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Il rebus che il Colle dovrà risolvere

10 Marzo 2013

di Eugenio Scalfari
(da “la Repubblica”, 10 marzo 2013)

IN QUESTI giorni di fitta nebbia politica la domanda che domina tutte le altre riguarda Giorgio Napolitano. Le ipotesi sono molte e contraddittorie poiché per saperlo bisognerebbe entrare nella testa del Capo dello Stato, e dunque soltanto la logica può suggerire la risposta. Napolitano, nel suo recente incontro con la Merkel, ha rassicurato la Cancelliera dicendo che l’Italia avrà sempre un governo in grado di governare. Sembra un’affermazione ovvia, ma non lo è. Significa che il Presidente, cui spetta di nominare il premier, non farà salti nel buio e non nominerà un governo che non abbia una maggioranza parlamentare. Perciò da qui bisogna partire per svolgere correttamente la nostra analisi logica.

Il 19 marzo, dopo che le Camere avranno costituto i gruppi parlamentari, le commissioni previste dai regolamenti e le rispettive presidenze, inizieranno le consultazioni al Quirinale, dopo di che Napolitano incaricherà Bersani, leader del centrosinistra che ha la maggioranza assoluta alla Camera e la maggioranza relativa al Senato.

Non sarà un incarico “esplorativo” che in certe occasioni viene affidato al presidente del Senato o ad altra personalità istituzionale. Sarà un incarico di “scopo”: deve verificare se attorno al suo nome e al suo programma sarà possibile formare una maggioranza. Se il risultato sarà positivo Bersani otterrà la nomina, se sarà negativo no, nominare un governo
minoritario sarebbe quel salto nel buio che Napolitano ha escluso.

Che cosa accadrà a quel punto, quando il calendario segnerà più o meno la fine di marzo? Teniamo presente che il 15 aprile il “plenum” del Parlamento si riunisce per eleggere il nuovo Capo dello Stato e quello attuale decade da ogni funzione anche se fino al 15 maggio resta titolare del ruolo. Titolare ma ingessato a tutti gli effetti.

Dal 26-27 marzo al 15 aprile a Napolitano restano dunque una ventina di giorni. In quel limitato spazio di tempo dovrebbe perciò nominare un governo con un premier che non sarà più Bersani, capace di realizzare quella maggioranza che il leader del centrosinistra non ha ottenuto ma che tuttavia dovrebbe esser gradito anche al centrosinistra senza il quale nessuna maggioranza si può formare.
Questo è il problema che Napolitano dovrebbe risolvere nella ventina di giorni a sua disposizione. A questo punto l’analisi si sposta dall’attuale Capo dello Stato alle forze politiche che siedono in Parlamento.

* * *

Movimento 5 Stelle. L’obiettivo che si propone è ormai chiarissimo (salvo il colpo di scena di una rivolta degli eletti rispetto alle indicazioni dei due proprietari del movimento stesso). Vuole la palingenesi politica, cioè il rovesciamento della Repubblica parlamentare nella sua architettura modellata dalla Costituzione. Nel caso specifico palingenesi significa puntare sul “tanto peggio tanto meglio”. Perciò il folto battaglione dei parlamentari 5 Stelle dirà di no ad ogni governo che non sia il suo; ma con il 25 per cento di seggi un governo 5 Stelle è impossibile, a parte le reazioni dell’Europa e dei mercati.
Potrebbe accettare un governo guidato e composto da persone affidabili dal suo punto di vista? Un governo del tipo di quello immaginato da Santoro? Cioè del tutto svincolato dagli impegni europei?
Non credo che il Pd lo voterebbe ma soprattutto non credo che Napolitano lo nominerebbe, non sarebbe nemmeno un salto nel buio ma un suicidio vero e proprio.

Allora, per completare la nostra analisi, resta soltanto l’ipotesi d’un governo istituzionale o del Presidente come si usa chiamare nel lessico corrente. Molti pensano che sia questa l’ipotesi di Napolitano.

* * *

Una siffatta soluzione – che per le ragioni già esposte esclude l’approvazione delle 5 Stelle – dovrebbe ottenere la fiducia del centrosinistra, di “Scelta civica” e del Pdl perché in mancanza di quest’ultimo la maggioranza al Senato non c’è.

