di alta qualità, a cominciare dalla colonna sonora rappresentata dalla canzone omonima di Ned Washington e Dimitri Tiomkin, cantata da Frank Laine. Nel 1967, il regista ci proverà di nuovo con “L’ora delle pistole – Vendetta all’OK Corral”.
Il film, nonostante la conclusione e qualche punto di contatto, ha una trama diversa.
Arrivano in paese 3 ceffi che cercano Doc, il quale ha ucciso il fratello di uno di loro (interpretato da Lee Van Cleef). Doc è in camera sua, mezzo ubriaco, sta litigando con la sua donna, Kate Fisher, interpretata da Jo Van Fleet. Gli dicono che al saloon lo stanno cercando; lei lo supplica di non andare. Intanto, in paese giunge anche Wyatt Earp, che va alla ricerca del fuorilegge Johnny Ringo, interpretato da John Ireland, che appartiene alla banda di Shanghai Pierce, interpretato da Ted de Corsia, e poi di Ike Clanton, interpretato da Lyle Bettger.
Doc entra nel saloon e fa fuori chi lo stava cercando.
Ci si trasferisce ora a Doge City dove Earp esercita il suo ufficio di sceriffo, e vi capita pure Doc. Mentre è lì, giunge in diligenza anche un’avvenente giocatrice, Laura Denbow, interpretata da Rhonda Fleming.
Earp vorrebbe arrestarla, ma poi ci rinuncia. Peraltro è una donna affascinante, e presto se ne innamorerà.
Invece Kate, la donna di Doc, approfittando di una sua lunga assenza, si è messa con Ringo. Venuto a saperlo, Doc la va a cercare sperando di trovarli insieme.
Così è infatti, e Ringo lo sfida, ma Doc rifiuta di reagire, poiché ha promesso a Earp, di non creare problemi a Doge City.
Ma ecco che irrompe nella cittadina Shangai Pierce con la sua banda; iniziano a sparare terrorizzando la gente. A fianco di Shangai c’è Ringo.
Poi entrano nel saloon a fracassare ogni cosa e a fare chiasso. Sopraggiunge Earp che, spalleggiato da Doc, li costringe alla resa. C’è uno scontro tra Doc e Ringo, e Ringo resta ferito al braccio destro. Gli dirà Doc: “Ringrazia Iddio che stasera mi sento caritatevole.”.
Earp vuole sposare Laura, la giocatrice, e ha intenzione di rinunciare all’incarico, come lei desidera, allorché arriva un telegramma del fratello Virgin, sceriffo a Tombstone, in cui gli chiede di recarsi da lui, poiché ha bisogno di aiuto.
A Tombstone spadroneggia la banda del vecchio Ike Clanton. Laura non vuole lasciarlo andare, Ma Earp le dice che Virgil è suo fratello e non può tirarsi indietro. Così parte; lo raggiungerà Doc, ormai diventato suo amico. Raggiunto Virgil, vi trova anche gli altri fratelli, James e Morgan, che gli affidano il compito di dirigere le azioni contro Clanton, il quale vuole attraversare il paese con la sua mandria (frutto di ruberie) e cerca, inutilmente, di corrompere Earp con del denaro. Al servizio di Clanton è ora Ringo e Earp lo sbeffeggia dicendogli che lo trova schierato sempre col padrone di turno. Sono le prime scintille. Ringo sarà ucciso da Doc, il quale dirà a Earp: “Ringo lascialo a me.”.
Per il resto è storia conosciuta, resa magistralmente da Sturges.
Resta difficile scegliere tra Ford e Sturges. Entrambi sono stati capaci di realizzare due capolavori.

“Hombre” di Martin Ritt

Del 1967, tratto da un racconto di Elmore Leonard.
Questi gli attori: Paul Newman (John Russell), Fredric March (Alexander Favor), Richard Boone (Cicero Grimes), Diane Cilento (Jessie Brown), Cameron Mitchell (Frank Braden) e Barbara Rush (Audra Favor).
Adottato dagli indiani e divenuto adulto tra loro, John Russell (“Hombre”, abbraccerà sempre il fucile alla maniera indiana) eredita una locanda con 10 camere gestita da Jessie Brown, una bella donna che sa badare a se stessa.
John non ha intenzione di trattenersi ed ha già venduto la locanda prima che arrivasse. Ora entrambi sono seduti alla stazione di posta in attesa della prima diligenza per lasciare il paese, quando entra un omaccione dall’espressione feroce e risoluta, Cicero Grimes, interpretato da Richard Boone. Nonostante che i posti siano già al completo, vuole pure lui salire sulla diligenza e costringe un soldato a cedergli il biglietto.
Quando la corriera inizia il viaggio, si avverte subito che ne vedremo delle belle.
Martin Ritt è un regista esperto, tutte le inquadrature che accompagnano il viaggio portano il segno di un evento che dovrà accadere.
Ci sono alcune scaramucce tra i passeggeri, soprattutto durante le soste: la moglie del responsabile della riserva indiana, Audra Favor, interpretata da Barbara Rush, sta sulle sue, è spocchiosa, esige dal marito che faccia trasferire John a cassetta, riuscendoci; una giovane sposa irrequieta ronza attorno all’omaccione, dichiarandogli la sua ammirazione. Invece tra John e Jessie s’instaura un’amicizia, anche se ancora pungente.
Intanto, dei sospetti di pericolo hanno indotto il postiglione Mendez, interpretato da Martin Balsam, e il responsabile della riserva indiana, Favor, interpretato da Fredric March, a cambiare strada.
I sospetti si avverano comunque, anche sul nuovo percorso, poiché incontrano i banditi e scoprono che l’omaccione Cicero ne è il capo. Derubati i passeggeri, si allontano, ma John ne fa fuori due, rimasti indietro, uno dei quali ha il bottino, di cui si appropria.
Ora i passeggeri si affidano a lui, certi che Cicero tornerà indietro a recuperare i soldi. Si avvalgono della sua esperienza indiana e della sua sagacia. Si appostano tra le rocce circostanti.
I banditi arrivano, e promettono di rilasciare la prigioniera contro la restituzione del denaro e un po’ d’acqua. Hombre rifiuta decisamente, anche di fronte alla minaccia di uccidere la donna. Jessie gli dirà “Lei non è stanco, lei non ha fame, lei non ha sete, ma è di carne?”; “Più o meno” risponde lui.
I banditi legano la prigioniera sotto il sole, muore di sete e si lamenta. I suoi lamenti sono laceranti e percuotono le coscienze (“Dio non esiste”), soprattutto di Jessie che vorrebbe render loro il denaro.
Sono ormai vicine le fasi finali dello scontro, che sorprenderà. Dirà Cicero a Hombre: “Amico, riconosco che hai un bel fegato a venir giù a questo modo.”.

“Quel treno per Yuma” di Delmer Daves

In questo film del 1957, tratto dall’omonimo racconto di Elmore Leonard, la fanno da padroni Glen Ford, nella parte del fuorilegge Ben Wade, e Van Heflin, nella parte di Dan Evans, il quale, allevatore, ma che sa anche usar bene il fucile, contribuisce alla cattura di Wade e accetta, in compenso di 200 dollari, di far salire il bandito sul treno per Yuma delle 3 e 10, affinché sia rinchiuso in prigione.
È una storia semplice, ma ben condotta con la giusta suspence. I componenti della banda di Wade fanno di tutto per liberarlo, ma succede che Wade, venuto a conoscere la famiglia di Evans, comincia a nutrire simpatia e ammirazione per il suo coraggio e la sua determinazione.
Ma seguiamo il regista passo passo.
Wade e la sua banda assaltano la diligenza impossessandosi dell’oro. Dan Evans coi 2 figli dalla vicina collina vede tutto. Anche Wade li scorge, non li uccide ma si prende i cavalli, lasciandoli appiedati.
Evans nuota in cattive acque, ha poco bestiame, c’è siccità, e fatica a mandare avanti la famiglia.
I banditi, intanto, si fermano in paese, entrano nel saloon dove li serve una bella ragazza, Emmy, interpretata da Felicia Farr. Wade gli fa la corte e manda via i suoi uomini, perché raggiungano il Messico.
Lo sceriffo è partito di gran carriera per dare la caccia ai fuorilegge, ma viene a sapere che uno di essi è rimasto in paese, si trova nel saloon. Potrebbe essere addirittura Wade. Chiedono a Evans, che si trova lì, se vuole unirsi a loro, e lui accetta.
Riescono a prendere Wade, ma sanno di non poterlo tenere in paese, poiché la sua banda verrebbe a liberarlo. Devono trasferirlo in un carcere più sicuro. Evans era venuto per chiedere allo sceriffo un prestito di 200 dollari, e lo sceriffo glieli ha rifiutati. Ma per trasportare Wade a Contention Ciy per farlo salire sul treno per Yuma, che parte alle 3 e 10, danno una ricompensa proprio di 200 dollari, e Evans accetta.
Da questo momento cominciano le acrobazie e le tribolazioni di Evans per riuscire nell’impresa. Dovrà perfino portare Wade a casa sua per una breve sosta, onde ingannare la banda che lo sta cercando. E resistere alle lusinghe di Wade che tenta di corromperlo, offrendogli molto denaro.
Sarà l’amore che Alice Evans, interpretata da Leora Dana, nutre per il marito che darà il lieto fine alla storia.

“La conquista del West” di John Ford, George Marshall e Henry Hathaway

Tre registi hanno messo mano a questo lungo e bel film, del 1962: John Ford, George Marshall e Henry Hathaway.
Luccica di bellezza.
Come luccicano di bellezza e di bravura gli attori e le attrici scelti. Gli attori: Henry Fonda, nella parte di Jethro Stuart, Gregory Peck, nella parte di Cleve Van Valen, James Stewart, nella parte di Linus Rawlings, John Wayne, nella parte di William T. Sherman, Richard Widmark, nella parte di Mike King, Eli Wallach, nella parte di Charlie Gant, Karl Malden, nella parte di Zebulon Prescott, Walter Brennan, nella parte di Jeb Hawkins, George Peppard, nella parte di Zeb Rawlings, Lee J. Cobb, nella parte di Lou Ramsey, Robert Preston, nella parte di Roger Morgan.
Le attrici: Carroll Baker, nella parte di Eve Prescott Rawlings, Carolyn Jones, nella parte di Julie Rawlings, Debbie Reynolds, nella parte di Lilith (“Lily”) Prescott e Brigid Bazlen, nella parte di Dora Hawkins.
Il film si svolge a episodi con sbalzi di tempo, nei quali appaiono quando l’uno quando l’altro degli attori sunnominati.
Arduo farne un riassunto che, comunque, a prescindere dalla sua lunghezza e completezza, non potrà mai dare la dimensione epica di questo film, in cui i tre registi hanno avuto la mano felicissima.
Anche le musiche che accompagnano il film sono degne di nota.
Siamo nel 1839 e in America molte famiglie vanno in cerca della terra promessa. Anche la famiglia Prescott, il cui capofamiglia è interpretato da un eccellente Karl Malden. Ha, oltre al figlio maschio ancora bambino, 2 figlie che si prendono subito la scena: Eve (Carrol Baker), romantica, e Lily (Debbie Reynolds), più sbarazzina.
Il battello su cui sono saliti è legato a una corda trascinata da un cavallo che si trova a riva. Scesi, si fabbricano una zattera con la quale continuare il viaggio. Incontrano un cacciatore di pelli, si chiama Linus (James Stewart) ed Eve già prova un forte sentimento per lui che, però, non ne vuole sapere. La lascia e si allontana sulla sua canoa, finché capita tra banditi, comandati da un vecchio, Jeb Hawkins (Walter Brennan), i quali, con un inganno, lo gettano in una fossa e gli rubano il carico. La stessa cosa succederà ai Prescott, ma tutto avrà un buon fine.
La mia narrazione necessariamente striminzita non rende giustizia alle belle immagini che accompagnano la storia, come quella dell’attraversamento delle rapide del fiume. Viene da meravigliarsi che qualcuno sia stato capace di girare scene simili, affascinanti e poderose.
Si passa agli anni ’50 dell’’800, a Saint Louis, dove Lily si è trasferita per fare la ballerina, quando riceve la notizia che le hanno lasciato in eredità una miniera d’oro in California. In questa parte del film è Gregory Peck (Cleve Van Valen), un giocatore d’azzardo, un po’ sbruffone, a prendersi la scena. Lui si trova ad ascoltare la conversazione con cui a Lily è stata comunicata l’eredità e d’allora la segue e la corteggia. Si parte per la California. La carovana è guidata da Roger Morgan (Robert Preston).
Il comportamento di Cleve è talmente goffo e prevedibile che Lily ne avverte il fascino, nonostante che il capo carovana l’abbia chiesta in moglie (“C‘è qualcosa sotto. Deve esserci qualcosa che vi trattiene.”).
Ed ecco comparire gli indiani su scenari fantastici, a caccia del bestiame che accompagna la carovana. È il piatto forte di questa seconda parte. Gli indiani riusciranno nell’impresa. Intanto, il legame affettivo tra Lily e Cleve ormai si è consolidato. Speranzosi, si mettono in viaggio per raggiungere la miniera d’oro ereditata da Lily, ma quando vi giungono la delusione è grande. La miniera è all’asciutto e abbandonata da anni. Niente denaro, niente ricchezza, dunque. Lily si mette a fare la ballerina, con successo, e Cleve la lascia per tornare a fare il giocatore. Ne approfitta Morgan per tornare alla carica con Lily, ma senza successo (“Siete sprecata, una donna bella come voi.”). Si capisce che Lily ama ancora Cleve, il quale sta giocando sopra un battello allorché sente la sua voce che canta la bella canzone la cui musica fa da colonna sonora al film, “A Home In The Meadow” (la musica è di Alfred Newman e le parole sono della stessa attrice che recita la parte, Debbie Reynolds). Abbandona il tavolo e chiede a Lily di sposarlo.
Si apre il capitolo ambientato al tempo della guerra civile americana, e sappiamo che Linus, col grado di capitano, è morto. Tra gli ufficiali nordisti c’è William T. Sherman, interpretato da John Wayne (la sua è un’apparizione fugace). Uno dei figli di Linus, Zeb Rawlings (George Peppard) si arruola e diventerà Tenente dell’esercito nordista. Dirà al fratello, a cui lascia la sua parte di eredità: “Anch’io voglio arrivare in qualche posto.”.
Ora è la volta di Richard Widmark (Mike King), cinico imprenditore che si scontra (sono gli anni immediatamente successivi alla guerra di secessione) con Zeb, che ha avuto, a capo di una squadra di soldati, l’incarico di controllare e proteggere i lavori, e al quale Zeb vuole impedire di attraversare con la ferrovia il territorio indiano.
Compare anche Henry Fonda, come Jethro Stuart, cacciatore di castori e di bisonti, e una volta amico di Linus.
Ci sono tensioni con gli indiani. Grandiosa la carica dei bisonti contro gli insediamenti dei bianchi.
Zeb lascia l’esercito convinto che non si possa fermare il progresso.
Nuove cittadine sono sorte nell’Ovest, e anche tanta violenza rappresentata da fuorilegge senza scrupoli.
Qui ritroviamo Lily (la sorella Eve è morta da tempo) che nuota in cattive acque. Rimasta vedova e senza figli, è costretta a vendere quanto possiede, salvo la vecchia fattoria che era appartenuta a suo padre. Da quelle parti, in California, c’è suo nipote Zeb che fa lo sceriffo e l’aiuterà. Vi giunge e lo incontra; è sposato ed ha moglie e tre figli. Ma dallo stesso treno scende anche il bandito Charlie Gant, interpretato da Eli Wallach. Ad attenderlo c’è la sua banda. Tira una cattiva aria e Zeb è preoccupato, poiché gli ha ucciso il fratello e hanno un conto in sospeso. Gant gli ha promesso che un giorno o l’altro gli farà visita a casa sua.
Gant intanto assalta un treno che trasporta oro e sul quale è salito anche Zeb, prevedendo le sue mosse. Ci sarà una sparatoria, e Gant avrà la peggio. Spettacolari le immagini del deragliamento del treno.
Ora la zia Lily, Zeb e la sua famiglia potranno trasferirsi nella sua fattoria.

