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LETTERATURA: Il tempo in un sacco

23 Settembre 2007

racconto di Elisabetta Liguori

[L’ultimo romanzo di Elisabetta Liguori: “Il correttore”, Pequod, 2007]

Non l’aveva sentito arrivare. Appena sollevato il mento per cambiar posizione, Aldo era già lì, con la circonferenza bollente del bicchiere di cartone tra pollice e indice. Vedendolo, Eda aveva pensato che la sua fosse la faccia più comoda su cui posarsi in quel momento e aveva allargato la bocca in un’espressione di gratitudine lievemente ebete. La sala d’attesa era tetra: su ogni cosa c’era polvere in strati e odore marcio, come di legno sottile bagnato da lunghe piogge.

Seppure Eda non lo volesse quel caffè che il marito le aveva portato, andava bene comunque. Più che altro le voci. Era quello il problema. Eda sentiva tutto quel inglese striderle nelle orecchie, come fatto di cuspidi d’acciaio: voci alte, voci basse, sussurri, risate grasse, ma ne capiva il senso solo a tratti. Era felice? Quei suoni non l’aiutavano a capire se lo era. Il medico le aveva suggerito di liberare la sua felicità, per far posto al resto, per questa ragione poteva essere utile stabilire subito se era felice o meno. Avevano detto loro di attendere per qualche minuto, ma era più di un’ora, e il cielo dietro le finestre già mutava colore. Era abbastanza felice per la circostanza? I bambini che aspettavano sarebbero arrivati da destra o da sinistra del lungo corridoio, istoriato di manifesti sbrindellati e bacheche sgombre? Da che parte avrebbe dovuto guardare per non farsi cogliere di sorpresa?   In quale direzione avrebbe dovuto dar sfogo alla sua felicità?
Nel NYPD non erano poi così grassi come aveva creduto; scivolando come navi da crociera, i poliziotti blu non riempivano tutto lo spazio. Restava il vuoto e nel vuoto tutte le domande. Qualcuno tra quelli, un John, un Ned, un Rod, una roba similmente breve, aveva telefonato trentasei ore prima per dire loro di prendere un aereo. Avevano obbedito. E, arrivando a Manhattan, avevano trovato un autunno algido e nuovo, e il rumore forte delle foglie sulle strade. Sempre meglio comunque del maggio in cui tutto era cominciato.
In troppi sapevano che Etta e Matteo erano scomparsi a maggio, inghiottiti dalla subway mentre erano diretti alla Public Library: forse sì, forse no, la stampa, l’orrore disciolto nel tempo, le interviste, tutte quelle loro foto vecchie come la luna, seminate in giro, eppure nessuno come loro sapeva di quel maggio. Era stato un maggio elitario. Nessuno sapeva come era stato aspettare, poi tornare, poi ripartire. Con l’oceano in mezzo ogni volta. Quanto era durato quel maggio e quanto ancora durava, nessun lo sapeva veramente. In agenzia viaggi le avevano detto che New York a maggio era splendida. Lo era. I bambini arrivando non avevano avuto paura. Neppure un po’. C’erano stati quei primi splendidi giorni tra un semaforo e l’altro, quando avevano preso le stelline fluorescenti da FAO Schwarz Toys sulla Fifth Avenue e poi le avevano provate in albergo, spegnendo la luce. Avevano riso al buio, sguaiati, con le stelle sparse sul copri piumino azzurro che s’era trapuntato e riflesso fin oltre i vetri della grande finestra. Etta, nonostante i suoi nove anni, era rimasta lì in piedi a guardare a lungo, mentre Matteo, più piccolo della sorella di tre anni, s’era stufato subito. Era stato quello il primo momento di autentico stupore. Non i grattacieli, o i semafori ingombri di gambe, o l’Empire State Building, neppure il vapore nelle strade. Solo le stelline colorate in albergo. Anche gli enormi tasti del pianoforte che suonavano davvero sotto le loro scarpe, entrando in quella goduria di giocattoli a tre piani, edificata ai piedi del Plaza, ma molto meno delle stelline, in fondo. New York non stupisce, infatti, le avevano detto. Riempie ma non stupisce. Così era stato anche per loro.