L’accordo del centrosinistra con il Pdl è del tutto improbabile, configurerebbe una spaccatura della coalizione ed anche dello stesso Pd. Ma è anche improbabile dal punto di vista di Napolitano.
Berlusconi è stato proprio in questi giorni condannato ad un anno di reclusione per violazione di segreto istruttorio; ma queste sono quisquilie, ben altro lo aspetta. Il 23 marzo la Corte d’appello di Milano emetterà sentenza di secondo grado nel processo sui diritti cinematografici Mediaset (false fatturazioni, falso in bilancio, costituzione di fondi neri all’estero, frode fiscale). Potrà emendare o annullare o confermare la sentenza di primo grado che ha condannato Berlusconi a 4 anni di reclusione.

A fine mese arriverà anche la sentenza del processo Ruby (concussione e prostituzione minorile). Nel frattempo si profila un rinvio a giudizio della Procura di Napoli che indaga sulla corruzione e il voto di scambio (De Gregorio, Lavitola e compari). Il tutto è anche complicato dalla vertenza al calor bianco tra Berlusconi e i suoi legali da un lato e i tribunali dall’altro provocata dalla presunta impossibilità di Berlusconi a partecipare ai processi che lo riguardano.

Si può lontanamente immaginare che Napolitano faccia un governo istituzionale “baciato” dalla fiducia di un centrodestra guidato da Berlusconi? Certamente no anche perché sarebbe inutile dato che il Pd esclude quest’ipotesi già da un pezzo.

Ci sono però due subordinate. La prima è che il Pdl esploda in mille pezzi e una parte di essi confluisca con “Scelta civica” che diventerebbe in tal modo determinante per raggiungere la maggioranza in Senato insieme al Pd. Una seconda ipotesi è che il Pdl decida di dare il benservito a Berlusconi; un benservito vero e non soltanto apparente.
Questa seconda ipotesi mi sembra da escludere. La prima invece è possibile. Soltanto a quel punto un governo sarebbe possibile e potrebbe anche avere lunga durata sempre che fosse accettabile. Ma presieduto da chi e composto come?

Personalmente penso che un governo di tal genere debba affrontare i marosi d’una recessione sempre più acuta ed essere pienamente credibile in Europa, ma non possa avere carattere istituzionale, non possa essere un governo d’un Presidente uscente ma debba essere nominato dal nuovo inquilino del Quirinale.
Dopo aver tentato le soluzioni in suo possesso, a Napolitano resterebbe la sola via di lasciare Monti a Palazzo Chigi per l’ordinaria amministrazione che tra l’altro dovrà essere scavalcata almeno su un punto necessario e urgentissimo affinché il “credit crunch” non porti la nostra economia a completa rovina: il pagamento di 50 miliardi da parte del Tesoro alle imprese creditrici.
Il governatore Visco ha lanciato due giorni fa il suo allarme, le rappresentanze delle imprese invocano un’immediata iniezione di liquidità. Tecnicamente ci sono vari modi per renderla possibile, a cominciare dalla cartolarizzazione di beni dello Stato appetibili e vendibili, che servano da garanzia ad obbligazioni scontabili dalle banche e/o dalla Bce direttamente.
Francamente non vedo altre soluzioni per impedire che il “tanto peggio tanto meglio” distrugga lo Stato e le istituzioni repubblicane.

Naturalmente il futuro governo, cioè il primo nella nuova legislatura, dovrà mettere mano come prima misura alla modifica della legge elettorale puntando sui collegi uninominali a doppio turno e ai costi della politica utilizzando gran parte dell’agenda Bersani che merita d’essere tradotta in altrettanti provvedimenti legislativi.
Per il presidenzialismo bisogna fare un discorso a parte. Rappresenta un mutamento radicale della nostra architettura repubblicana, che non può esser certo realizzato come un qualsiasi emendamento di quelli previsti dall’articolo 138, ma neppure con una legge costituzionale. La Corte la invaliderebbe perché contraria allo spirito della costituzione vigente che, non a caso, esclude la possibilità di abolire la Repubblica.
Un presidenzialismo modifica a tal punto quell’architettura da rendere indispensabile la completa riscrittura della Costituzione. La può fare soltanto una nuova Assemblea costituente. Si può anche imboccare quella via ma un’altra strada non c’è.

* * *

Mentre in Italia accadono questi eventi che tutti ci riguardano, dopodomani si radunerà il Conclave per l’elezione del nuovo Pontefice: curioso destino questo mutamento di scenari che avvengono contemporaneamente in due potenze conviventi e distinte: lo Stato e la Chiesa.
Domenica prossima il Conclave sarà probabilmente già concluso e il nuovo Papa avrà già preso possesso del soglio petrino. Qui possiamo soltanto ricordare due verità, già ampiamente esaminate nei giorni scorsi dal nostro giornale.