“I 4 figli di Katie Elder” di Henry Hathaway

È un film del 1965 tratto da un racconto di Talbot Jennings, con John Wayne, nella parte di John Elder, Dean Martin, nella parte di Tom Elder, Michael Anderson Jr., nella parte di Bud Elder, Earl Holliman, nella parte di Matt Elder, James Gregory, nella parte di Morgan Hastings, Dennis Hopper, nella parte di Dave Hastings e George Kennedy, nella parte di Curley.
Tre dei quattro fratelli attendono alla stazione il treno che porta da loro il più grande, John Elder (John Wayne), ma il treno arriva e lui non c’è. Ne scende invece un losco individuo (Curley) che ha tutta l’aria di essere un pistolero. Infatti è stato ingaggiato dal ricco Morgan Hastings (James Gregory), che teme l’arrivo di John.
Katie Elder, la loro madre, è morta e i 3 fratelli decidono di celebrare il funerale anche senza John, che in realtà è arrivato di nascosto ed è presente da sopra una collinetta. Quando tutti se ne sono andati scende e si avvicina alla tomba, ma lo raggiunge lo sceriffo Billy Wilson, interpretato da Paul Fix, preoccupato di quanto possa accadere con la sua presenza. Ha intuito che il pistolero sconosciuto giunto in città è stato assoldato da Morgan per tutta la durata della sua permanenza. Teme lo scontro tra i due. Inoltre, gli rivela che il ranch non è più suo e che se vuole incontrarsi coi fratelli li troverà in un’umile dimora, dove la stessa Katie è morta. Riunitisi coi fratelli, John vuol vederci chiaro sulla vendita del ranch. Qualche mese prima – così ha appreso dallo stesso sceriffo – suo padre è stato ucciso e non si è trovato il colpevole.
D’accordo coi fratelli, inizia ad indagare.
Viene a conoscenza che sua madre era una donna benvoluta da tutti, ma che non ha lasciato nulla in eredità; in banca non c’è nemmeno un dollaro. Era senza quattrini e viveva facendo dei lavoretti e insegnando a suonare la chitarra. E i soldi della vendita del ranch? si domandano i fratelli, che fine hanno fatto? Insieme vanno a visitare il loro vecchio ranch, dove ha preso alloggio Morgan Hastings, con il figlio Dave, debole di carattere e pauroso. Si rafforzano i sospetti, dopo che lo sceriffo ha confermato che il padre è stato assassinato sparandogli alle spalle, subito dopo aver perso il ranch al gioco.
C’è anche una presenza femminile, quella di Miss Mary Gordon, interpretata da Martha Hyer. Ha avuto cura della madre degli Elder e ora John vorrebbe regalargli un ricordo di lei, una sedia a dondolo, tanto cara alla defunta. La ragazza accetta, lusingata. Ne nasce un sentimento.
Il film tende alla soluzione finale. Ormai gli Elder sono arrivati alla conclusione che il responsabile della morte del padre è Morgan Hastings e che lui si è impossessato del ranch barando al gioco.
C’è una novità. Tom Elder, il secondogenito, è ricercato dalla legge. Lo ha scoperto il vice sceriffo, aiutato da Hastings. Lo sceriffo commette un errore: fa capire a Hastings di sospettare qualcosa sulla morte del padre dei fratelli Elder. Così, mentre si reca da loro per chiarire la posizione di Tom, Hastings, in un agguato, lo uccide.
Il cerchio si stringe. Ci sarà qualche complicazione per gli Elder, ma d’ora in poi il film punterà diritto verso il finale.

“L’uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford

Due attori straordinari in questo film del 1962, tratto da un racconto di Dorothy M. Johnson: James Stewart, nella parte di Ransom Stoddard e John Wayne, nella parte di Tom Doniphon. Liberty Valance è interpretato da Lee Marvin e Hallie da Vera Miles.
Si respira un’atmosfera malinconica all’inizio, ma foriera di una grande storia. Si avverte subito.
Il senatore Ramson Stoddard arriva col treno alla stazione di Shinbone. La cittadina è cambiata, si è ingrandita, ma presto si sparge la voce della sua presenza con la moglie Hallie. La stampa locale gli domanda come mai è capitato lì, da dove manca da 25 anni. Sono venuto per assistere a un funerale. E chi è morto? Tom Doniphon. Tom Doniphon? E chi era costui? si domanda la direzione del giornale. Si corre ad informarsi.
Intanto il senatore e la moglie si recano presso l’agenzia funebre per rendere omaggio al defunto, che è chiuso dentro una misera cassa di legno. “È la contea che paga le spese”, gli dice l’agente.
Il direttore del giornale locale non cava un ragno dal buco e allora torna dal senatore, che è ancora davanti alla bara, ed esige che gli sia rivelato chi è il morto.
Comincia il racconto. E facciamo subito conoscenza con Liberty Valance e la sua banda (tra cui l’attore Lee Van Cleef) che svaligiano una diligenza, sulla quale è anche Ramson, il futuro senatore, che deve recarsi a Shinbone come procuratore legale. Si ribella ma viene malmenato pesantemente dallo stesso Liberty. Lo ritrova Tom e con l’amico negro, Pompeo, interpretato da Woody Strode, lo porta a casa di Hallie perché sia curato. Poiché Ramson non ha dimestichezza con le armi, né gradisce averne, d’ora in poi Tom, che ne è diventato amico, gli farà praticamente da balia.
La trama ci orienta su come la legge rappresentata da Ramson, possa avere ragione della prepotenza dei fuorilegge.
Mentre Ramson fa lo sguattero in una trattoria per guadagnarsi da vivere (mette su pure una scuola), dove lavora anche Hallie, arriva Valance, lo vede, lo riconosce e gli fa lo sgambetto mentre porta sul vassoio una bistecca. La bistecca rotola a terra, ma malauguratamente essa era destinata a Tom, che non la prende bene e ordina a Valance di raccoglierla. Si eviterà lo scontro grazie all’intervento di Ramson.
Ma non è finita.
Scoppia (ciò è frequente nei film western) una dura e inconciliabile controversia tra allevatori e contadini, e i primi, già di per sé più forti, hanno assoldato Liberty Valance e la sua banda per far valere le proprie ragioni. Perciò in paese, abitato da contadini, si teme il suo arrivo. Che non tarda, poiché si stanno celebrando le votazioni per le elezioni politiche e i mandriani vogliono intimorire gli elettori. Liberty Valance, che non è del paese ma dichiara “Io vivo dove metto il cappello”, irrompe e si candida, ma non viene eletto.
Sono eletti invece Ramson (e da qui partirà la sua carriera) e il giornalista locale, un bravissimo Peabody, interpretato da Edmond O’Brien. Così Valance si avvicina a Ramson (è presente anche Tom) e lo sfida a duello quella sera stessa. “Dovevi cominciare prima ad allenarti” gli dice Tom. Si deve dire, infatti, che Ranson si era allenato negli ultimi giorni a sparare ed è stato aiutato anche da Tom, ma i risultati sono stati scadenti.
Quando arriva la sera, si ha lo scontro, ma prima Valance si presenta coi suoi scagnozzi nella tipografia del giornale e distrugge tutte le macchine, infine frusta pesantemente Peabody, le cui parole rivolte a Ramson, che lo soccorre, sono: “Gliel’ho detto a Liberty Valance che la libertà di stampa è sacra.”. Ramson è indignato per quanto accaduto, vede lo sceriffo e gli dice: “Sceriffo, di’ a Liberty Valance che accetto la sfida.”. Va a prendere la pistola e, in modo impacciato, si muove incontro al fuorilegge, che si diverte con lui, finché, inaspettatamente, viene colpito da un proiettile e muore.
Ma chi è stato, nascosto nell’ombra, a sparare?
Ford ci regalerà nel finale la risposta e un siparietto politico molto divertente, in cui primeggiano Peabody e l’onorevole Cassius Starbuckle, interpretato da un imponente e sfarzoso John Carradine.
A Ramson, che davanti alla bara di Tom ha raccontato ciò che avvenne realmente, si risponde: “Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda.”.

“Sentieri selvaggi” di John Ford

Del 1956, tratto dal romanzo di Alan LeMay, questo film è leggendario per storia e ambientazione, dove Ford, sempre superlativo in questo genere, qui ha una stella in più. Come una stella in più ce l’ha il suo attore preferito, John Wayne, con il ruolo di Ethan Edwards, il quale torna a casa dopo 3 anni dalla fine della guerra di secessione.
Lo ha visto arrivare a cavallo dalla veranda della sua casa la moglie del fratello, il quale subito lo riconosce. Lei si chiama Martha, interpretata da Dorothy Jordan, e lui Aaron, interpretato da Walter Coy. In casa hanno anche Martin Pawley, interpretato da Jeffrey Hunter, che Ethan raccolse bambino nei pressi della sua casa distrutta dagli indiani, e lo adottò. Ci sono anche due ragazze e un ragazzo. Le due ragazze sono Lucy, interpretata da Pippa Scott, e Debbie, interpretata da adulta da Natalie Wood.
Arriva alla fattoria, con alcuni uomini, il capitano-reverendo Samuel Clayton, interpretato da Ward Bond, il quale va a caccia dei Comanche che hanno compiuto delle scorrerie, uccidendo del bestiame. Chiede che qualcuno si unisca a loro. Ethan accetta, e Ford ne approfitta per tracciare il percorso del gruppo lungo la sua amata Monument Valley, che vedremo più volte. Presto, però, Ethan capisce di che si tratta: gli indiani hanno teso una trappola, hanno voluto allontanarli dalle loro case per attaccarle, distruggere e uccidere. Quando torna indietro, constata che aveva ragione. Ma ormai è troppo tardi. Sono stati uccisi Martha, Aaron e il ragazzo.
Superba l’atmosfera di suspence creata dal regista in preparazione dell’attacco, di sera, degli indiani alla fattoria di Aaron.
Vanno ora alla ricerca delle 2 ragazze, Lucy e Debbie, ma ad un certo punto il capitano-reverendo decide di fermarsi e rinunciare. Ethan no. Vuole proseguire e lo accompagnano Martin e Brad Jorgensen, interpretato da Harry Carey, fidanzato di Lucy.
Lucy è morta, violentata e trucidata dagli indiani. È Ethan a trovarla e quando Brad crede di averla vista in un vicino accampamento di indiani, Ethan gli dice la verità. Allora Brad, preso dall’ira, monta a cavallo e si dirige verso l’accampamento per vendicarsi, ma verrà ucciso.
Ethan e Martin ritornano a casa, hanno scritto alla famiglia di Brad della morte del figlio e della sua fidanzata Lucy, nipote di Ethan. Ma non rinunciano alla ricerca di Debbie. Nella famiglia Jorgensen c’è un’altra figlia (sorella di Brad), Laurie, che è fidanzata con Martin. È felice di rivederlo, ma Martin riparte all’inseguimento di Ethan che se n’è andato di nascosto. Vuole andare con lui, poiché sa che Ethan potrebbe uccidere Debbie, considerandola ormai una pellerossa. Ethan poco prima ha ricevuto una lettera con uno straccio di grembiule appartenuto a Debbie. Dunque, è viva.
I prossimi appuntamenti saranno molto intensi, in cui l’odio cederà il passo all’amore.
Ford ci farà assistere pure ad una simpatica situazione. Laurie, stanca di aspettare Martin (sono passati 5 anni), sta per sposarsi con Charlie McCorry, interpretato da Ken Curtis. Ma arriva Martin, e non se ne farà più nulla.
Un personaggio da segnalare è Mosè, “un po’ suonato” ma divertente, interpretato da Hank Worden.
Leggendaria e iconica l’inquadratura finale di John Wayne.