Poi era accaduto: una specie di lampo negli occhi e, dopo quei primi due giorni di vacanza, già Etta e Matteo non c’erano più. Già non erano più con mamma e papà. Già erano in un altrove inimmaginabile, seppure ancora parte di loro. Una parte divenuta invisibile, ma ancor più invadente, dopo lo strappo. Già Eda era una madre del tutto diversa, come chi abbia subito un trapianto del cervello: debole e incrinata, piena d’odio verso se stessa.
Se il tempo che passa ordinario è come lo strato superiore dell’epidermide di un individuo, allora il tempo dell’assenza, tra quel maggio della scomparsa e l’ottobre del ritrovamento, poteva dirsi simile ad una vescicola. Ad Eda sembrava di poterla toccare, premerne la superficie smorta e sentire che era calda, infetta, diversa per materia. Dal momento in cui avevano comunicato, a lei e suo marito, il ritrovamento dei bambini, la vescicola del tempo aveva preso ad ingigantire, piuttosto che guarire. Era divenuta una sacca gonfia. I bambini, avevano detto, erano stati trovati in strada all’ora di punta. Come cani. Avevano detto i loro nomi ad una signora con i cartoni della spesa tra le braccia e quella li aveva portati presso la stazione di polizia di zona. Inglese, italiano, forse soltanto mugolii, faccette da bimbo triste, mani nelle mani, sull’asfalto il traffico, la tachicardia dei semafori. Pochi passi a piedi in silenzio, quei tre, ed erano venuti alla luce. Da quel momento, le avevano raccontato, i due bimbi avevano smesso di parlare. Nessuno sapeva perché. Non avevano più parlato dopo l’incontro con la donna delle buste e questo aveva reso ancor più difficile ricostruire gli eventi.
C’era solo da aspettare, quindi.
Il marito di Eda, nell’indugio, le stava davanti coperto a momenti dal fumo del caffè e anche lui, come lei, si guardava intorno con le spalle tonde. Una gioia deforme e rappresa in chiazze gli sfigurava il viso.

  • – Stanno arrivando, mi sa. Che dici, ci spostiamo da qui? Dicono che dopo ci sarà una conferenza stampa con il capo dipartimento e l’ispettore dell’unità cinofila. Tu ci vuoi andare? Eh? Tu. Vacci tu.

Aldo parlava solo italiano. Si limitava ad indicare con un braccio teso quello che vedeva, quello di cui aveva bisogno. Solitamente era Eda a tradurre all’esterno ogni suo desiderio. Ora, però, le parole la infastidivano. Tutte. Non venivano fuori, nessun idioma le muoveva. Lei avrebbe voluto soltanto tornare in albergo e respirare più piano. Nell’attesa, magari, riflettere sulla donna con le buste di cartone. Avrebbe voluto sapere qualcosa di più su di lei: se giovane, se vecchia, come era la sua voce; voleva vedere la stessa faccia che avevano visto il suoi figli, il volto femminile attraverso il quale erano passati per ritornare a lei, come fosse stato un utero.

  • – Ci sarà?
  • – Chi?
  • – La donna.
  • – È importante?
  • – Speriamo.

Un improvviso trambusto li fece impietrire. Da sinistra, arrivava della gente in gruppo. Avanzavano pesantemente, così che i loro passi producevo sul parquet un rumore minaccioso, da ballerini in mandria. Più piccoli del resto, ai due lati di una donna in divisa che camminava a gambe larghe, c’erano i bambini. S’apprestavano anche loro. Da lontano sembravano carichi di novità cromatiche. La forma invece no, quella era familiare: dondolavano, strisciando le scarpe sul pavimento e irrigidendo il collo, come in tante altre circostanze. Erano sagome così tanto consuete da stracciare il cuore di Eda come fosse di carta.