La prima: le dimissioni di Benedetto XVI hanno testimoniato che il Papa non è il Vicario di Cristo in terra ma un uomo investito dell’altissima funzione di guidare una comunità di credenti che si estende su tutto il pianeta in convivenza con altre religioni o filosofie religiose.
La seconda: Ratzinger ha constatato di non avere più le forze fisiche e mentali per rinnovare la Chiesa come è necessario ed ha anche ricordato che il volto attuale della Chiesa è stato imbrattato e va dunque ricostruito dalle fondamenta.

Il Conclave si apre dunque in presenza di questi problemi. La Curia farà di tutto per pilotarlo in modo da evitare che quel rinnovamento si compia. Punterà su un Papa “curiale” e verticista, si chiami Pio XIII o addirittura Gregorio riferendosi a quell’Ildebrando da Soana che fu il vero costruttore del regno assoluto del Papa.

Oppure, se il bisogno di rinnovamento prevarrà, potrà chiamarsi Giovanni XXIV o Francesco. Sarebbe il primo con questo nome e c’è tra i papabili anche un cardinale cappuccino, Patrick O’Malley che ha tutte le caratteristiche pastorali delle quali la Chiesa sembra avere urgente bisogno. Da non credente interessato mi auguro che la scelta sia quella che sembra la più idonea a suscitare un vento di spiritualità necessario a migliorare la società e ciascuno di noi, credenti o non credenti.


Quella che segue è una puntuale replica all’articolo di Scalfari a firma di Gianni Pardo, tratta dal quotidiano web “il Legno Storto“.

La nostra Costituzione è lungi dall’essere la più bella del mondo. Una cosa simile può crederla soltanto chi la reputi un libro dei sogni. Un testo pieno di poesia e di buone intenzioni manifestate in qualche caso con sprezzo del ridicolo. Se invece la si reputa un testo giuridico, ed anzi la Legge più importante dello Stato, bisogna leggerla da giuristi. Dunque non ci si può permettere né di farle dire ciò che non ha detto, né di farle negare ciò che non ha negato.

In dottrina si insegna che una costituzione può essere flessibile o rigida. Il termine rigida però non corrisponde a mummificata e intangibile (come si vuol far credere nel nostro Paese); ma soltanto a “modificabile con particolari modalità”. Cose che è facile conoscere, se uno quel testo lo legge, invece di mitizzarlo soltanto. E purtroppo invece Eugenio Scalfari, forte del colore della sua barba, dice a proposito del presidenzialismo cose che farebbero bocciare uno studente al primo anno.

«Per il presidenzialismo – scrive – bisogna fare un discorso a parte. Rappresenta un mutamento radicale della nostra architettura repubblicana, che non può esser certo realizzato come un qualsiasi emendamento di quelli previsti dall’art. 138, ma neppure con una legge costituzionale. La Corte la invaliderebbe perché contraria allo spirito della costituzione vigente che, non a caso, escluda la possibilità di abolire la Repubblica. Un presidenzialismo modifica a tal punto quell’architettura da rendere indispensabile la completa riscrittura della Costituzione. La può fare soltanto una nuova Assemblea costituente ». Raramente è stato possibile condensare tante eresie in un paragrafo. Riprendiamolo analiticamente: «Un mutamento radicale della nostra architettura repubblicana, [che] non può esser certo realizzato come un qualsiasi emendamento di quelli previsti dall’art.138, ma neppure con una legge costituzionale ». L’art. 138 della Carta, primo comma, espressamente statuisce: «Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione ». In primo luogo, l’articolo non prevede specificamente alcun “emendamento” (e dunque Scalfari non può scrivere “quelli previsti dall’art. 138”) ma la “revisione”. E questa revisione non è necessariamente un piccolo ritocco. L’articolo non pone nessuna limitazione e intende qualunque modificazione della Costituzione stessa. Anche perché se avesse voluto parlare di “emendamento” il legislatore avrebbe parlato di “emendamento”. La parola non era ignota, ai padri costituenti. E inoltre, a dimostrare che l’articolo non intendeva porre limiti alla modificabilità della Costituzione, si ha la citazione di “altre leggi costituzionali”: proprio non si voleva escludere nulla. Ma la riprova massima la dà a contrario il successivo articolo 139: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale ». Ciò che la Costituzione voleva che non fosse in nessun caso modificato l’ha indicato espressamente. Con un articolo apposito. E come è noto ciò che non è vietato è permesso.
Insomma, non solo Scalfari ha letto distrattamente la Costituzione, ma sembra ignorare che mentre l’Italia non può divenire una monarchia, è però lecito, con l’art. 138, abolire la Camera dei Deputati, far nominare dal popolo il Primo Ministro, abolire il Presidente della Repubblica, permettere il referendum propositivo, dimezzare il numero dei parlamentari, portare la legislatura a dieci anni, obbligare tutti i deputati a vestire di rosso e i giornalisti a un anno di carcere quando non conoscono la Costituzione.