“Ultima notte a Warlock” di Edward Dmytryk

Attori di tutto rispetto animano questo film del 1959, tratto dal romanzo di Oakley Hall: Richard Widmark, nella parte di John Gannon, Henry Fonda, nella parte di Clay Blaisedell, Anthony Quinn, nella parte di Tom Morgan, Dorothy Malone, nella parte di Lily Dollar e Dolores Michaels, nella parte di Jessie Marlow.
In paese domina una banda di fuorilegge, comandata da Abe McQuown, interpretato da Tom Drake, il quale ha dei conti da saldare con lo sceriffo. Al suo arrivo, quest’ultimo, terrorizzato, scappa. Il paese ha bisogno di sostituirlo con qualcuno che abbia fama di pistolero bravo e coraggioso. Viene fatto il nome di Clay Balisedell, che si è guadagnato, per la sua fama, due pistole dal calcio d’oro, il quale arriva accompagnato dall’inseparabile e zoppicante (“uno storpio”) Tom Morgan.
Alla banda appartiene anche John Gannon, il quale, però, non condivide le prepotenze del suo capo e comincia a distinguersi da lui.
Clay detta subito le sue condizioni; praticamente chiede che sia lui a comandare in paese. Salvo il giudice e la ragazza Jessie Marlow, tutti gli altri le accettano.
Tom Morgan ha approfittato dell’occasione che si è presentata acquistando il saloon, di cui il proprietario ha voluto liberarsi fuggendo dal paese. Vi ha preso alloggio, oltre allo stesso Tom, anche Clay.
Giunge in paese una ex fiamma di Tom, Lily. Di nascosto, Tom ha ucciso l’uomo con cui la ragazza si accompagnava. La ragazza lo aveva portato con sé, poiché era il fratello del suo amante, ucciso da Clay, e lei vuole uccidere Clay.
John Gannon, intanto, ha abbandonato la banda ed è un po’ sperduto in paese. Vuole unirsi a Clay, ma al momento Clay non se ne cura e lo snobba. Ma presto ci sarà un’occasione propizia e John accetterà l’incarico di vice sceriffo.
La trama ha emozionanti intrecci consecutivi e stringenti e ci si aspetta non solo la resa dei conti con il bandito McQuown, ma anche ci si domanda se la ricerca della vendetta da parte di Lily andrà a buon fine o si trasformerà in qualcosa d’altro; e non solo: come si evolverà il rapporto tra Lily e Tom, ora che Lily si è innamorata di John Gannon? E come andrà tra Clay, che sta dominando a modo suo, e John divenuto vice sceriffo e quindi il legittimo rappresentante della legge? E l’amicizia tra Clay e il devoto Tom (“Perché è la sola persona tra uomini e donne che non mi abbia mai guardato come uno storpio.”) saprà mantenersi salda con i pericoli che appaiono all’orizzonte? E l’amore che Jessie nutre per Clay?
Ce n’è abbastanza per tenere lo spettatore incollato allo schermo.
Per tutto il film ci si domanda chi sia più veloce con la pistola: Clay o Tom.
Gli dirà Tom, quando sono uno di fronte all’altro: “Io ti batto, Clay, ora estrai, e farai bene ad essere veloce.”.
È Tom il più veloce, ma spara al cappello di Clay, al contrario di questi che mira al corpo e l’uccide.
Se ne renderà conto e si renderà conto pure della sincera e forte amicizia che Tom nutriva per lui.

“Johnny Guitar” di Nicholas Ray

Questo film, del 1954, mi fa sempre sognare, anche per il motivo conduttore che spesso mi sono trovato a canticchiare, scritto da Victor Young e Peggy Lee e cantato dalla stessa Peggy Lee.
La protagonista, Vienna, che gestisce una taverna sperduta, è interpretata da una eccezionale Joan Crawford. Accanto a lei, un altro bravo attore, Sterling Hayden, nella parte di Johnny Logan, detto “Johnny Guitar”.
Troveremo anche Mercedes McCambridge, nella parte di Emma Small e Ernest Borgnine, nella parte di Bart Lonergan. Il capo banda, in questo film, è “Ballerino” Kid, interpretato da Scott Brady.
Arriva alla taverna, a cavallo e con la chitarra a tracolla, Johnny Guitar. È stato chiamato da Vienna, che ha bisogno di lui, anche perché Emma, un’allevatrice, vuole che lasci la taverna che, con l’arrivo della ferrovia, aiuterà a richiamare molti coloni. Tra Johnny e Vienna, fino a 5 anni prima, c’era stata una storia d’amore (“Quando un fuoco si lascia spegnere, quel che resta è cenere.”; “Una volta avrei strisciato ai tuoi piedi per esserti vicina.”).
Nell’arrivare, assiste da una collina all’assalto di una diligenza, durante il quale viene ucciso il fratello di Emma.
È in corso una tempesta di vento, e nessuno è presente nella taverna, salvo gli inservienti, allorché arriva Emma coi suoi, spalleggiata da John McIvers, interpretato da Ward Bond, e accusa Ballerino Kid di essere l’assassino del fratello. Lei è innamorata di Ballerino Kid, ma lo odia poiché è diventato l’uomo di Vienna.
McIvers promette di far chiudere il locale entro 24 ore.
Intanto, la vera natura di Johnny, un veloce pistolero (“La pistola più lesta della regione”), comincia ad emergere. Qualcuno ne subisce la forza e la bravura.”.
Tra Vienna e Johnny presto, però, l’amore ritorna (“Ti ho aspettato tanto, Johnny.”).
Ballerino Kid coi suoi uomini si ritira nel suo rifugio, nascosto dietro una cascata d’acqua, e decide di assaltare la banca di cui è cliente anche Vienna (“Lascerò questa città tanto al verde che non mi scorderanno mai.”). E lo fa proprio quando Vienna sta per ritirare tutto il suo deposito.
Questa coincidenza dà l’occasione a Emma di accusare Vienna di far parte della banda e di essersi prestata perché il colpo riuscisse.
Viene organizzata una spedizione (“la muta”) per catturare la banda; Emma è con loro.
Troveranno il rifugio e inizierà la sparatoria. Si scontreranno anche Vienna e Emma, e quest’ultima avrà la peggio.
La bella canzone conclude la storia, alla grande.

“Giubbe rosse” di Cecil Blount DeMille

A meno che non siano della mia generazione, pochi conoscono questo film, tratto dal romanzo di R.C. Fetherstonhaugh, e uscito nel 1940, due anni prima che nascessi. È un altro capolavoro che ha contribuito a rendere immortale il genere western.
Sappia chi mi legge che la critica lo giudicò un brutto film, sbagliandosi di grosso, a mio avviso. Alcune sue immagini mi hanno accompagnato nel corso della mia vita, come lo scontro a fucilate tra due amici che combattono su fronti opposti, e non vogliono uccidersi. Questi due simpatici personaggi sono interpretati da Akim Tamiroff per quanto riguarda Dan Duroc, e da Lynne Overman, per quanto riguarda Tod McDuff. Quel loro scontro vale il film.
Gary Cooper è l’attore principale e interpreta la parte di Dusty Rivers; poi abbiamo: Madeleine Carroll, nella parte di April (“Alba”) Logan, Robert Preston, nella parte di Ronnie Logan, Paulette Goddard, nella parte di Louvette (“Lupetta”) Corbeau, George Bancroft, nella parte di Jacques Corbeau, Preston Foster, nella parte del sergente Jim Brett.
Siamo in Canada e le giubbe rosse devono vigilare poiché c’è un clima di ribellione dei meticci, trascurati dal governo, di cui è fomentatore Jacques Corbeau, trafficante di whiskey, e amico degli indiani di Orso Bruno. Tra la figlia di costui, Lupetta, furba e ammaliatrice, e Ronnie Logan c’è una reciproca attrazione, in cui a dominare è l’astuzia della donna.
Arriva Dusty Rivers (Gary Cooper), un agente americano che sta cercando Jacques Corbeau per omicidio.
Intanto, due giubbe rosse sono uccise, poiché hanno intercettato un convoglio dei ribelli, carico di armi, tra cui una mitragliatrice.
Il clima si sta arroventando e più segmenti si sono messi in moto nella trama.
Amico di Ronnie è il sergente Jim Brett, interpretato da Preston Foster, il quale lo rimprovera continuamente per il suo rapporto con la meticcia, ma Ronnie ha perso la testa. Jim, invece, è innamorato di sua sorella, Alba Logan, la quale è corteggiata, però, anche dall’agente americano.
Jacques Corbeau sta convincendo gli indiani ad allearsi coi meticci, ma essi vogliono avere prima una prova del loro coraggio: devono portargli tante giubbe rosse macchiate di sangue. Corbeau si prepara coi suoi meticci a dare questa prova, attaccando le giubbe rosse, le quali sono già all’erta e inviano due soldati, tra cui Ronnie, ad appostarsi in una capanna, situata nel bosco e in una posizione ideale per accorgersi dell’arrivo dei ribelli. Ma ecco che Lupetta va alla capanna e convince Ronnie ad andare in paese per sposarla. Giunti in paese lo fa cadere in una trappola: tre indiani pagati da Lupetta lo catturano e lo legano ad una sedia, poi se ne vanno, lasciando soli Ronnie e Lupetta, la quale spiega a Ronnie che ha fatto tutto questo per salvargli la vita. Gliela salva, infatti, poiché di lì a poco il compagno che sta facendo il suo turno di guardia è colpito da 2 frecce lanciate da un meticcio. Corre alla capanna, ferito e in fin di vita, per dire a Ronnie di correre ad avvertire le giubbe rosse. Ma Ronnie non c’è. È legato ad una sedia e si è reso conto della gravità di quanto accaduto. Supplica Lupetta di liberarlo, ma la donna è irremovibile.
Quando ha abbandonato la capanna, Ronnie ha lasciato un biglietto per il compagno di guardia, avvertendolo che sarebbe andato a sposarsi e sarebbe tornato di lì a poco. Questo biglietto, che è la prova della sua colpevolezza, viene letto dal sergente e dall’americano, il quale lo brucia, pensando alla sorella di lui, Alba.
La voce, tuttavia, del suo tradimento si è sparsa ed ora è ricercato per subire un processo.
Alba, a conoscenza di quelle voci, chiede al sergente Jim che cosa sia successo al fratello, e Jim le dice la verità.
Sarà l’americano Dusty Rivers a ricomporre la situazione e a testimoniare, anziché la viltà, il coraggio di Ronnie.
Tanto di cappello a questo film.

“Tamburi lontani” di Raoul Walsh

Sono i Seminole gli indiani con cui deve fare i conti Gary Cooper, nella parte del capitano Quincy Wyatt (“soldato, vagabondo, gentiluomo e selvaggio.”), in questo film del 1951, tratto da un racconto di Niven Busch.
Chi racconta la sua storia è il tenente di vascello Richard Tufts, interpretato da Richard Webb. Il capitano vive isolato dai suoi soldati per una brutta storia capitata a sua moglie (l’hanno uccisa proprio dei soldati) e per raggiungere la sua capanna occorre attraversare a cavallo un tratto di giungla e un corso d’acqua in canoa.
La missione che gli viene affidata è questa: i Seminole si sono asserragliati in un’antica fortezza spagnola, e da lì partono per le loro incursioni predatorie e sanguinarie e Wyatt coi suoi uomini deve cacciarli. Alimentano anche, con la complicità dei contrabbandieri, il traffico d’armi. La missione gli è stata affidata dal generale Zachary Taylor, interpretato da Robert Barra.
Da una guida che l’accompagna, Monk, interpretato da Arthur Hunnicutt, il tenente viene a sapere che, rimasto vedovo, ora vive da solo con un figlioletto che adora.
Il tenente ha una barca sulla quale salgono la guida, il capitano e i suoi 40 soldati, tutti esperti delle paludi che dovranno attraversare. Percorrono le 50 miglia di un lago e giungono sulla riva opposta, terra dei seminole.
D’ora in poi tutto si farà difficile e pericoloso.
Quando scorgono il Forte, la visione è terribile. Si tratta di una solida costruzione all’apparenza inespugnabile e su tutte le merlature sono disposti i cannoni. Dentro vi si trovano contrabbandieri e indiani.
Riescono ad entrare e a far saltare il deposito d’armi. Liberano anche dei prigionieri, tra cui Judy Beckett, interpretata da Mari Aldon. Dopodiché lasciano il forte inseguiti dai seminole.
Siamo in Florida nel 1840. Il percorso tracciato dalla vicenda consente visioni e inquadrature suggestive, come quella del Forte ed ora quella della fuga attraverso e fin oltre le paludi. L’inseguimento dei seminole è irripetibile per movimento e bellezza e resta nella memoria. Grida il loro capo: “Mi senti Wyatt? Tu morirai.”.
Non mancano scene simpatiche come quella che riprende Wyatt che si fa la barba col coltello e senza sapone e del tenente che cerca di imitarlo, ma senza successo.
Per non parlare del magico duello immersi nel lago tra Wyatt e il capo dei seminole. Gli grida Wyatt, che avrà la meglio: “Vieni fuori di là e battiamoci dove si battono i coccodrilli, dentro l’acqua”.
Va da sé che durante questo lunga fuga nascerà un sentimento tra Wyatt e la bella Judy, che avrà un lieto fine.
Questo film ci regala un Gary Cooper super.

“Il cavaliere della valle solitaria” di George Stevens

Del 1953, tratto dal romanzo di Jack Schaefer.
Questi gli attori principali: Alan Ladd, nella parte di Shane, Jean Arthur, nella parte di Marian Starrett, Van Heflin, nella parte di Joe Starrett, Brandon De Wilde, nella parte di Joey Starrett e Jack Palance, nella parte di Jack Wilson.
In paese dominano i fratelli Ryker, una famiglia di grossi allevatori che intende acquistare, anche con la forza, tutti i terreni della zona per trasformarli in pascoli, anche quello degli Starret, una famiglia composta da moglie (Marian) e un figlio (Joey). Il capo famiglia è Joe Starrett, un uomo risoluto non intenzionato a cedere la proprietà, e quindi continuamente minacciato dai Ryker.
Arriva alla casa degli Starret un uomo a cavallo, Shane (Alan Ladd), e riceve ospitalità. Nel frattempo giungono degli scherani di Ryker a minacciare la famiglia che gli dà ospitalità e allora Shane decide di aiutarla, fermandosi alla fattoria e prestandosi a lavorare per gli Starret.
Cominciano i guai anche per lui.
Recatosi presso l’emporio di Sam Grafton (interpretato da Paul McVey) a fare spese, è insultato ma non reagisce accettando il consiglio di Starret di non rispondere alle provocazioni.
Intanto Starret ha convocato una riunione dei coloni (i quali sono impauriti e qualcuno vorrebbe andarsene) e viene presa la decisione di resistere e di ribellarsi.
La voce che Shane non ha reagito all’emporio si è sparsa, però, anche tra i coloni, e alcuni di loro lo ritengono un vigliacco. Glielo dicono perfino in faccia durante la riunione, ma Shane, anziché rispondere e spiegare le sue ragioni, preferisce andarsene.
Anche Joey, il ragazzo. ha sentito, ma dice alla madre che non ci crede.
Si è instaurato un rapporto di ammirazione tra Shane e il ragazzo, il quale vorrebbe perfino che gli insegnasse a sparare. Dirà alla madre: “Gli voglio tanto bene a Shane, gliene voglio quasi quanto a papà.”.
La riunione si conclude coi coloni che decidono di andare tutti insieme all’emporio a fare acquisti. Con Starret va anche Shane, il quale, entrato, riceve nuovi insulti. Ne nasce una cazzottata con uno della banda, in cui ha la meglio. Il vecchio Rufus Ryker, interpretato da Emile Meyer, gli propone di passare dalla sua parte: “Senza conoscere la tua paga, la raddoppio”, ma Shane rifiuta. Riprende la rissa e gli scherani di Ryker hanno la peggio. Il vecchio, rialzandosi da terra, dice al padrone dell’emporio che d’ora in avanti l’aria cambierà: “Nell’aria ci sarà presto odore di polvere, vedrai.”.
Ed ecco arrivare Jack Wilson (un Jack Palance stupendo), il pistolero che il vecchio Ryker ha assoldato. Insieme predispongono un piano contro Starret, dopo che questi ha rifiutato, nuovamente, un’offerta ancor più generosa.
Lo scontro è, ormai, inevitabile.
La miccia è accesa da un colono, simpatico ma “una testa calda (“Io non ho paura di nessuno.”), Frank Torrey, interpretato da Elisha Cook Jr, il quale non teme Wilson e lo fronteggia, rimanendo ucciso nel fango, davanti all’emporio.
I coloni tornano a spaventarsi e qualcuno pensa di andarsene. Starret allora decide di recarsi all’emporio per regolare i conti con Ryker e la sua banda, ma glielo impedisce Shane, il quale, dopo una cazzottata con l’amico, che rimane a terra svenuto, affronterà Wilson, superandolo in velocità e uccidendolo.
Ora desidero segnalare quattro momenti in cui il regista merita applausi a scena aperta:
1 – Quando, all’imbrunire, Ryker e il pistolero Wilson arrivano alla fattoria di Starret e Wilson scende lentamente da cavallo davanti a Shane che lo osserva. Beve dell’acqua da un mestolo e poi risale, sempre lentamente, quindi si allontana facendo arretrare il cavallo per non dare le spalle a Shane.
2 – Quando il colono Frank Torrey avanza nel fango verso il saloon sul cui ballatoio lo attende, schernendolo, Wilson, che poi l’uccide.
3 – Lo scenario che si apre sul luogo della sepoltura di Torrey, con lo sfondo delle montagne alte e appuntite.
4 – Quando Shane se ne va per sempre subito dopo la sparatoria e il ragazzo Joey gli grida: “Shane, torna con noi.”.