Il maschietto fece un gesto con la mano sinistra nella loro direzione, senza staccare il braccio dal giaccone rosso. Un giaccone mai visto prima. Dall’ingresso in scuola elementare, l’anno prima, Matteo aveva preso a salutare così. Senza alcuna enfasi. Senza consapevolezza, come chi si trovi in un luogo diverso dal solito senza aver capito come, e ne chieda scusa a se stesso e agli altri. Con buona discrezione. Eda lo lasciava sulla scalinata principale della scuola la mattina al presto, e se si girava a guardarlo, lui la salutava così, muovendo poco le dita con un’ombra di distratta malinconia. Quasi le chiedesse scusa di averla abbandonata, ma non troppo. Una volta, in giro con la famiglia per la festa patronale, lui s’era perso. Aveva incontrato per strada la sua amica del karatè, Bella Veronica, come la chiamava lui, e, scambiando figurine e lazzi, insieme avevano scelto di girare l’angolo della strada al momento sbagliato, e dopo quello, un altro angolo; infine avevano percorso un frammento stretto di marciapiede, senza accorgersi di nulla. Solo dopo un po’ s’erano resi conto che la strada era diventata nuova e deserta per entrambi. Erano quindi tornati indietro di corsa a rituffarsi nella gente. Invano. Adesso siamo nei guai, aveva detto Matteo, senza scomporsi, a Veronica, che invece aveva cominciato a piangere subito. Infine s’erano accostati a qualcuno, smoccolando. Una faccia tra le altre scelta a caso, a cui avevano chiesto di essere riportati al banchetto dello zucchero filato. Arrivando, al seguito del tizio che li aveva accompagnati, e vedendo tutti gli altri stravolti, Matteo aveva salutato alla stessa maniera. E tutti i presenti s’erano detti con sollievo che una cosa del genere non sarebbe successa mai più.
Mentre ora Matteo avanzava, Etta stava ferma. I piedi le si muovevano in sincrono con quelli della poliziotta, ma c’erano tutti gli elementi di un’illogica fissità in quel suo piccolo corpo. A partire dai capelli. Non si muovevano: erano unti e pesanti e non si muovevano, le restavano poggiati sulle spalle come plastica dura impigliata ai bottoni della giacca. Sconosciuta anche quella.
In breve li ebbero davanti, con l’aria che si riempiva di sorrisi e braccia e peli di barbe diverse.

Etta aveva la pancia. Abbracciandola Eda sentì che premeva contro il suo ventre, dura. La strinse più forte, per contrastare ogni apparente resistenza, e poi la annusò. La bimba aveva dietro le orecchie un odore strano, come di ferro arrugginito misto a fumo di sigaretta. Le guardò il collo, premendoci sopra il mento. Come una pianura di cipria, era scivoloso, pieno di pilucchi teneri e segni appena visibili. I buchi alle orecchie, invece, erano vuoti, secchi, arrossati. Chissà da quanto non metteva più i suoi orecchini d’argento a forma di mezza luna gialla, quelli che la zia Rosa aveva comprato in un negozio in via Cola di Rienzo la volta che era stata a Roma per la morte del Papa e che Etta non aveva mai più tolto da quel momento? La bambina aveva la mania di toccarsi di continuo le orecchie e teneva molto ai suoi orecchini. Aveva preso questa abitudine sin da piccolissima. Invece del ciuccio, lei strofinava il lobo sinistro tra pollice e medio, stringendo le labbra a cuore e succhiando aria, per ore. Così richiamava il sonno a sé. Si spegneva con difficoltà quella bambina sempre euforica, è vero, ma il suo lobo sinistro era il tasto che troncava di netto elettricità all’intero meccanismo. Gli orecchini erano per lei una forma di conservazione. Ora aveva entrambi i lobi screpolati, prosciugati, consumati. Se la paura più profonda di Eda era non riuscire a trovare un mezzo utile ad aprire la vescicola del tempo e guardarci dentro, quel lobo smozzicato rappresentava di certo un’occasione in quel momento. Forse si poteva partire da lì.

  • – I tuoi orecchini, piccola?

Etta fece spallucce, senza smettere di fissare sua madre. Come uno spillo sulla vescicola del tempo interrotto, con gli occhi premeva leggera, senza bucare. Poi era ripreso l’abbraccio.