Ancora un appunto terminologico. Scalfari ha parlato di impossibilità di procedere con «un qualsiasi emendamento di quelli previsti dall’art. 138, ma neppure con una legge costituzionale ». Che cosa si intende per “una legge costituzionale”? Una nuova Costituzione? Se così fosse, non solo si potrebbe votare il presidenzialismo, ma anche tornare alla forma monarchica. Perché la nuova Costituzione potrebbe non avere l’art. 139. Se invece per legge costituzionale intendeva un cambiamento della Costituzione attuale, saremmo di nuovo nell’ambito dell’art. 138. Né maggior valore ha l’argomentazione centrale: «La Corte la invaliderebbe [la riforma presidenzialista] perché contraria allo spirito della costituzione vigente che, non a caso, esclude la possibilità di abolire la Repubblica. Un presidenzialismo modifica a tal punto quell’architettura da rendere indispensabile la completa riscrittura della Costituzione. La può fare soltanto una nuova Assemblea costituente ». Innanzi tutto, lo “spirito della Costituzione” è qualcosa di evanescente ed opinabile che non riguarda certo la forma repubblicana, positivamente consacrata nell’art. 139. Ma in realtà Scalfari forse non ha torto perché la Corte, essendo un organo costituito come si sa, potrebbe emettere un verdetto fantasioso e politicamente colorato. Se invece si discute da giuristi, che senso ha parlare di “abolire la Repubblica”, se si ha il presidenzialismo? La Francia è dunque una monarchia? E lo sono gli Stati Uniti, che questo Presidente ce l’hanno dai tempi di George Washington? Sono questi i massimi editorialisti che abbiamo in Italia?

giannipardo@libero.it


La toga rossa s’indigna (Felice Casson): “Bastava il buon senso”
di Mariateresa Conti
(da “il Giornale”, 10 marzo 2013)

Non è una rarità assoluta, perché spulciando qua e là qualche caso simile si trova, specie ai tempi di Tangentopoli. Ma non è nemmeno una prassi usuale, soprattutto se, come per Berlusconi, c’è un’attestazione di ricovero e se è la prima volta che l’imputato ricorre al legittimo impedimento per motivi di salute. E così, persino un’ex toga rossa come Felice Casson, senatore uscente Pd appena rieletto, invita gli ex colleghi al buonsenso, sottolineando l’eccezionalità del fatto che all’ex premier sia stata mandata la visita fiscale in ospedale.

Una bacchettata in piena regola, quella dell’ex toga ai magistrati milanesi: «La normativa – ha sottolineato Casson in un’intervista a Tgcom 24 – è molto chiara, e prevede che in casi di assoluto impedimento venga disposto il rinvio. Inoltre ci sono posizioni di buonsenso e quando una persona è ricoverata si tende a concedere il rinvio almeno per la prima volta. Anche in questo caso, da una parte il rispetto delle norme e dall’altro un po’ di buonsenso non avrebbero fatto male. Io l’ho mandata la visita fiscale quando c’erano imputati che cercavano di prendere tempo e rinviare ». In effetti le norme, come dice il senatore Casson, sono chiare. Ma il nodo è che tutto è affidato alla discrezionalità del giudice che ha la facoltà – non l’obbligo – di disporre la visita fiscale per accertare o meno l’«assoluta impossibilità di comparire » in udienza dell’imputato e del difensore, regolata dall’articolo 420 ter del codice di procedura penale. E va da sé che, tribunale che vai, decisione che trovi. E così, specie nei processi dell’era Tangentopoli, i precedenti abbondano. Ci sono passati in tanti: gli ex ministri Franco Nicolazzi e Antonio Gava, l’ex senatore di Forza Italia Cesare Previti, l’ex presidente della Roma, editore e senatore uscente Pdl Giuseppe Ciarrapico, giusto per citare i nomi più celebri. Persino per il leader del Psi Bettino Craxi si ipotizzò la visita fiscale ad Hammamet, anche se poi l’idea fu accantonata.

