LETTERATURA: I racconti del dottore: Il transatlantico
5 Novembre 2007
di Dino la Selva
[Da “San Concordio Cronache e figure†Ed. Maria Pacini Fazzi 1997]
In Via Guidiccioni, 50 metri prima del semaforo, esiste ancora una strana costruzione che i vecchi Sanconcordiesi chiamano col bizzarro nome di “transatlantico”.
Non la si nota facilmente passando dalla strada perché un po’ arretrata, isolata da essa da un alto cancello di ferro battuto e da un cortile, adibito un tempo a deposito di materiali edili ed ora trasformato in officina di meccanico d’auto. Ma a mettersi in osservazione sul marciapiede opposto la si vede bene, alta e lunga, rivestita in parte da assi di legno scuro, in parte da un intonaco rosa sbiadito e scrostato dalle intemperie, con le finestrelle tutte in fila come gli oblò di una nave, ombreggiata da una rosa rampicante e da una vite americana rigogliose e incolte che d’estate la nascondono quasi completamente alla vista. Sul tetto i tre alti comignoli che hanno dato origine al nome fantasioso.
  Fino a non molti anni fa era il “nido d’amore” di due vecchi amanti: il signor Fiorenzo e la signora Ada.
  Vi fui ammesso per la prima volta una mattina di fine inverno quando, al termine dell’Ambulatorio, il signor Fiorenzo venne a chiedermi di visitare la Signora per una fastidiosa bronchite; da allora divenni il loro medico curante e non mi mancarono le occasioni per frequentare la casa. Vi si accedeva da una porticina di legno grezzo dipinta di marrone che passava quasi inosservata a fianco del grande cancello sempre chiuso. Una vocina femminile roca, un po’ tremolante chiedeva da un’invisibile finestrina “Chi è?” Dopo un po’ di tempo il portoncino si apriva con uno scatto. Uno stretto vialetto muscoso incassato fra due alti muri, una scala di assi cigolanti ed una porta di vetri colorati vagamente Liberty concludevano il percorso. Varcata la porta, due o tre stanze dal soffitto basso e dal pavimento a parquet opaco e malandato. Nel salone luminoso ma polveroso, un paio di vecchie poltrone, un abat-jour di quelli alti a stelo, un’etagere di libri di cultura ottocentesca: Leopardi, Nietzske, Shopenhauer, un lampadario di vetri di Murano con ragnatele. Sulla comodità e gli svariati pregi della casa, come su diversi altri argomenti, le opinioni del signor Fiorenzo e della signora Ava divergevano notevolmente. “Modesta ma adatta ai miei gusti e alle mie inclinazioni”, mi aveva detto il signor Fiorenzo parafrasando l’antico verso latino e descrivendomi con entusiasmo tutti gli accorgimenti e le innovazioni che vi aveva profuso nel costruirla, in particolare andava orgoglioso delle pareti a intercapedine con tutto un sistema di paratie e di tiraggi che le permetteva di mantenersi asciutta e calda d’inverno, fresca d’estate. “Una topaia!” l’aveva definita senza mezzi termini la signora Ava sfogandosi un giorno con me; e poi rincarando la dose: “Fiorenzo è avaro!!… E’ ricco, sa? Ogni mese riscuote milioni in affitti, è proprietario dei più begli appartamenti della città … ha costruito i più bei palazzi di Lucca, … lo chiamano l’Ammannati di Lucca! Potrebbe vivere nella dimora più sontuosa, nei migliori alberghi… e invece per tirchieria si è ridotto a vivere in questa topaia!” Era una signora sulla settantina, dalle ginocchia vare e dal respiro un po’ ansimante. Aveva acquosi occhi celesti, capelli ondulati di un colore fra il bianco e il biondo ed indossava lunghissimi ed ampi cappotti stile anni ’50 che le arrivavano alle caviglie. Giovanissima aveva sposato un egiziano ed era andata a vivere in quel paese. Alla morte del marito era tornata a Lucca con i figli ed aveva conosciuto il signor Fiorenzo, marito annoiato e svagato. Aveva un carattere melanconico, tendente alla depressione e alla lamentela. “Fiorenzo è egoista, sa? E’ un solitario e un egocentrico. Non che sia cattivo, per carità , non è mai in casa, mai quando avresti bisogno di lui!… Prende la bicicletta e se ne va in giro a giornate, chissà dove. E quando è in casa è capace di starsene zitto a ore senza mai rivolgermi la parola. E’ uno di quegli uomini che non sono fatti per il matrimonio. Fece bene la moglie a piantarlo!”  Â