Tutto questo mentre Aldo se ne stava più in là con Matteo sulle ginocchia, e gesticolava. Sembrava cercasse riparo e s’animasse come uno spaventa passeri solo per allontanare da loro l’altra gente. Magro, lungo anche da seduto, e assurdo come Don Chisciotte, Aldo sventolava gli arti sulla testa spettinata di Matteo (che ne seguiva rapito ogni rotazione acrobatica con il collo storto), mentre gli raccontava una specie di favola sconclusionata, al fine di riempirne il silenzio.
Il tempo nel sacco s’allargava in quel rumoreggiare insignificante, piuttosto che prosciugarsi.
Dove finiscono i bambini quando scompaiono? Tante volte davanti al telegiornale, Etta e Matteo s’erano immaginati una specie di lavandino sporco dal cui tubo di scarico defluiva il gorgo della gente perduta. Qualcosa di sdrucciolevole e rapido, ma complesso, che non fosse propriamente la morte, ma che della morte aveva lo stesso rumore misterioso.
Riconoscere la donna, quindi, in mezzo a tutti quei sorrisi di soddisfazione istituzionale, i cellulari che squillavano marcette nuziali, i silenzi gonfi e le braccia mulinanti, non fu facile.
La donna del ritrovamento se ne stava discosta. Era lei di certo. Eda non sarebbe stata in grado di spiegare perché ne fosse certa, ma quella donna vestita di verde, con il basco nero obliquo e i guanti di pelle, era la donna che lei stava cercando. Il viso non aiutava, non era un indizio. Semmai il basco. Le stava così storto sulla faccia, da coprirne metà. Era largo, lucido, forse mai messo prima di allora, ma scelto giusto per l’occasione. Un segno di cura smisurata verso il momento. E la borsetta pure: una di quelle piccole, di raso, col manico rigido; una di quelle che le donne italiane usavano di rado, perché incontinenti. Del tutto inopportuna. E perché i guanti di pelle nera?

La spiegazione stava nell’insieme. La distonia dell’insieme era la chiave interpretativa. Il segno inequivocabile. Sì, una donna americana d’accordo, gente diversa, si era detta Eda, ma perché mettere i guanti, la borsa piccola, il vestito di panno verde sotto il ginocchio, e il basco alla francese? Era chiaro che la donna del ritrovamento era lei e che si era bardata a quel modo sospettando che la sua presenza sarebbe stata notata. La donna era di colore, una cinquantina d’anni, soprappeso, antica come una fotografia sul vecchio jazz.

  • – E’ lei?

Interrogata con un sussurro dalla madre, Etta si limitò a voltarsi verso l’altra donna, a guardarla per un attimo senza cambiare espressione, e poi a far cenno di sì col capo.
Una di fronte all’altra.
Quella donna parlava un inglese fatto di niente ed Etta se ne sentiva lontana ugualmente.
Quella, fuori dal tempo, custodiva l’ultimo segreto dietro una coltre di mossette di maniera ed esclamazioni gutturali ed Eda sentiva irrefrenabile la voglia di odiare l’America. Così come fanno in tanti. La voglia di concentrarsi su quel sentimento facile e liberatorio, piuttosto che annaspare sorridente in un’ansia oleosa e densa. Con il collo secco della figlia appena ritrovato, ancora stretto nell’incavo dell’avambraccio, Eda cercava di odiare l’america e la sua diversità oceanica, mentre l’altra donna continuava a sorridere a bocca aperta e ad inchinarsi.
Erano donne incredibilmente diverse tra loro,   simili a foto affiancate al rovescio.
New York non capiva: stava ingoiando tutti i presenti, senza che nessuno se ne rendesse conto veramente. Conoscere l’inglese era diventato fondamentale, lo dicevano tutti, ma Eda non aveva mai valutato fino in fondo quanto potesse rivelarsi indispensabile quella lingua per mettere al mondo dei figli e poi farli crescere bene. Sono cose che uno non sa prevedere, a cui nessuno ti prepara. Sarebbe stato meglio piangere. Sarebbe stata forse la cosa più semplice e normale da fare. Piangere in italiano. Ma Eda non poteva farlo in quel momento, perché da destra sentiva Aldo che imprecava di suo. Fortissimo. Non si poteva aggiungere suono ad altro suono, confondere gioia e dolore, il vecchio col nuovo. Confondere ogni cosa prima di averla salvata.

  • – Ma un cazzo di interprete, no? Avremo diritto pure noi a capirci qualcosa di tutta questa storia folle. E diamine! E i diritti civili, la globalizzazione e tutto il resto delle minchiate? Siete voi i criminali, mica noi, porca miseria! Tutte queste autorità, e nessuno che ci parli in modo comprensibile? ma a quale ambasciata dobbiamo rivolgerci per trovare un cazzo di qualcuno che parli italiano come si deve? uno solo, mica mille, dico io?