Il copione, 20 e passa anni dopo, è sempre uguale. L’imputato non si presenta al processo presentando una documentazione medica, il giudice o l’accusa sollevano perplessità sull’impedimento assoluto e chiedono l’accertamento. Memorabili, ai processi Imi-Sir e Sme, gli scontri con Previti. Pm era la stessa Ilda Boccassini che venerdì ha chiesto senza successo, al processo Ruby, la visita fiscale per il Cav ieri concessa invece dai giudici del processo per i diritti tv. «Sia portato in aula su una barella come si fa per gli altri imputati », sbottò una volta dopo che varie udienze erano saltate a causa di un intervento chirurgico all’anca dell’ex senatore. Visita fiscale toccò anche nel ’93 a Giuseppe Ciarrapico, che aveva chiesto il rinvio dell’udienza del processo sul contratto d’acquisto della «Casina Valadier » perché ricoverato in clinica per problemi cardiaci. Anche allora i medici fiscali risposero picche, impedimento «non assoluto », e l’udienza andò avanti. Toccò pure al defunto ministro dell’Interno Gava, dichiarato contumace nel ’95 in due processi (aveva presentato certificato medico) in seguito a visita fiscale. Andò meglio a Nicolazzi, nel ’92, al processo «carceri d’oro », visto che il medico fiscale riconobbe l’impedimento.

Quel che vale per gli imputati, vale anche per gli avvocati. E pure per i testimoni. Ne sa qualcosa il compagno di Ruby, Luca Risso, che per aver presentato certificato medico (aveva la bronchite) all’udienza in cui doveva deporre si è visto appioppare la visita fiscale e anche una multa di 500 euro.


Barbari
di Alessandro Sallusti
(da “il Giornale”, 10 marzo 2013)

Se dei presunti intellettuali, come è successo ieri dalle colonne di Repubblica, fanno un appello a un comico capo partito, allora vuole dire che il Paese è davvero alla frutta. Vedere questi tromboni di sinistra alla Barbara Spinelli in ginocchio davanti a Grillo è un vero spettacolo: ti preghiamo, ti scongiuriamo, sostieni Bersani, dicono in lacrime. Non hanno coraggio né dignità, sono uno scarto della società che ha solo paura di perdere per sempre. Via Berlusconi, avevano pensato, finalmente tocca a noi. E invece niente, si ritrovano appesi al pollice di Grillo strozzati nella loro boria.

Non meritano ascolto. Sono patetici, pensano di rappresentare un Paese che esiste solo nei loro salotti e nei loro giornali. E nelle Procure che assetate di sangue pensano di poter sparare il colpo alla nuca a Silvio Berlusconi. Quello che è successo ieri a Milano va oltre l’accanimento, siamo alla barbarie, a un Piazzale Loreto due punto zero. Berlusconi è malato in ospedale, fior di primari hanno certificato la sua impossibilità a presenziare all’ennesimo processo. Niente, i periti del tribunale hanno ammesso la malattia ma sostengono che se trasportato in ambulanza, l’ex premier può essere domani in aula. Lo vogliono finire anche fisicamente, da Napoli rimbalza la voce di una possibile richiesta di arresto sul caso dei parlamentari di sinistra passati al centrodestra. Se ci sarà una nuova campagna elettorale, come probabile, Berlusconi dovrà essere o morto o in galera, perché così hanno deciso. E non importa che nella sola ultima legislatura 161 parlamentari abbiano cambiato casacca per motivi più o meno nobili in base a un diritto costituzionale (non esiste il vincolo di mandato).

Non importa che Prodi non cadde per il tradimento di De Gregorio (il parlamentare passato col centrodestra e finito sotto inchiesta) ma per un’inchiesta giudiziaria di tale pm De Magistris, oggi sindaco di Napoli, che coinvolgeva l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella. Ormai la verità non conta, sono bestie che sentono l’odore del sangue del nemico braccato e ferito e hanno la bava alla bocca. Vogliono esibire il corpo di Berlusconi, ma cercano tutti noi, i nostri ideali e le nostre libertà. Sono dei pazzi, nel senso clinico della parola, vanno fermati. Possiamo farlo solo noi alzando la voce. Non so che cosa deciderà di fare Berlusconi. Il mio consiglio non richiesto è di non consegnarsi, non arrendersi. Se sarà necessario combattere, lo faremo. Per noi, oltre che per lui.


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Bart