“Winchester ‘73” di Anthony Mann

Questo film del 1950 ci narra la storia di un fucile, un winchester, costruito ne 1873 (da cui il titolo), che fa gola a molti (“Ce n’è uno su mille così.”), e che viene destinato come premio in una gara di tiro al bersaglio, che sarà Lin McAdam (James Stuart) a vincere.
Oltre a James Stuart abbiamo: Stephen McNally, nella parte di Dakota Brown, Shelley Winters, nella parte di Lola Manners, Dan Duryea, nella parte di Johnny il Biondino, John McIntire, nella parte di Joe Lamont, Millard Mitchell, nella parte di Sputalosso. Troviamo anche un giovane Rock Hudson impegnato nel ruolo di un indiano, il capo Toro Bruno.
La storia inizia a Dodge City, una cittadina presente in molti western. Ne è sceriffo nientemeno che Wyatt Earp, un nome che fa tremare i fuorilegge, come abbiamo constatato più volte. Ma qui il protagonista è Lin McAdam (James Stuart), il quale va alla ricerca di Dakota Brown, un fuorilegge. È sicuro che quest’ultimo parteciperà alla gara, e così potrà incontrarlo.
In realtà tra Lin e Dakota (il cui nome vero è Matthew) c’è un legame assai speciale, poiché entrambi sono fratelli, e Lin lo va cercando poiché ha ucciso, sparandogli alle spalle, il loro padre, che si era rifiutato di nasconderlo a casa sua dopo che aveva svaligiato una banca.
Non ci vorrà molto a trovarlo. Insieme con l’amico Frankie Wilson detto Sputalosso (gli dirà: “Un uomo che ha un amico è ricco. Io sono ricco.”), entra nel saloon per bere e vede, seduto al tavolo da gioco, proprio lui, Dakota, il quale anche lo vede e appare sorpreso e impaurito. Nascono i primi screzi. Dakota gli fa arrivare dal barista un bicchiere di latte, e questo scherzo non va giù a Lin, che sta per reagire, allorché lo sceriffo lo ferma, invitandolo alla calma, essendo per di più un giorno di festa in paese.
Comincia la gara. Presto i migliori risultano proprio Lin e Dakota i quali, rimasti soli, si contendono il premio, e Lin vince, portandosi via il bellissimo e ambito da molti winchester ’73.
Ma lo tiene per poco, giacché Dakota gli tende una trappola, e glielo sottrae, riuscendo, inoltre, a dileguarsi. Per la fretta non porta con sé le armi che aveva depositato entrando in paese. Così i suoi compagni. Ha solo il winchester ed è senza munizioni. Si fermano ad una taverna dove trovano un uomo che vende armi agli indiani, il quale riuscirà a vincere a carte il fucile. Dakota gli tende un agguato e spara credendo di averlo ucciso, ma l’uomo era già morto, scotennato dagli indiani di Toro Bruno, il quale possiede ora il fucile.
Per Dakota la faccenda si fa complicata: “Qualche indiano ha il mio fucile.”.
È giunto il tempo degli indiani, infatti. Attaccano uno squadrone di cavalleria, dove si sono rifugiati anche Lin e Sputalosso, e dove Lin incontra per la seconda volta una donna che aveva già aiutato quando era giunto a Dodge Ciy: Lola. Tra i soldati è riconoscibile un allora sconosciuto Tony Curtis.
Il fucile riluce nelle mani di Toro Bruno che si appresta all’assalto dello squadrone. Morirà e il fucile, ignorato da tutti, resterà sul campo di battaglia. Sarà proprio Tony Curtis a trovarlo e a mostrarlo al sergente, il quale vorrebbe regalarlo a Lin, ma lui e Sputalosso hanno già lasciato, il campo, così lo dona all’amico di Lola, Steve Miller, interpretato da Charles Drake.
La sfortuna per lui è che ha un appuntamento con Johnny il Biondino, al quale fa gola il fucile e se ne impossessa, umiliandolo davanti a Lola e uccidendolo.
Come si vede la linea sottile della trama non demorde mai dal seguire la sorte del winchester, che si porta con sé solo disgrazie e morte.
Johnny il Biondino è riuscito a fuggire, dopo che lo sceriffo ha dato fuoco alla casa dove si era rifugiato. Porta a cavallo con sé Lola e si dirige al rifugio dove già lo sta aspettando Dakota Brown.
Ci si immaginerà, a questo punto, che cosa accadrà a Johnny il Biondino allorché Dakota vedrà il fucile. Temendolo, glielo consegnerà. Dakota, soddisfatto, lo ingaggia per svaligiare la banca di Tascosa. Il guaio è che proprio quando sono là, in attesa dell’ora stabilita, ecco che arrivano anche Lin e Sputalosso.
Il cerchio si sta chiudendo. Il Biondino e Dakota ci lasceranno la pelle.

“Là dove scende il fiume” di Anthony Mann

Del 1952, tratto dal romanzo di Bill Culick.
Gli attori: James Stewart, nella parte di Glyn McLyntock, Arthur Kennedy, nella parte di Emerson Cole, Julie Adams, nella parte di Laura Baile, Rock Hudson, nella parte di Trey Wilson, Lori Nelson, nella parte di Marjie Baile e Jay C. Flippen, nella parte di Jeremy Baile.
McLyntock sta guidando una carovana di coloni quando, in occasione di una perlustrazione, si imbatte in un tentativo di impiccagione a carico di Emerson Cole, accusato di aver rubato un cavallo. Lo salva e Cole si unisce alla carovana. Rivelati i loro nomi, si riconoscono per essere stati dei noti fuorilegge.
Durante una sosta, di sera, sono attaccati dagli indiani e Laura è ferita alla spalla da una freccia.
Si fermano in città e ve la lasciano perché sia curata. Intanto, hanno acquistato le provviste e quant’altro potrà servire nella loro nuova destinazione, dove già si sono insediati dei coloni. S’imbarcano su un battello che ve li condurrà. Chi ha loro venduto le provviste, Tom Hendricks, promette di fargliele avere entro poche settimane, ma in realtà, poiché nel frattempo si è scoperto l’oro e in città sono arrivati tanti cercatori, i prezzi sono andati alle stelle e il venditore non intende più recapitargliele.
Glyn va da lui e nasce uno scontro, in cui trova come alleati Cole e un giocatore d’azzardo, Trey Wilson. Le provviste sono caricate, il battello è partito, ma Hendricks li attenderà alle cascate, oltre le quali il battello non può andare.
Però, non si aspetta che Glyn ha deciso, invece, di far fermare il battello assai prima di arrivare alle cascate. La carovana, dunque, proseguirà per via terra. E quando Hendricks si accorgerà di essere stato ingannato, si metterà all’inseguimento, però morirà in un’imboscata. La carovana prosegue, ma incontrano dei minatori che offrono molto oro per le provviste; Glyn rifiuta, dicendo loro che le provviste sono destinate ai coloni. Allora succede che, essendosi tra i coloni inseriti banditi senza scrupoli, questi, quando sentono dell’offerta dei minatori, prendono il comando della carovana, con l’aiuto di Cole, che diventa il nuovo capo carovana diretta, però, al campo dei minatori.
Glyn non rinuncia ad inseguirli, tra difficoltà.
Cole e gli altri avvertono la paura di essere raggiunti. Trey, il giocatore d’azzardo, e anche buon pistolero, ne ha abbastanza delle prepotenze di Cole, che arriva ad uccidere un uomo che si è ribellato. Per il momento però ubbidisce agli ordini.
Glyn li ha raggiunti e li attacca continuamente. Non riescono a prenderlo, tanto è abile. Proprio nel momento in cui Cole si allontana per chiedere aiuto ai minatori e ha ferito Trey, che ha cercato di ribellarsi, arriva Glyn che riprende il comando della carovana, Trey consenziente.
Quando arriva Cole coi minatori armati di pistole e di fucili, ne nasce una cruenta sparatoria. Glyn avrà la meglio su Cole e la carovana arriverà a destinazione, accolta con grida e suoni di campanella.

“L’uomo di Laramie” di Anthony Mann

Del 1955, tratto dal romanzo di Thomas T. Flynn.
Questi gli attori principali: James Stewart, nella parte di Will Lockhart, Arthur Kennedy, nella parte di Vic Hansbro, Donald Crisp, nella parte di Alec Wagoman, Cathy O’Donnell, nella parte di Barbara Waggoman, Alex Nicol, nella parte di Dave Waggoman, Aline MacMahon, nella parte di Kate Canady.
il capitano di cavalleria Will Lockhart è in cerca di chi sia a capo di un traffico d’armi con gli indiani, che ha causato la morte di 10 cavalleggeri, tra cui il suo giovane fratello.
Si è camuffato nelle vesti di un incaricato della consegna delle merci ai negozi della città. Porta un carico a Barbara Waggoman, padrona di un negozio, alla quale chiede se ci sia la possibilità di fare il viaggio di ritorno con un nuovo carico. Sì, c’è una salina lì vicino, dove si può raccogliere sale liberamente e gratuitamente. Will si reca là con alcuni aiutanti, e sta caricando il sale, quando arrivano degli uomini al comando di Dave Waggoman, figlio di Alec Waggoman, che è colui che comanda in paese, il quale dice a Will che non può prendersi il sale perché appartiene alla sua famiglia. Gli usa prepotenza legandolo ad un laccio e bruciando i carri e uccidendo alcuni muli, finché non arriva Vic Hansbro, uomo di fiducia del padrone e fidanzato di Barbara. Will decide di restare in paese e di richiedere un risarcimento.
Di lì a poco incontra di nuovo Dave, lo aggredisce e ne nasce una scazzottata in cui Dave ha la peggio, e anche Vic, intervenuto a difenderlo. Arriva il padrone Alec che ordina a Will di lasciare il paese, dove è tutto suo fino a 3 giorni di cammino (“cinquantamila ettari di terra”) e gli dice di andare da lui e sarà risarcito dei danni. Quando Will vi si recherà, il vecchio gli proporrà di mettersi al suo servizio, ma l’uomo rifiuta. E allora torna ad insistere perché se ne vada.
Ha assistito alla scazzotta un’anziana donna, Kate Canady, ex fidanzata di Alec, la quale, rendendosi conto del valore di Will, vuole ingaggiarlo per il suo allevamento, minacciato dai Waggoman. Anche in questo caso, Will rifiuta, ma si verificheranno circostanze tali a suo sfavore (perfino lo arresteranno) che finirà per accettare.
A questo punto gli intrecci iniziali si sono sciolti e tutto è ora semplificato. Will e Kate da una parte e Alec, il vecchio e Vic, la sua spalla, dall’altra. Il figlio di Alec, Dave, è, infatti, uno spavaldo senza sale nella zucca.
Il padre vuole cacciare Will, poiché ogni due o tre notti fa un sogno in cui arriva in paese un forestiero e gli uccide il figlio.
Will e Dave vengono presto ad un altro scontro; ha la meglio Will che lo ferisce alla mano destra, ma ecco che arrivano i suoi compagni che circondano Will, finché Dave non si vendica ferendolo alla stessa mano destra. Poi Dave, preso dall’ira, sale col suo cavallo su una vicina collina e si scopre che è lui che fornisce le armi agli indiani. Ci sono nel carro 200 fucili a ripetizione. Arriva Vic, suo complice, per impedire che faccia troppo presto i segnali di fumo ai pellerossa, che stanno attendendo quei fucili, e lo uccide.
Riporta il corpo alla fattoria lasciando credere che qualcuno che lui non sa lo ha ucciso. Tutti pensano a Will Lockhart per lo scontro che c’era stato tra loro, e così crede anche il vecchio che, da solo, monta a cavallo e va incontro a Will per ucciderlo. Ma sta diventando cieco e i suoi colpi vanno a vuoto, finché Will, rendendosi conto di quell’impedimento, lo disarciona e gli grida che non è stato lui. Il vecchio non ci crede e torna al ranch.
Mentre rivede la contabilità si accorge che c’è qualcosa di irregolare nei conti e chiede a Vic spiegazioni. Intuisce che su un carico di ferro spinato vi doveva essere dell’altro, visto il costo elevato, e allora pensa ad un carro di fucili acquistato dal figlio e vuole essere confermato nel sospetto. Esorta Vic ad accompagnarlo alla ricerca di quel carro, ma quando sono vicini alla meta, Vic ha un diverbio e lo sbalza da cavallo. Alec precipita nel vuoto e lo crede morto. Will trova il corpo di Alec; non è morto e il medico che lo prende in cura dice che guarirà; soltanto diventerà cieco. Arriva Vic tutto trafelato e chiede come è successo che Alec sia morto. Viene a sapere che non lo è. È terrorizzato, poiché si verrà a scoprire la verità. Fa di tutto per vedere da solo Alec, con la recondita intenzione di ucciderlo, ma Will gli impedisce di entrare in camera. Ci entrerà lui, chiamato da Alec, il quale gli rivela la verità.
Vic sarà ucciso dagli indiani, poiché il carro di fucili è stato distrutto da Will, e quella sarà la loro vendetta.