Aldo faceva quello che poteva, povero lui. Il trovarsi in un paese straniero lo faceva sentire strambamente protetto, come a cantare a squarciagola nudo sotto la doccia, nascosto da una tenda di plastica opaca. Lontano da famigliari e amici perdeva vergogna. La lingua lo isolava, l’oceano lo impermeabilizzava, la rabbia lo liberava.. Da solo in mezzo alla gente.
Sentendo le sue urla, Eda s’era spaventata (che gli venisse un colpo, lì, pubblicamente nel dipartimento generale?); gli aveva fatto cenno di tacere, mettendosi il dito sulla bocca, pur cercando di non farsi notare troppo da tutta quella gente che le stava innanzi come un muro. Ma niente.

  • – Mi scusi signora, miss Burns, eccola qui, miss Burns, sì, lei, le vorrebbe dire due parole, se possibile.

Mentre Eda cercava di darsi un tono, le si era avvicinata con discrezione una signorina corta, corta, con gli occhiali tondi, seguita da quella col basco, come da un enorme cane verde al guinzaglio. Curioso, alla fine, basta gridare un po’ e le cose vengono fuori, anche a NYC, aveva subito pensato. La signorina era l’interprete e parlava un italiano da bambola Mattel, una di quelle carine col disco dietro la schiena e le pile. Eda tirò un sospiro rumoroso, che fece sorridere la signorina con gli occhiali, e si predispose all’ascolto. Del resto erano ore che aspettava di parlare, ascoltare, capire o, in alternativa, fuggire.

  • – Miss Burns dice che è felice per voi.
  • – Grazie. Ma io avrei bisogno di un colloquio privato.
  • – Privato? Molto privato?
  • – Sì, molto privato.
  • – Miss Burns dice che non ha molto da dire.

Come: niente da dire? Ma, allora: se non il basco, chi? Chi poteva raccontarle qualcosa di utile? Chi poteva aiutarla a ritornare a casa? Eda voleva conoscere le parole. La parole precise. Quelle usate da Etta e Matteo, per   tornare a casa. Ci sono parole che portano indietro e altre che portano in avanti. Altre che deragliano, altre ancora senza alcun senso. Alcune involontarie e casuali, altre provocate e mirate. Parole che aprono, parole che chiudono. Una fra queste. Etta, almeno lei che a casa stava sempre a chiacchierare, doveva aver pur detto qualcosa alla tizia col basco, qualcosa che somigliasse ad un perché, ad un come, ad un dove. Anche solo ad una smorfia italiana.

Fu in quel momento che Etta sorrise. Mentre nulla era chiaro o facile, Etta sorrise. Così il nodo da marinaio senza rotta, che le intrecciava l’anima ad un tempo oscuro e assurdo, lasciò sfuggire un bandolo. Non era una parola, ma poteva andar bene comunque, per incominciare.
La donna col basco gorgheggiava uno strano gospel, piena di gommosa pietà; l’interprete con gli occhiali si scusava e mostrava il tesserino; Aldo in fondo alla sala straparlava degli psichiatri in Italia, calcolando a voce alta il costo complessivo di un periodo di terapia intensiva per quattro persone presso un centro specializzato; Matteo si toglieva il giaccone rosso e lo buttava per terra, tutto questo mentre Etta sorrideva.
Fu un sorriso precario, con alcuni buchi nel mezzo in corrispondenza degli incisivi. Un sorriso che durò qualche secondo e poi si spense.

  • – Mamma, ho fame.

Seguì una pausa, senza il sorriso.

  • – Una cosa buona, però, io voglio. Pure per Matteo.

Poi nulla, a parte una collera tutta nuova. Bastò quella allegria restituita a pezzi e, per la prima volta dopo mesi, Eda si ritrovò a contabilizzare sorrisi, pause e silenzi, con risultati parziali e incerti, e a pensare che in fondo quella era stata solo una vacanza. Fu il suo primo pensiero certo. Dopo il quale pensò anche che al momento non c’erano altre donne altrettanto importanti, se non lei stessa, a cui fare domande, né parole che non fossero un lusso eccessivo. E si quietò.


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Bart