Il signore chiamato in causa era un secchione alto e magro, dalla faccia lunga, gli occhi chiari stranamente ridenti e ingenui, calvo con una corona di riccioloni bianchi attorno alla nuca e alle tempie e grandi mani sempre festosamente gesticolanti. Era stato un grosso impresario edile prima della guerra ed aveva portato a termine opere importanti, di notevole decoro ed eleganza. “Quando finii il Liceo – raccontava – mio padre mi iscrisse al Politecnico di Torino. Era a quei tempi una scuola prestigiosa, dalla quale uscivano tutti i più grandi ingegneri ed architetti d’Italia. Ma per l’umidità e il freddo di Torino io mi ammalai di polmoni e dovetti tornare a Lucca. Mio padre chiamò i più grandi medici di quei tempi, fra cui il famoso Grocco. Io me lo ricordo, sa? Era un omino piccolo piccolo, tutto vestito di nero, col tubino e la giacca con le code. Per percuotere il torace non usava le dita come voi medici di adesso; tirava fuori dal taschino una palettina d’argento e un martelletto di gomma; poggiava la palettina sul torace e ci picchiava sopra col martelletto. Insomma, guarii, ma al Politecnico non ci volli più tornare”. D’inverno indossava un lungo cappottone marrone ed un ancor più lungo sciarpone bianco. Fumava sigarette di trinciato  che si arrotolava naturalmente da sé con le lunghe mobilissime dita. Complimenti! Complimenti!”, esclamava accompagnandomi alla porta quando avevo terminato la visita, agitando le sue allegre manone. Non capivo bene se i complimenti erano diretti alla mia opera professionale o al mio stato di salute.
  Una sola cosa accomunava spiritualmente i due amanti: una pessimistica, dolente, quasi disperata concezione del mondo e della condizione umana. Un giorno trovai la signora Ava che leggeva il Corano. Mi sembrò cosa strana e le chiesi: “Lei è Musulmana?” “Noo! – mi rispose – Lo leggo per curiosità ”, “Del resto – proseguì chiudendo il libro – in un certo senso le religioni sono tutte uguali: sembrano fatte contro l’uomo, non in suo favore. Il Cristianesimo ad esempio dice che l’uomo è cattivo a causa del peccato originale. Lei ci crede? Io non credo che l’uomo sia cattivo: è solo infelice”. In un’altra occasione il signor Fiorenzo, sprofondato in una poltrona, alzò la testa dalla lettura di non so quale filosofo ottocentesco e mi chiese a bruciapelo: “Perché, lei crede davvero che ci sia  un’altra vita dopo di questa, che ci siano l’Inferno e il Paradiso, il premio e la pena eterni? Ahh!… Ahh!… Ahh!… ed era una risata lugubre e dolorosa. In realtà il Vuoto Eterno lo rendeva terrorizzato e disperato.
Durante un inverno le condizioni di salute della signora Ava peggiorarono piuttosto rapidamente; alla solita bronchite cronica riacutizzata si aggiunse uno scompenso cardiaco che divenne in breve irreversibile, ed essa morì in una Casa di Cura cittadina in una grigia giornata di febbraio. Il signor Fiorenzo, rimasto solo, divenne sempre più trasandato e stralunato finché una sua figlia abitante in una città vicina venne a prelevarlo e lo portò a casa sua. Da un annuncio funebre, alcuni anni dopo, appresi che era morto alla bella età di 95 anni.
Mi è dispiaciuto qualche giorno fa vedere dei lavori di ristrutturazione al vecchio Transatlantico; i rampicanti sono stati asportati, le mura intonacate, le finestrelle allargate. Forse diverrà un bell’appartamento moderno con i pavimenti di cotto, il bagno con le piastrelle di maiolica fino al soffitto, la cucina all’americana, il riscaldamento a metano. A me piaceva più prima, con il suo carico di una forse un po’ gretta ma gentile, dolente umanità .
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