“Duello al sole” di King Vidor

È un film, del 1946, tratto dal romanzo di Niven Busch, che, visto una volta, non lo si dimentica più, specialmente per quel duello finale tra il protagonista Lewis McCanles e la sua amata Perla Suarez. Un amore, vedrete, contorto e bisticciato.
Questi gli attori principali: Gregory Peck, nella parte di Lewis McCanles, Jennifer Jones, nella parte di Perla Suarez. Joseph Cotten, nella parte di Jackie McCanles, Lionel Barrymore, nella parte di senatore Jackson McCanles, Herbert Marshall, nella parte di Scott Suarez, Lillian Gish, nella parte di Arabella McCanles, Walter Huston, nella parte del pastore Greepy, Charles Bickford, nella parte di Sam Pierce.
Una bella ragazza, Perla, viene affidata dal padre, condannato a morte per aver ucciso la moglie indiana che lo tradiva (Perla è una meticcia) ad una famiglia amica dove vivono due fratelli, Jackie e Lewis McCanles.
La bella e prorompente ragazza diventerà il pomo della discordia tra i due.
Alla stazione, quando arriva, va a prenderla Jackie, il maggiore dei fratelli, e la conduce al grosso ranch della famiglia, chiamato “Piccola Spagna”. Il loro padre è Jackson McCanles, un senatore, immobilizzato in una sedia a rotelle e la madre è Arabella McCanles.
Jackie subito ha delle attenzioni per lei, che non ha però incontrato ancora Lewis, il quale, a detta del fratello, attira le donne come il miele le mosche.
Il senatore è l’unico nella famiglia che non fa buona accoglienza alla giovane e bella Perla, al contrario della moglie Arabella, che la prende subito sotto la sua tutela.
Quando, in sella al suo cavallo, arriva Lewis, ci si accorge subito che Perla ne è colpita, come pure Lewis, che, però, è abituato a fare conquiste. È un po’ uno scavezzacollo, col vizio del gioco, le cui perdite il padre risarcisce poiché ha simpatia per lui, che gli fa ricordare la sua gioventù (“Che bravo ragazzo”).
Il senatore non manca di farsi beffe di Perla.
Jackie invece la corteggia e già si baciano, ma lui col dovuto rispetto e la sua signorilità.
Una sera, quando Perla si è congedata da Jackie, Lewis, nascosto nell’ombra, la segue ed entra nella sua stanza, afferrandola e baciandola con passione e violenza. Perla si ribella con tutte le sue forze, finché Lewis se ne va.
Perla non ha mai avuto paura degli uomini; frequentava il saloon dove sua madre ballava e cantava spudoratamente. Sa come trattarli, ma ora si sente presa tra due fuochi e i suoi sentimenti non sanno decidersi. Pensa soprattutto a diventare una signora, e vuole imparare a leggere e a scrivere, ma Lewis non le dà respiro. Ora gli mostra cosa sa fare col suo cavallo, lasciandola stupefatta e divertita: “È tuo questo cavallo?”. Lewis glielo regala.
Arriva Jackie, che studia legge ed è destinato a diventare avvocato e a seguire le orme del padre, e gli dice: “Perché non la lasci stare. Potrebbe diventare una brava ragazza.”.
Lewis sta avendo successo e le resistenze di Perla si fanno sempre più deboli. Prova anche un sentimento per l’altro fratello, Jackie, ma avverte che con Lewis è diverso.
I loro frequenti bisticci portano già il segno di un amore passionale, che presto esploderà.
Sta arrivando nella zona la ferrovia, che ha messo in allarme molti allevatori, ed ora è giunta al confine della proprietà del senatore, il quale raduna tutti i suoi uomini (qualche centinaio) e si fa mettere in sella ad un cavallo e dice ai suoi: “Intendo difendere queste mie terre con le armi.”.
Lewis è andato in paese e non è presente, al contrario di Jackie, il quale, a differenza del padre, vede nella ferrovia un’occasione di progresso.
Succede che Jackie si schiera contro il padre e viene cacciato da casa, mentre la ferrovia, con l’aiuto di uno squadrone di cavalleria, ha la meglio sul senatore.
Quando Jackie sta per lasciare il ranch, si reca a salutare Perla e la trova che si è lasciata sedurre da Lewis. Lei gli corre dietro e lo raggiunge nella sua stanza e lo supplica di credere che non è per sua colpa, ma Jackie, dopo averle detto che l’amava e sarebbe venuto a prenderla per portarla con sé, l’abbandona.
Perla è furiosa. Intuisce che l’uomo giusto per lei sarebbe stato Jackie, e ce l’ha con Lewis. Lewis le promette di sposarla, ma è una promessa da marinaio. Quando saremo al dunque, infatti, le dirà: “Figurati un po’ se voglio rovinarmi la vita con una come te.”.
Tuttavia, quando Perla è alla vigilia del matrimonio con il capo stalliere del ranch, Lewis si presenta al saloon dove questi si è fermato a bere, e paga bere a tutti, lo provoca e lo uccide.
Ora c’è una taglia su di lui; è diventato un fuorilegge. Una notte si presenta da Perla. Le dice: “Nessuno ti porterà via a me.”, e Perla gli si abbandona: “Io non voglio nessun altro. Voglio te.”.
Si ha la sensazione di un amore malato, quasi demoniaco. Gli occhi di Perla hanno un magnetismo pericoloso e seducente.
Vuole fuggire in Messico con lui, ma Lewis rifiuta, la maltratta e fugge. Poi la manda a chiamare. L’aspetta ai piedi di una roccia chiamata la Testa Indiana, per la sua forma.
Lei va col desiderio di ucciderlo e di liberarsi di questa sua passione malata. Ne nascerà un duello, in pieno giorno e con il sole cocente, che resterà, per intensità e bellezza, nella memoria.

“Il grande paese” di William Wyler

Il film, del 1958, ha la durata di quasi 3 ore, ed è tratto dal romanzo di Donald Hamilton.
Ecco gli attori principali: Gregory Peck, nella parte di James McKay, Jean Simmons, nella parte di Julie Maragon, Carroll Baker, nella parte di Patricia Terril, Charlton Heston, nella parte di Steve Leech, Burl Ives, nella parte di Rufus Hannassey, Charles Bickford, nella parte di Henry Terril, Alfonso Bedoya, nella parte di Ramón Gutierrez e Chuck Connors, nella parte di Buck Hannassey.
James (“Jim”), che ha fatto il comandante di bastimento, giunge in paese tutto in ghingheri, vestito da cittadino, e i cow-boy che lo vedono scendere dalla diligenza lo prendono in giro, soprattutto per il piccolo cappello che porta in testa, differente dai loro che sono cappelli larghi e comodi.
A prenderlo viene il fattore Steve con il calessino. Jim è arrivato lì, poiché vi abita Patricia con la sua ricca famiglia, i Terril, e si devono sposare.
Il loro primo incontro avviene nella casa dell’amica Julie, maestra del paese, una ragazza, si vede subito, che ha i piedi per terra, al contrario di Patricia (“Pat”), esuberante e sognatrice.
Quando i 2 fidanzati, con un calessino, stanno recandosi alla fattoria, ecco che 4 scalmanati appartenenti alla famiglia Hannassey (“gentaglia”) li attaccano prendendosi gioco di loro, specialmente di Jim (“Dove ha trovato questo mezzo uomo.”).
Gli Hannassey posseggono anche loro un grosso ranch, “Blanco Canyon”, che ha a capo il loro genitore, Rufus, un uomo grosso e burbero (“Sembra essere dell’età della pietra”, dice di lui il padre di Pat, Henry, chiamato anche “il maggiore” per i suoi trascorsi di guerra). Uno dei figli, Buck, fa la corte a Julie, credendo che lei abbia simpatia per lui e la corteggia (anche motteggiandola), poiché la donna possiede una piccola proprietà, che è preziosa dato che vi scorre un corso d’acqua, ed è confinante con la proprietà del vecchio.
Ciò che è accaduto finora non sta mettendo in buona luce Jim agli occhi di Patricia, che comincia a dubitare di avere fatto la scelta giusta.
In fattoria la rivalità tra Jim e Steve, che è innamorato di Pat, si fa già evidente, e Jim sta passando come un buono a nulla.
Steve lo invita a salire a cavallo e sceglie per lui Vecchio Tuono, che è bizzarro e scostante. Jim si rifiuta di cavalcarlo. Lo monterà e domerà di nascosto, all’insaputa di tutti, salvo che di Ramón lo stalliere, che, quando sarà il momento in cui Pat denigra Jim, glielo rivelerà.
In una conversazione a quattr’occhi tra il padre di Pat e Jim, il primo lo inviterà ad essere meno educato e più risoluto, soprattutto con gli Hannassey.
Dunque, il quadro è ben delineato: al centro sta Jim col suo carattere riservato, ma uomo che si rivelerà forte e talentuoso, e intorno a lui tutti che non ne hanno una buona opinione, tranne Julie, che è riuscita a capirne le qualità. Dirà di lui lo stalliere Ramón: “Un uomo come lui è molto raro.”.
Quando compare sulla scena il vecchio e rozzo Rufus Hannassey – e ogni volta che comparirà -, avremo momenti di grande emozione e di grande qualità interpretativa. Non a caso, l’attore che lo impersona, Burl Ives, riceverà nel 1959 il premio Oscar come migliore attore non protagonista.
I Terril avevano fatto una scorreria nella sua proprietà per vendicarsi dell’oltraggio ricevuto dalla figlia e da Jim quando si trovavano sul calessino che li portava alla fattoria. Nel corso della scorreria, Terril e i suoi uomini avevano maltrattato i suoi figli, solo tre, poiché Buck era riuscito a nascondersi.
Rufus gli rende la visita, dunque, entrando da solo e armato di fucile in casa sua durante la festa di fidanzamento tra Pat e Jim e le sue parole tuonano nella sala. Dirà, tra l’altro, al maggiore: “Ti sto piantato nel gozzo, Henry Terril, e non puoi sputarmi.”.
Intanto Jim, all’insaputa di tutti ha fatto cose importanti: ha domato Vecchio Tuono, ha acquistato l’importante fattoria di Julie, che possiede un prezioso corso d’acqua, e ha vinto uno scontro con Steve, che era sicuro di batterlo a pugni ed invece ha avuto la peggio. Ciclopica la cazzottata.
Quando tutte queste cose verranno alla luce del sole, Pat avrà perso il suo uomo e lo avrà conquistato Julie. Jim dirà a Pat, che avverte che si sta allontanando da lei: “Non sono responsabile di ciò che pensa la gente, ma di ciò che sono.”.
Parole sacrosante.
Rufus Hannassey e Henry Terril arriveranno alla resa dei conti.

“Il giovane Hitler. L’alba del male” di Christian Duguay

Ho già scritto di alcuni film che trattano il nazismo: “La caduta. Gli ultimi giorni di Hitler”, “Nebbia d’agosto”, “Hotel Meina”, “Kapò”, “La 25a ora” e i 2 film di Rainer Werner Fassbinder: “Il matrimonio di Maria Braun” e “Lili Marleen”, per citare quelli che mi vengono in mente. Ma ora voglio scrivere di altri dello stesso genere, siccome la piaga del nazismo, e meglio ancora del nazi-fascismo, è stata una terribile catastrofe nella storia dell’umanità, e vi è bisogno di ricordare le efferatezze compiute da queste dittature sanguinarie.
Cominciamo con “Il giovane Hitler. L’alba del male” di Christian Duguay, del 2003. In realtà il film arriverà alle soglie della Seconda guerra mondiale.
Nella parte di Hitler abbiamo Robert Carlyle; è presente anche Peter O’Toole nella parte di Paul von Hindenburg, Presidente del Reichstag (il Parlamento tedesco).
Siamo in Austria. Irrequieto e cinico sin da ragazzo, con cattivi rapporti con la madre e la sorellastra Angela, e solo compreso dalla madre che ne predice un grande avvenire da artista, il giovane Adolf trova difficoltà nel vendere i propri quadri e comincia a detestare la società in cui vive. Dorme sotto i ponti, tra i barboni e nei dormitori pubblici. È vestito spesso di stracci. Tra la gente si parla male degli ebrei. Si diffonde l’antisemitismo e lui stesso se ne nutre: “Arrivano a sciami nel nostro paese. Ci rubano il cibo di bocca.”, “Gestiscono le gallerie e non comprano i miei dipinti.”. Si trasferisce in Germania e allo scoppio della Prima guerra mondiale si arruola nell’esercito tedesco. Per alcuni meriti, viene promosso caporale e gli viene assegnata la croce di ferro. Ci sono in lui già i segnali di insofferenza e intolleranza che lo contraddistingueranno durante la dittatura. Ha smanie di rivolta e di potere. Quando la Germania e l’Austria dichiareranno la resa e si avrà la fine della Prima guerra mondiale, si scaglierà contro quella che lui considera una manifestazione di debolezza.
Emergono le prime rivolte socialiste e comuniste. Hitler esterna le proprie idee contro di esse, e nelle riunioni a cui partecipa insiste che i nemici della Germania non sono al di là dei suoi confini, ma all’interno. Si devono combattere e annientare non solo i socialisti e i comunisti, ma anche tutte le razze che sono venute da fuori e che stanno inquinando quella tedesca, che deve difendere la propria purezza.
Le sue idee cominciano a far presa sulla popolazione e la sua fama si diffonde.
Due sono, al momento, i suoi più importanti obiettivi: Il primo è disattendere, anzi respingere il Trattato di Versailles del 28 giugno 1919 che obbliga, tra le altre cose, la Germania a risarcire i danni di guerra, il secondo è quello di cacciare gli ebrei dalla Germania: “Mai nessun compromesso con gli ebrei.”.
Il successo personale sta assumendo proporzioni notevoli. Nel paese regna lo scontento nei confronti del governo ed ecco che a Hitler viene proposto di aderire ad un colpo di stato e di prendere parte al nuovo governo che si insedierà. Accetta: “Ciò che noi faremo, vivrà per migliaia e migliaia di anni.”. Ma è una trappola. Glielo hanno promesso per tenerlo buono, ma ora che si sono organizzati vogliono fare a meno di lui. Decide, a questo punto, di conquistare il potere da solo, con il suo partito nazionalsocialista e con il popolo che lo acclama. È l’8 novembre 1923.
Non sarà facile, verrà anche ferito e il colpo di stato sembra fallire. Va sotto processo, e quando i suoi avversari sono convinti di averlo domato, ecco che in tribunale si alza e fa un discorso che accende gli animi dei tedeschi. È condannato ad una pena blanda. Il giornalista che più ne avverte il pericolo, Fritz Gerlich, dirà: “Stiamo tutti correndo verso un mostro dal quale dovremmo fuggire.”.
Alle elezioni del 14 settembre 1930 il partito nazista conquista 107 seggi in parlamento diventando la seconda forza politica nel paese.
Il regista ci narra anche una specie di infatuazione che Hitler ha avuto in quel tempo con la figlia della sua sorellastra, Geli, la quale si suiciderà avvertendo il pericolo e avendo scorto i primi segni di follia nello zio, il quale conosce anche Eva Braun (infelice e che tenta perfino il suicidio) la quale diventerà, come è noto, la sua amante per tutta la vita e i due si sposeranno il giorno prima del suicidio di entrambi avvenuto il 30 aprile 1945.
Ora Hitler si pone l’obiettivo di diventare Cancelliere della Germania, la seconda carica dello Stato dopo quella del Presidente del Parlamento e, allo scopo, acquisisce la necessaria cittadinanza tedesca (non si dimentichi che Hitler è nato in Austria, a Braunau am Inn, il 20 aprile 1889).
Alle elezioni del 31 luglio 1932, i seggi del partito nazista salgono a 230. È la maggioranza. La strada per arrivare al Cancellierato è ormai spianata, e la elezione avverrà il 30 gennaio 1933.
Ci sarà uno scontro tra Hitler e il capo delle SA, reparto paramilitare costituito da Hitler nel novembre 1921, foriero di quella che sarà chiamata “La notte dei lunghi coltelli”, il 30 giugno 1934, con la quale Hitler si sbarazzò dei vertici delle SA. Più di un anno prima, c’era stato l’attacco ai comunisti e l’incendio al Reichstag, nella notte del 27 febbraio 1933, sarà attribuito a loro. Questa dell’incendio, la possiamo definire un’anteprima di quella che sarà, questa volta contro gli ebrei, “La notte dei cristalli”, avvenuta tra il 9 e il 10 novembre 1938, in cui furono distrutte le vetrate delle sinagoghe, le case, le scuole e i negozi di loro proprietà.

“La notte dei generali” di Anatole Litvak

È un film del 1967, tratto dall’omonimo romanzo di Hans Hellmut Kirst.
Due attori arcinoti la fanno da padroni: Peter O’Toole, nella parte del generale Tanz, e Omar Sharif nella parte del maggiore, poi tenente colonnello Grau. Sono due ufficiali nazisti.
Tanz si è guadagnato la fama di essere un eccellente comandante, ma soprattutto un risoluto difensore del nazismo, e di non avere freni per le sue efferatezze.
È inviato a Varsavia per domare la città e fare una vera e propria pulizia etnica.
Un uomo, mentre sale una scala, ode provenire dal piano superiore delle urla, e siccome sente chiudere la porta e non vuole farsi vedere, si nasconde in uno sgabuzzino e da lì vede che a scendere è un soldato nazista con ai pantaloni la striscia rossa dei generali. Arriva il maggiore Grau, del servizio informazioni, e si scopre che la vittima è una prostituta polacca (e anche una confidente dei nazisti), uccisa sadicamente.
Il maggiore apre le indagini, interrogando l’uomo che aveva visto i calzoni, il quale rivela “che avevano una striscia rossa per tutta la gamba.”. Il maggiore gli crede: “Se l’assassino è un generale, dovremo impiccarlo.”.
I fatti sono ricostruiti dall’ispettore di polizia presente quel giorno, che li narra all’uomo che, una ventina d’anni dopo, riprende le indagini, l’ispettore Morand interpretato da Philippe Noiret.
Morand aveva conosciuto Grau a Parigi, nel 1944, in occasione di un altro efferato delitto di una prostituta francese.
L’assassinio di Varsavia fu commesso lo stesso giorno in cui il generale Tanz era arrivato in città, il 12 dicembre 1942.
Il quale, seppure inviso ai colleghi e ai superiori, diviene l’uomo forte delle truppe d’occupazione.
Assisteremo a scene crudeli, con carri armati e lanciafiamme che a poco a poco distruggono la città. Tanz se ne vanta, contando sull’appoggio di Hitler.
Gli stessi personaggi che abbiamo visto confrontarsi a Varsavia si ritrovano a Parigi nel 1944.
Grau è stato promosso tenente colonnello, ma di lui ancora i superiori pensano che sia “un uomo noioso”. Essi, in particolare, sono: il generale Kahlenberge, interpretato da Donald Pleasence e il generale von Seidlitz-Gabler, interpretato da Charles Gray.
È a Parigi, come si è già detto, che Grau conosce l’ispettore Morand, al quale confida le sue indagini e ne chiede l’aiuto, che è concesso, contro il rilascio di 3 partigiani francesi.
A Parigi arriva anche il generale Tanz, che è diventato capo delle SS. Ha intenzione di usare la mano forte pure su Parigi, come aveva fatto con Varsavia. Dice di lui il generale Gabler: “Un pazzo furioso.”; “Lui si crogiola nella morte.”.
La presenza di Tanz è pericolosa anche perché il generale Kahlenberge, d’intesa col generale Gabler, che vuole tenere però un basso profilo, come pure il governatore di Francia, stanno progettando un attentato a Hitler, quello che passerà alla storia come “Operazione Valchiria”, compiuto a Rastenburg il 20 luglio 1944.
Contro la sua volontà, per allontanarlo dal complotto in atto, appena arrivato costringono Tanz a prendersi 2 giorni di vacanza, nel corso dei quali Tanz uccide una prostituta francese, facendone ricadere, questa volta, la colpa sul suo attendente, il caporale Hartmann, interpretato da Tom Courtenay.
Grau e Morand ora lavorano insieme alla ricerca dell’assassino, poiché l’omicidio della donna francese ha le stesse caratteristiche sadiche di quello avvenuto a Varsavia.
L’operazione Valchiria” fallisce e Hitler rimane illeso. Si dà il via alla violenta repressione dei ribelli.
Accade che Grau, che è stato convinto che l’attentato a Hitler sia riuscito e che presto Tanz sarà arrestato, in quanto stretto alleato di Hitler, si affretta e raggiunge il quartiere dove è alloggiata la 38a SS-Grenadier-Division Nibelungen, di cui Tanz è il capo. Ma quando fa per arrestarlo, giunge, attraverso la radio situata nell’ufficio di Tanz, la smentita della morte di Hitler e la comunicazione che tutti i ribelli saranno arrestati. Così Tanz, alle minacce di Grau, risponde uccidendolo con un colpo di pistola.
Passano circa 20 anni, siamo nel 1965 ad Amburgo, e Tanz ha scontato 20 anni di carcere come criminale nazista, ma Morand, diventato ispettore dell’Interpol, anche per vendicare la morte dell’amico Grau, non ha mai mollato le indagini (ad Amburgo si è verificato il 3° omicidio con caratteristiche analoghe) e lo raggiungerà ad Amburgo, e riuscirà ad incastrare Tanz grazie alla testimonianza proprio del suo ex attendente.
Tanz, arrivato alla festa organizzata in suo onore dai reduci della sua ex Divisione, quando Morand gli si fa innanzi per arrestarlo, chiede di ritirarsi e si ucciderà nel salone dove è stato allestito il banchetto, e il suo corpo senza vita cadrà sulla lunga tavola apparecchiata.
Si deve segnalare la grande interpretazione di Peter O’Toole, al quale sarà assegnato (ex aequo) il David di Donatello per il miglior attore straniero.

“Operazione Valchiria” di Bryan Singer

Già ne ho accennato, scrivendo de “La notte dei generali” del 2003 con la regia di Anatole Litvak, ma questo film del 2008 è tutto dedicato al famoso attentato a Hitler compiuto da alcuni ufficiali dissidenti.
La parte di colui al quale è dato l’incarico di portare l’esplosivo alla riunione indetta dal Führer, colonnello della Wehrmacht Claus Schenk von Stauffenberg, è affidata a Tom Cruise.
Un altro attore importante (e bravo regista) è Kenneth Branagh, nella parte del generale Henning von Tresckow. Troviamo anche Terence Stamp nella parte del generale Ludwig Beck.
Su tutti i fronti la Germania comincia a subire delle perdite, e gli ufficiali manifestano i primi dissensi. Qualcuno comincia a pensare che il male della Germania sia proprio il Fűhrer e che servire la Patria è ucciderlo.
Tra questi il colonnello Claus Schenk von Stauffenberg, il quale è rimasto ferito nel deserto della Tunisia e ha perso l’occhio sinistro, la mano destra e due dita della mano sinistra. Anche il suo superiore, il generale Henning von Tresckow, è tra i dissidenti e ha già tentato di uccidere Hitler facendogli dono di una bottiglia-esplosiva, che, però, non ha funzionato. Ad essi si deve aggiungere il generale Ludwig Beck.
Non è facile organizzare il colpo di Stato. Per prima cosa ci sono le SS da neutralizzare, un corpo speciale voluto da Hitler e a lui fedele.
Mosse e contromosse rendono intrigante questo film, che mostra anche le titubanze di chi occupa ruoli importanti nell’accettare l’idea di una eliminazione di Hitler. La paura di essere scoperti e di non solo perdere la posizione di comando raggiunta ma di essere addirittura fucilati come traditori, rende l’operazione Valchiria sospesa a un filo. Il più fermo nel portare avanti il progetto è il colonnello Stauffenberg, che si rende conto delle insicurezze dei più.
Arriva il 20 luglio 1943. Hitler riunisce tutti i suoi capi. Va anche Stauffenberg. Ha con sé una borsa dove è nascosto l’esplosivo, che deposita ai piedi del tavolo.
Quando, da fuori, assiste all’esplosione, crede che Hitler sia rimasto ucciso. Non è così, è rimasto solo leggermente ferito.
I golpisti, avendolo creduto morto, danno il via al loro piano di occupazione del potere. Ne nasce una situazione confusa, ben resa dal regista, e ancora più confusa sarà quando arriva la notizia che il Fűhrer è vivo. Tutti i complottisti saranno fucilati, ma a loro, a fine guerra, è stato reso omaggio con il monumento eretto a Berlino e dedicato alla Resistenza tedesca, che reca la scritta: “Voi non portaste il peso della vergogna. Avete resistito sacrificando la vostra vita per la libertà, per il diritto e per l’onore.”.

“Dove osano le aquile” di Brian G. Hutton

Del 1968, vanta la partecipazione di Richard Burton, nel ruolo del maggiore inglese John Smith, e Clint Eastwood nel ruolo del tenente statunitense Morris Schaffer.
Bisogna liberare il generale statunitense Carnaby, conoscitore del piano per liberare l’Europa dai nazisti. Da questi, è tenuto prigioniero nel Castello delle aquile, una fortezza inaccessibile posta sulle Alpi bavaresi. Il loro intento è quello di costringerlo a rivelare i dettagli del piano.
Viene formata una squadra di specialisti inglesi, comandata dal maggiore Smith, alla quale viene aggregato il tenente statunitense Schaffer, allo scopo di liberarlo prima che i nazisti riescano con la tortura a farlo parlare.
Devo precisare che in questo film non sono mostrate le atrocità naziste, ma semplicemente una missione di liberazione di questo importante ostaggio. Tuttavia, l’ho scelto per la bellezza degli scenari che si aprono agli occhi dello spettatore sin da subito, così singolari e suggestivi. Spettacolare la visione della fortezza.
Quando la squadra è lanciata dall’aereo sulla montagna, che è tutta innevata per via della stagione invernale, uno di essi viene trovato morto. Si crede che nel contatto a terra si sia rotto l’osso del collo. Solo il maggiore noterà che la rottura del collo è stata fatta a posteriori da qualcuno che prima lo ha colpito con il calcio della pistola. Il maggiore tiene per sé la scoperta. Ne dà comunicazione, però, via radio, ai suoi superiori e ad una ragazza già sul posto che è una spia britannica e ora aiuta Smith. Si chiama Mary Elison, ed è interpretata da Mary Ure, la quale si farà passare per la cugina di Heidi, interpretata da Ingrid Pitt, che fa la cameriera nel locale del villaggio che si trova ai piedi della montagna, dove è acquartierato un reparto di soldati tedeschi. Tra essi c’è il sospettoso maggiore von Hapen, interpretato da Derren Nesbitt.
Le due ragazze vengono trasferite nella fortezza, nel mentre il maggiore Smith e il tenente Schaffer, insieme con i restanti 3 soldati inglesi, vengono scoperti. I 3 soldati inglesi sono caricati sulla teleferica e condotti alla fortezza, ma, in modo rocambolesco e dopo aver distrutto con l’esplosivo mezzo villaggio, sul tetto della teleferica ci sono anche il maggiore e il tenente.
Quindi ora abbiamo nella fortezza le 2 ragazze e i restanti 5 uomini incaricati di liberare il generale americano Carnaby.
Mi fermo qui, poiché ciò che succederà sarà una catena di sorprese, una delle quali posso anticiparla: il generale Carnaby non è affatto un generale, ma un semplice caporale chiamato a svolgere quel ruolo, e l’obiettivo vero della missione era quello, riuscito, di scoprire la rete di spie tedesche infiltrate nel Regno Unito, e anche il loro capo.
E quando conoscerete il suo nome, rimarrete stupefatti, e stupefatti anche della sua morte.
Sequenze e immagini della fuga dalla fortezza sono da antologia.

“Il servo ungherese” di Giorgio Molteni e Massimo Piesco

Li cito, ma non ne scrivo, poiché il mio intento, salvo rare eccezioni, è quello di mostrare le efferatezze del nazismo, senza indulgere a sorrisi o a situazioni da commedia. Sono due bei film, peraltro: “La vita è bella” del 1997 di Roberto Benigni, che nel 1999 vinse l’Oscar per il miglior film straniero, e “Jacob il bugiardo” del 1999 di Peter Kassovitz, che vede un’interpretazione straordinaria del personaggio da parte dell’attore Robin Williams.
Scelgo, dunque, di scrivere de “Il servo ungherese” del 2004 diretto da Giorgio Molteni e Massimo Piesco.
Il personaggio principale, Miklós, è interpretato da Andrea Renzi.
Siamo in un campo di concentramento nazista. Il comandante maggiore August Dailermann ha una bella moglie, Franziska, interpretata da Chiara Conti, la quale si annoia della vita che conduce al campo, tanto differente da quella, vivace e allegra, condotta a Berlino. È a conoscenza che il marito la tradisce con le prigioniere, soprattutto polacche, ma ciò che la infastidisce è il continuo fumo che esce dai camini e ammorba l’aria del campo (non saprà dei forni crematori, se non alla fine). Si viene a sapere dal tenente Tross che sono aumentati i prigionieri del campo e si è reso necessario incrementare l’uso dei forni. Da ciò la inevitabile maggiore densità del fumo.
Il comandante cerca di dare una distrazione alla moglie, mettendole a servizio un prigioniero istruito, Miklós, sperando che possa, con la sua cultura, portarle sollievo. Tross la descrive come una persona ubbidiente e remissiva.
Con l’occasione Tross mostra al comandante anche il dipinto che raffigura una donna del pittore Oskar Kokoschka, domandando se sia degno di essere inviato a Berlino. Macché, è un’arte decadente, gli risponde Dailermann. “State commettendo un errore”, interviene il servo Miklós, presente alla scena, che per avere osato parlare viene fustigato. Ma, venuto a conoscenza dallo stesso Miklós che il dipinto e un altro che il tenente ha portato, hanno un notevole valore, richiama il tenente e dice alla moglie di conservarli.
Sono i primi segnali delle qualità del nuovo servitore che, pur addetto ai lavori di casa più umili, non manca di insegnare il valore del bello e dell’arte. È il caso anche dei versi di un poeta greco, che Miklós legge (e ne leggerà ancora) a Franziska, la quale ne resta impressionata.
Tuttavia, Miklós, nonostante i suoi pregi, resta un ebreo, un rifiuto della società. Infatti, il comandante non manca di fustigarlo senza alcun motivo, a suo piacimento. Però, tutto cresce a poco a poco, e soprattutto Franziska sembra cominciare ad apprezzare la cultura del suo servitore. Viene a sapere da lui stesso che è un ungherese di Budapest. Le sue domande al servitore diventano sempre più frequenti, così come la sua stima nei confronti dell’uomo.
Le loro conversazioni, soprattutto sul significato della vita, assumono qualità sempre più elevate. Miklós, ebreo, si manifesta agli occhi di Franziska superiore a tanti uomini. Non è un selvaggio, non è una bestia. Ma suo marito, le dirà: “Sarà anche istruito, ma è un ebreo.”. Miklós, in realtà, è una piccola luce accesa in un campo dove dominano l’odio, il sadismo, l’efferatezza.
Una sequenza ci mostra l’esecuzione di 3 ebrei colpevoli di aver rubato del cibo destinato ai cani. Sono inginocchiati e attendono il colpo di pistola alla nuca, ma il tenente Tross sta discorrendo con il comandante del più e del meno, e ciascuno dei condannati sente la pistola puntata alla nuca che tarda a sparare, e piange di disperazione.
È con la luce di Miklós, è con la sua invisibile interferenza e mediazione che l’arte prende piede nel campo, prima con un gruppo di pittori che si cimentano nel fare un ritratto a Franziska, poi con la formazione di un’orchestra di musicisti.
Il dolore permane, tuttavia. È talmente profonda la ferita inferta all’umanità, che la stessa arte non riesce a rimarginarla.
Sebbene vi sia impressa l’ala della speranza, è un film doloroso.
Nel finale si invertono le parti. Il comandante si rende conto dell’atroce compito che gli è stato assegnato e chiede il trasferimento. Lo mandano a Berlino e la moglie è tutta contenta. Là, la vita può tornare allegra, tra feste e danze. Stupito, il marito le chiede se non le dispiaccia lasciare gli uomini con i quali è venuta a contatto, e lei risponde che non ha colpa di ciò che succede e precisa: “Ma a me piace servire il Reich, e questo è il punto.”.
Al comando del campo è assegnato il tenente Tross, che manderà ai forni i musicisti e i pittori che hanno collaborato con Franziska e con il vecchio comandante, e anche Miklós, il quale, mentre va a morire, scorge, nella fila di nuovi prigionieri che entrano al campo, anche sua moglie.
Con Tross tutto torna come prima.

“Rosenstrasse” di Margarethe von Trotta

Del 2003, narra un fatto veramente accaduto dal 27 febbraio al 6 marzo del 1943 in una strada di Berlino, dove venivano rinchiusi i mariti ebrei delle donne tedesche di razza ariana. Queste ultime si radunarono sotto la prigione per protestare, riuscendo a farli liberare.
Ma andiamo con ordine.
Per prima cosa si deve dire che il film si avvale di numerosi flash-back, con cui a poco a poco si ricostruisce la storia di Ruth bambina.
Le prime immagini ci mostrano una Ruth anziana che vive negli Stati Uniti e a cui è morto il marito, sepolto il giorno prima, e nella sua casa si stanno celebrando i riti previsti, per il caso, dalla religione ebraica.
Arriva anche il fidanzato di Hannah, la figlia di Ruth, e si viene a conoscere che Ruth è contraria al matrimonio tra la figlia e un non ebreo. Si conoscerà in seguito il motivo: la madre di Ruth era sposata con un ariano che, in seguito alle leggi raziali, l’aveva abbandonata al suo destino.
Da un flash-back vediamo una Ruth bambina che va in cerca della mamma e la trova prigioniera, con altre donne, dei nazisti. Riesce a entrare nella casa e a vederla. La madre le dice che, quando uscirà di lì, dovrà cercarsi una delle donne che si trovano in strada a protestare e chiederle di prendersi cura di lei. Si capisce che quella madre è destinata all’olocausto.
Arriva anche una cugina di Ruth, Rachel, che pure non viene accolta bene. Parlando con Hannah, Rachel le mostra una foto in cui Ruth bambina è fotografata vicina ad una donna. Le viene detto che è la donna che ha salvato Ruth. Nonostante le richieste continue di Hannah, la madre non vuole raccontarle la sua storia, e allora Hannah, che ha appreso il nome della sconosciuta, Lena Fisher, interpretata da Katja Riemann (da giovane) e da Doris Schade (da anziana) decide di cercarla in Germania e parlare con lei di sua madre.
La regista von Trotta riesce a mettere tanta intensità in ogni fotogramma.
Con un altro flash-back vediamo che Lena Fisher, di “antica nobiltà”, una baronessa, (von Eschonboch), sta cercando suo marito, un violinista ebreo; Fabian (lei pianista, facevano concerti insieme) prigioniero dei nazisti. L’ufficiale al quale si rivolge le consiglia di divorziare e che la pratica di divorzio sarà espletata rapidamente, ma, di fronte alle insistenze della donna, le risponde: “Alle puttane degli ebrei non diamo alcuna informazione.”. Le aveva anche comunicato che, se non avesse divorziato, sarebbe stata considerata pure lei un’ebrea, con le relative conseguenze.
Lena Fisher, dunque, è una donna forte, ostinata a non arrendersi e a non cedere alle leggi della dittatura.
Per salvare il marito si rivolge al padre, barone e uomo influente, ma questi si rifiuta di aiutarla; allora ci prova il fratello, invalido di guerra, pensando che la sua invalidità induca i carcerieri a liberare Fabian.
È tutto inutile.
In Rosenstrasse, intanto, il numero delle donne schierate davanti alla prigione sta aumentando. Ora gridano: “Io voglio riavere mio marito.”. La situazione per il regime si fa imbarazzante.
Finché, grazie anche a un sacrificio personale di Lena, tutti i prigionieri saranno liberati.
Non so se, nel mio piccolo, posso anch’io definirmi un artista, ma devo confessare che si prova una grande emozione quando s’incontrano registi che sanno, come la von Trotta, raccontare così bene.

“Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica

Del 1970, ha questi attori principali: Lino Capolicchio, nella parte di Giorgio, Dominique Sanda, nella parte di Micol Finzi Contini, Fabio Testi, nella parte di: Giampiero Malnate, Romolo Valli, nella parte del padre di Giorgio, Helmut Berger, nella parte di Alberto Finzi Contini.
Il film trova una perfetta congiunzione tra la bravura di Vittorio De Sica e l’eccezionale romanziere quale fu Giorgio Bassani, dal cui romanzo omonimo il film è tratto. Vinse nel 1972 il premio Oscar per il miglior film straniero, nonché l’Orso d’oro a Berlino e due David di Donatello.
Siamo a Ferrara negli anni 1938 – 1943 e una famiglia ebra, quella dei Finzi Contini, è tra le più in vista della città. Nella sua bella casa, a giocare a tennis, si ritrovano Giorgio, Micol, Giampiero e Alberto, fratello di Micol ed altri compagni.
La loro vita trascorre serenamente, nonostante siano entrate in vigore le leggi razziali, che impediscono a Micol e a Alberto di frequentare il circolo del tennis della città.
Giampiero (Fabio Testi), non ebreo, è arrivato a Ferrara da poco, da Milano; è un tipo esuberante a cui piace la compagnia e lo svago e Alberto, malaticcio, ne è attratto poiché diverso da lui, più solitario e deluso dalla vita. Alla domanda di Giorgio, Micol risponde che Giampiero non è il suo tipo.
Sin da questi inizi, è tracciata la linea della trama. Il regime sta mutando le relazioni umane, e le appanna di una scontentezza ancora non avvertita in profondità, ma che già permea l’aria.
In casa di Giorgio (anche la sua famiglia è ebrea), il padre è incline a subire la situazione, ma Giorgio no, dice al padre che non è giusto, che si dovrebbe reagire. Tra loro passa un segnale di sospensione, di un riflettere ancora. Giorgio, sin da bambino, è innamorato di Micol, una ragazza che lo vorrebbe più deciso verso di lei, vorrebbe che la baciasse, ma a Giorgio manca il coraggio. Quando succederà, Nicol si mostrerà fredda e più tardi dirà a Giorgio di non farsi vedere più.
Più intraprendente si rivela Giampiero, che Micol respinge, ma si capisce che ne è attratta. Giorgio, spiando, li sorprenderà a fare all’amore, e lei, scorgendolo, gli si mostrerà nuda e accenderà la luce perché veda bene la sua nudità, ma anche la sua disperazione.
A Giorgio, che sta preparando la tesi di laurea, viene impedito di frequentare la biblioteca della città, e allora si reca dai Finzi Contini che ne hanno una splendidamente fornita.
Il disagio e il senso di isolamento e di rifiuto da parte della popolazione non ebrea, la quale si nasconde dietro la scusa che è una legge a costringerli a comportarsi così, si fanno più pesanti e opprimenti. Manca l’aria, si avverte la minaccia del soffocamento, del fine vita.
De Sica sa creare con le opportune cadenze queste atmosfere di disagio (si pensi a Umberto D) e ce le offre con immagini che ne sono lo specchio.
Il fratello di Giorgio, Ernesto, è stato mandato dal padre in Francia, a Grenoble, per metterlo al sicuro. Giorgio va a trovarlo, per portargli anche del denaro. Qui da un amico del fratello apprende che ci sono i campi di concentramento nazisti, di cui nessuno in Italia ha mai parlato. Una tragica scoperta che sottolinea la precarietà della situazione degli ebrei in Italia.
Ernesto lo prega di rimanere a Grenoble, ma Giorgio gli risponde che deve tornare.
La situazione peggiora ancora di più, con una gradualità che è cinica e crudele. Comincia la caccia agli ebrei. Ora non sono più tollerati, ma vengono inviati ai campi di concentramento per la loro eliminazione. Intanto Alberto è morto, e pure Giampiero sul fronte russo.
Tocca ora ai Finzi Contini, prelevati dalla loro bella casa e condotti in un palazzo dove sono radunati gli ebrei arrestati. Vi si trova anche il padre di Giorgio. Quest’ultimo è riuscito a salvarsi.
Le ultime immagini sono di una struggente poesia.

“La lunga notte del ‘43” di Florestano Vancini

È ancora Giorgio Bassani a fornire col suo racconto la materia prima per un film straordinario che ne assorbe la tragedia in tutta la sua intensità.
Questi gli attori principali: Enrico Maria Salerno, nella parte di Pino Barilari, Belinda Lee, nella parte di Anna Barilari, Gabriele Ferzetti, nella parte del professore Franco Villani, Gino Cervi, nella parte di Carlo Aretusi detto Sciagura, e Andrea Checchi, nella parte del farmacista.
Siamo a Ferrara, la città immortalata da Giorgio Bassani, così come Alberto Bevilacqua immortalò la sua Parma.
È il 1943, dopo l’8 settembre, in piena guerra. Il fascismo miete ancora le sue vittime.
Pino Barilari possiede una farmacia, proprio davanti al castello ferrarese, sotto i portici. È invalido a causa della sifilide e alla bottega ci pensa un farmacista (Andrea Checchi) e la moglie di Barilari, Anna (Belinda Lee), più un inserviente. Lui sta sempre alla finestra della sua casa, posta sopra la farmacia, e da lì osserva i passanti e tutto ciò che accade nella strada.
La moglie, in farmacia si annoia; è addetta alla cassa, ma non ha occasioni per svagarsi, se non le conversazioni noiose col marito, finché, in un cinema, non incontra una sua vecchia fiamma, Franco (Gabriele Ferzetti), un gaudente, che non vedeva da anni. Si frequentano e la vecchia amicizia diventa a poco a poco qualcosa di più.
Già si avverte che di spicco sarà la figura di Carlo Aretusi (Gino Cervi), il quale ha una cricca di estimatori intorno a sé. Non gli va a genio l’attuale federale, Mario Bolognesi, troppo tiepido, “un manichino”. I tempi sono destinati a cambiare, e assai presto, dice ai compagni fascisti.
Ecco i rastrellamenti, infatti. La gente fugge, cerca un riparo.
Anna aiuta un fuggiasco, che si è rifugiato nella farmacia, e avvisa per telefono Franco di non uscire di casa. A proposito di un rastrellato che si rivolge a Aretusi perché gli usi un riguardo, lui commenta, mentre lo portano via: “Vai vai, che un po’ di Germania ti farà bene.”. Rivolto a uno dei compagni, aggiunge: “Ma prenderemo in mano noi tutte le cose, stai tranquillo.”.
Il federale Bolognesi viene ucciso mentre si reca in auto all’assemblea nazionale del partito fascista repubblicano. L’attentato è stato organizzato da Aretusi, che ha fretta di prendere il potere a Ferrara, dove intanto la relazione tra Franco e Anna è resa più difficile dalla nuova situazione e Franco, che non se la sente più di uscire di casa, suggerisce a Anna che la sola possibilità di mantenere il loro rapporto è quello che lei si rechi di notte da lui. Lei accetta.
L’assassinio di Bolognesi dà l’occasione di inviare dalle città di Padova e Verona bande di squadristi affinché rastrellino Ferrara e eliminino per vendetta gli avversari politici. Una rappresaglia, insomma.
Arrivano di sera in una Ferrara avvolta dalla nebbia e cominciano a bussare e, ove occorra, a sfondare i portoni degli antifascisti. Succede anche alla casa dell’avvocato Attilio Villani, il padre di Franco.
Finita la rappresaglia, gli squadristi radunano le vittime davanti al castello di Ferrara e le uccidono a colpi di mitra. Dalla finestra Barilari vede tutto, e vede anche che tra gli squadristi c’è pure Aretusi, e vede pure la moglie che è tornata dal suo appuntamento notturno con Franco e si è trovata davanti quella scena di morti. Alza la testa verso la finestra e s’accorge che suo marito l’ha vista.
Tutto precipita per Anna; dopo la lite col marito fugge di casa e si reca da Franco, ma anche Franco la respinge, poiché l’indomani deve partire per la Svizzera, per evitare il rischio di cadere nelle mani dei fascisti. Il regista riprende Anna, affranta e sola, seduta su di una panchina lungo un viale alberato. La sua vita non ha più sogni, non ha più speranze. Il farmacista la riconcorrerà affinché torni al lavoro, ma Anna rifiuterà e sparirà nel nulla, non se ne saprà più niente.
Intanto Aretusi è il nuovo federale di Ferrara. Sospetta che Barilari abbia assistito dalla solita finestra all’eccidio e va a trovarlo ricordando la loro amicizia e la loro gioventù. Ma può stare sicuro. Barilari ce l’ha con la vita e non parlerà.
Quelle di Anna e del marito saranno due vite disperate, distrutte dal rimorso.
Dopo la guerra, capita in città Franco; si è sposato con una svizzera di lingua francese e ha un bambino; va a visitare la lapide che ricorda l’eccidio e alla domanda della moglie dice che tutto ciò è accaduto il 15 dicembre 1943, intorno alle ore 4 del mattino. Poi si ferma ad un bar e incontra Aretusi. Alla domanda della moglie su chi sia Aretusi, risponde: “Un poveraccio. Non credo abbia mai fatto niente di male.”.
È un film disperato, dove il coraggio è sopraffatto dalla paura e dalla viltà.

“Roma città aperta” di Roberto Rossellini

Del 1945 (notate, è appena finita la guerra, i fatti narrati sono ambientati nel 1944), è un capolavoro conosciuto in tutto il mondo. Film con questo stile asciutto ed essenziale se ne vedono pochi. Vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes del 1945.
La parte di Pina è interpretata da Anna Magnani, quella di don Pietro Pellegrini da Aldo Fabrizi, quella dell’ingegnere Giorgio Manfredi da Marcello Pagliero, quella di Marina da Maria Michi e quella del maggiore Fritz Bergmann da Harry Feist.
Si comincia con la caccia all’ingegnere Giorgio Manfredi, uomo di spicco della resistenza. Una squadra di nazisti irrompe nella pensione dove è alloggiato, ma Giorgio fa in tempo a fuggire attraverso i tetti.
A capo delle operazioni di rastrellamento è il maggiore Fritz Bergmann, il quale si è proposto di catturare tutti gli uomini della Resistenza che operano a Roma. Si avvale anche dell’aiuto del capo della polizia fascista.
Dalla sua stanza si odono le urla dei prigionieri torturati. Lo infastidiscono. Dirà: “Quanto gridano questi italiani.”.
L’interpretazione dell’ufficiale tedesco è da segnalare per la sua eccellenza. È un uomo freddo e cinico, tutto preso dalla sua missione.
Pina (Anna Magnani) compare durante un assalto ai forni. La gente ha fame e non ha paura di compiere simili gesti disperati. Si pratica la borsa nera e si attende l’arrivo degli americani.
Giorgio si fa trovare sul pianerottolo dell’abitazione di Pina e le domanda di Francesco, un comune amico, tipografo, che al momento è fuori casa. Le chiede di mandare a chiamare don Pietro per avere un colloquio con lui.
Don Pietro sarà un importante collegamento tra gli uomini della Resistenza. Gli saranno assegnate varie missioni, tutte pericolose. Al momento i nazisti non sospettano di lui.
Pina ha una sorella, Lauretta, la quale è amica di Marina, la donna di Giorgio. Quest’ultima viene subito presentata come un personaggio debole e schiavo della droga. Insieme fanno del varietà e si trovano a contatto con esponenti nazisti. Marina, soprattutto, non riesce a svincolarsi da una donna, Ingrid, spia tedesca, che pare averla plagiata servendosene per carpire notizie sui movimenti degli uomini della Resistenza. Agostino, detto anche “Purgatorio”, il sagrestano di don Pietro, è preoccupato delle numerose uscite misteriose del suo parroco: “Se non finisce presto questa guerra, io divento scemo.”. Don Pietro dà rifugio anche ad un soldato tedesco, stanco della guerra. Viene da Cassino, “un inferno”. Pina, incinta, “vedova e con un figlio grande”, deve sposarsi con Francesco, e per questo ha modo di incontrarsi spesso con don Pietro. Per le strade di Roma circolano anche le milizie fasciste al servizio dei nazisti.
Ora tutti i fili della trama sono stati stesi e non c’è che da attendere i loro intrecci.
La sapienza narrativa di Rossellini creerà la tensione necessaria per arrivare col fiato sospeso al clou della storia, ossia al mattino fissato per le nozze di Pina, allorché nazisti e fascisti faranno un rastrellamento nel palazzo dove vive Pina e arresteranno, fra i tanti, anche il suo Francesco. Lui la invoca, gridando, già salito sul camion con gli altri prigionieri, e Pina, con la forza della disperazione, riesce a svincolarsi dai soldati e gli va incontro urlando il suo nome, mentre il camion si allontana. È allora che la raggiunge una raffica di mitra e Pina muore, accasciandosi sulla strada.
Ma non finisce qui. Giorgio organizza una trappola con alcuni suoi uomini e i prigionieri vengono liberati. Marina li sta tradendo, però (per una pelliccia e un flacone di droga, ma, vedendo la sua fine tragica, se ne pentirà). Dice a Ingrid dove può trovarli, e così, mentre sono in strada, don Pietro, Giorgio e il disertore tedesco vengono fatti salire su una macchina che li conduce dal maggiore Bergmann. Si salva Francesco, che in strada era rimasto indietro rispetto ai compagni, e assiste da lontano all’arresto. La scamperà.
Le torture che subirà Giorgio sono atroci, ma, pur massacrato dagli aguzzini, non parlerà, perdendo la vita; il soldato tedesco si suiciderà, e don Pietro, messo a sedere su di una sedia, con alle spalle il plotone di esecuzione, sarà fucilato mentre, radunatisi aldilà di una rete di recinzione, ci sono i suoi ragazzi che fischiano una canzone che hanno in comune con don Pietro per dirgli addio. Assistendo alle torture fatte a Giorgio e avendolo visto morire, aveva gridato al maggiore Bergmann e agli uomini che gli erano accanto: “Sarete schiacciati nella polvere come dei vermi, maledetti!”. Vedrà la scena di morte del suo Giorgio anche Marina che, mezza ubriaca, svenirà. Ingrid le toglie la pelliccia, scuotendola.

“La chiave di Sara” di Gilles Paquet-Brenner

È un film del 2010, tratto dall’omonimo romanzo di Tatiana de Rosnay. Un film da sottolineare e risottolineare per la sua malinconica bellezza.
Questi gli attori principali: Kristin Scott Thomas, nella parte di Julia Jarmond, Mélusine Mayance, nella parte di Sarah Starzynski da bambina e Charlotte Poutrel, nella parte di Sarah da adulta, Niels Arestrup, nella parte di Jules Dufaure, Frédéric Pierrot, nella parte di Bertrand Tézac, Michel Duchaussoy, nella parte di Édouard Tézac, Aidan Quinn, nella parte di William Rainsferd.
Vedrò di semplificare per quanto possibile la narrazione dei flash-back presenti in questo film.
Siamo in Francia, è il 16 luglio 1942. Due fratelli, maschio e femmina, Jules e Sarah, stanno giocando nel letto, quando bussano energicamente alla porta. Va ad aprire la madre; è la polizia, venuta a prelevarli. Il marito non c’è, ma sfortunatamente arriverà di lì a poco e verrà arrestato pure lui. Chiedono dove sia il piccolo, e Sarah, che è più grande di Jules, risponde che il fratellino non c’è, poi, non vista, va a nasconderlo in un armadio e lo chiude a chiave. Loro, insieme a tanti altri ebrei, finiranno prima ammassati (oltre 10.000) al velodromo di Inverno di Parigi, poi trasferiti nei campi di concentramento. Già al velodromo le condizioni sono terribili, mancano i servizi igienici; una donna si suicida, una giovane si finge malata e riuscirà a corrompere la vigilanza. Il padre e la madre pensano a Jules, rinchiuso nell’armadio e la cui chiave è in possesso di Sarah. Dovevamo portarlo con noi, gridano alla piccola. Caricati su un camion partono per una destinazione ignota, ma qualcuno pensa che saranno condotti in Germania o in Polonia nei campi di concentramento. Un vecchio mostra agli altri un anello che ha al dito della mano destra e dice loro che lo porta con sé perché “nessuno al mondo può dirmi quando devo morire.”.
Anni dopo, nel 2009, una rivista decide di approfondire questa storia e incarica la giornalista Julia Jarmond di occuparsene.
Dirà al collega il quale pensa che la colpa di questa brutta storia sia dei nazisti, che, in realtà, furono i fascisti francesi ad organizzare il rastrellamento e la deportazione.
Si verifica una combinazione più unica che rara. Julia e il marito, Bertrand, stanno ristrutturando un nuovo appartamento dove andranno ad abitare. Era appartenuto ai nonni di lui. Quando Jules va a trovare la nonna, ricoverata in ospedale, scoprirà che i nonni di Bertrand andarono a vivere proprio in quell’appartamento nell’agosto del 1942, poiché da poco era stato reso libero (l’anziana donna non ne conosce i motivi). Julia intuisce subito che quell’episodio lontano ha a che fare con la storia della famiglia di Sarah.
C’è qualcosa di più: Julia è incinta e il marito non accoglie bene questa notizia. Preferirebbe che abortisse, ma Julia è decisa a portare a termine la gravidanza, “perché è una cosa giusta.” (hanno già una figlia grande).
Sarah, con un’altra bambina, è riuscita a fuggire dal campo in cui era internata, vigilato dai fascisti francesi. Uno di questi le aiuterà a passare sotto il filo spinato. Ora le due bambine cercano aiuto e un nuovo rifugio. Lo troveranno presso una famiglia francese, ma l’amica morirà a causa della difterite.
Julia non si stanca di indagare. Il suocero conferma i suoi sospetti.
Quell’appartamento era stato occupato dai suoi genitori e da lui, bambino. Nonostante l’appartamento fosse invaso da un odore nauseabondo, pensarono che si trattasse di qualche gatto o uccello morti, finché arrivò di corsa, due giorni dopo che vi abitavano, Sarah che, con la chiave conservata per tutto quel tempo, aprì l’armadio trovando, ahimé, il fratellino già cadavere e maleodorante.
Che fine ha fatto Sarah? si domanda la giornalista.
Basterà dire che continuerà le sue ricerche al termine delle quali avremo una spiacevole sorpresa, ma anche il senso di una vita che rinasce.
Il film termina con queste parole: “Quando una storia viene raccontata, non può essere dimenticata. Diventa qualcos’altro, il ricordo di chi eravamo, la speranza di ciò che possiamo diventare.”.

“Rappresaglia” di George Pan Cosmatos

Del 1973, tratto dal romanzo “Morte a Roma” di Robert Katz.
Questi gli attori principali: Marcello Mastroianni, nella parte di padre Antonelli, Richard Burton, nella parte di Herbert Kappler, John Steiner, nella parte di Eugen Dollmann, Delia Boccardo, nella parte di Elena, Renzo Montagnani, nella parte di Pietro Caruso, Peter Vaughan, nella parte di Albert Kesselring, Renzo Palmer, nella parte di Giorgio, Leo McKern nella parte di Kurt Mälzer.
La storia comincia il 22 marzo 1944. Le prime immagini fanno vedere i soldati tedeschi che ogni giorno marciano passando da Via Rasella, che diventerà famosa per il tragico attentato del giorno dopo.
Padre Antonelli sta restaurando in una chiesa di Roma un dipinto, quando viene a trovarlo il colonnello Kappler, per chiedere chiarimenti sull’autenticità di un quadro attribuito a Masaccio. In realtà, si tratta di una minaccia, poiché se la questione non sarà chiarita i tedeschi requisiranno tutti i quadri di valore della capitale.
intanto i tedeschi vietano una manifestazione fascista programmata per l’indomani 23 marzo per timore di disordini provocati da una città scontenta (“Roma è una polveriera.”). Però il Polizeiregiment “Bozen” dovrà continuare a marciare per la città a dimostrazione della forza germanica.
I partigiani stanno preparando un attentato a questo reggimento proprio il 23 marzo e nel momento in cui passa per via Rasella. Da Radio Londra, attraverso la voce del colonnello Stevens, si tengono aggiornati sull’andamento della guerra.
Anche i tedeschi l’ascoltano e si stanno rendendo conto che gli Alleati presto prevarranno.
Siamo ancora al 22 marzo. Il generale a capo delle forze germaniche in Roma, Kurt Mälzer, è a tavola, si gode il pranzo e la romanza cantata da un soldato tedesco “Una furtiva lagrima” da “L’elisir d’amore” di Donizetti.
Non si ha la minima sensazione di ciò che accadrà l’indomani.
Ed eccoci al 23 marzo. Fervono i preparativi per l’attentato. Un partigiano vestito da netturbino dovrà lasciare incustodita per qualche minuto in via Rasella la carretta con cui svolge il suo lavoro nel mentre passerà, come ogni giorno, il reggimento “Bozen”. L’attesa è spasmodica.
Padre Antonelli ha consegnato poco prima l’autentico Masaccio a Kappler, scongiurando la rapina di altre opere d’arte, e con lui ha una conversazione che s’incentra sull’importanza e l’efficacia della guerra. Ovviamente il prete è in disaccordo con le idee di Kappler. Quelli delle diverse conversazioni tra padre Antonelli e Kappler sono momenti molto importanti del film in cui si contrappongono due opposte visioni della vita.
Ed eccoci all’attentato. Una forte esplosione provocherà morti e feriti. Avvertito via telefono Kappler, questi commenterà: “L’11a compagnia praticamente non esiste più.”.
I tedeschi decidono la rappresaglia, e sceglieranno le vittime tra i condannati a morte e tra quelli in attesa di giudizio per gravi reati, ma il numero di 320 (10 per ogni soldato tedesco morto) è difficile da raggiungere; allora si includono anche gli ebrei. Si chiede aiuto al questore fascista Caruso per completare la lista (50 carcerati, ma alla fine saranno 55).
Siamo arrivati al 24 marzo. La compilazione della lista è ancora in corso e già si pensa ad un luogo dove eseguire la rappresaglia e la conseguente sepoltura: “Dobbiamo trovare un luogo che si presti.”.
Padre Antonelli si rivolge a Kappler, a cui è stata affidata l’organizzazione della rappresaglia, perché desista. Ma inutilmente.
A causa di un ferito che muore per gravi ferite riportate nell’attentato, la rappresaglia salirà a 330 vittime e da ultimo a 335 per l’errore della polizia fascista.
Tragiche le immagini finali dei camion che arrivano uno dietro l’altro carichi dei prigionieri e la loro esecuzione mentre i camion mantengono i motori accesi per attutire il rumore degli spari.
Padre Antonelli si aggiungerà volontariamente alle vittime.

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