Imbarazzo costituzionale16 Gennaio 2013 di Davide Giacalone Le sentenze della Corte costituzionale dovrebbero risolvere questioni di diritto, usando il parametro della coerenza con la Costituzione. E’ naturale che da una questione di diritto discenda la soluzione di una concreta vicenda giudiziaria. Nel caso delle intercettazioni telefoniche, che la procura di Palermo aveva raccolto coinvolgendo il presidente della Repubblica, però, sembra che il caso concreto abbia prevalso sull’indicazione generale. O, comunque, le 49 pagine di motivazioni, con cui la Corte spiega perché quelle intercettazioni vanno subito distrutte, lasciano non pochi problemi aperti. Capita, inoltre, che parlamentari e governanti vengano intercettati senza alcuna autorizzazione specifica, ma in base al fatto che si stava intercettando chi parla con loro. Dice ora la Corte: «se vi è divieto assoluto d’intercettazione ‘diretta’ (…) sarebbe ‘naturale’ che sussista un divieto (…) » anche per quella indiretta. Strano uso dei verbi e del concetto “naturale”. E’ vietato o no? Sì, dice la Corte. Ma se è vietato per il presidente dovrebbe essere vietato anche per gli altri, visto che non vi è alcuna legge che distingua, né base costituzionale per distinguere (fuori dall’esercizio delle funzioni presidenziali). L’impressione, insomma, è che queste intercettazioni vanno alla distruzione, ma il problema no. Nelle motivazioni, assai più che nel dispositivo (già conosciuto e commentato), si coglie l’imbarazzo in cui s’è trovata la Corte, dato che a fronte di un comportamento certamente illegittimo della procura palermitana hanno dovuto esaminare un ricorso relativo non al principio, quindi destinato a fissare paletti ineludibili, ma a distruggere specifiche conversazioni, inserite in uno specifico procedimento penale. Non una bella pagina, per nessuno. La procura, con il candidato Antonino Ingroia in testa, è bocciata in diritto e pesantemente ammonita circa l’uso del potere d’indagine (che è poi il potere delle toghe all’assalto della politica). Il Quirinale ne emerge come un garante che s’è ribellato quando toccato direttamente, ma che non seppe cogliere il vulnus costituzionale allorquando altri poteri sono stati intercettati e massacrati. La Corte ne emerge come un arbitro in affanno, tenuta a una sentenza il cui opposto sarebbe stato non solo inimmaginabile, ma micidialmente destabilizzante. E quando l’arbitro deve avere di simili preoccupazioni è segno che la partita, da tempo, è degenerata. La corte incostituzionale Siamo accusati di non rispettare la Corte costituzionale. Ma ci dev’essere un equi voco: da ieri, dopo il deposito delle motiva zioni della sentenza sul conflitto di attribu zioni Quirinale-Procura di Palermo, alla Con sulta non portiamo solo rispetto, ma anche uno sconfinato affetto. Intanto per l’umana comprensione che si deve a 15 insigni giuristi costretti a rovinare intere vite e onorate car riere con l’atto eroico, quasi soprannaturale, di motivare una sentenza immotivabile, spie gare concetti inspiegabili, sostenere tesi in sostenibili. Eppoi per l’avallo davvero inspe rato che danno alla solitaria campagna del Fatto Quotidiano affinché Napolitano divulghi il contenuto delle sue quattro telefonate con Mancino. La loro “propalazione” – conferma la Corte – “sarebbe estremamente dannosa non solo per la figura e per le funzioni del Capo dello Stato, ma anche, e soprattutto, per il sistema costituzionale complessivo che do vrebbe sopportare le conseguenze dell’acuirsi delle contrapposizioni e degli scontri”. Dun que, par di capire, i giudici costituzionali san no qualcosa che noi comuni mortali non sap piamo: Napolitano disse a Mancino cose che, se si venissero a sapere, aggraverebbero “le contrapposizioni e gli scontri” (fra chi e chi? Mistero) e ne danneggerebbero non solo “la figura e le funzioni”, ma addirittura “il sistema costituzionale complessivo”. Roba grossa, dunque. Chissà da chi l’hanno saputo: da Mancino? Da Napolitano? Dall’uccellino? Mi stero. Noi, che fosse roba seria e grave, l’a vevamo intuito quando il consigliere D’Am brosio, intervistato dal nostro Marco Lillo, si lasciò sfuggire di non poter rivelare ciò che Napolitano gli aveva chiesto di fare per as secondare le lagnanze di Mancino contro i pm di Palermo, perché erano parole e atti “coperti da segreto” e “immunità”. Altro che auguri di Natale, convenevoli, scambi di cortesie e chiacchiere in libertà fra due vecchi amici. “La semplice rivelazione ai mezzi di informazione dell’esistenza delle registrazioni costituisce un vulnus che dev’essere evitato”: che vulnus po trebbe mai creare sapere che Napolitano par lava con Mancino, se non si fossero detti nien te di che? Nel tentativo disperato di affermare un’immunità totale del Presidente, manco fosse il Re Sole, mai prevista dai padri co stituenti, i giudici costituzionali non fanno che aumentare la curiosità dei cittadini sul contenuto delle telefonate. Che sarà soddi sfatta solo quando Napolitano o Mancino si decideranno a svelarci che cosa si dissero, mentre cadeva il governo Berlusconi, nasceva il governo Monti e il Quirinale trovava il tem po d’immischiarsi nelle indagini sulla tratta tiva Stato-mafia, mettendo in mezzo il super- procuratore Grasso e due Pg della Cassazione. Qualcuno dirà che affermare che la Consulta conosce il contenuto di quelle telefonate è pu ra illazione. Ma è una deduzione e una spe ranza: se la Consulta non lo conoscesse, come farebbe a scrivere che, parlando col privato cittadino Mancino, Napolitano esercitava le sue “funzioni”, non importa se “formali o in formali”? Purtroppo nessuna norma costitu zionale od ordinaria prevede, fra le funzioni formali o informali del capo dello Stato, le interferenze in un’indagine giudiziaria. Anche perché, altrimenti, bisognerebbe affermare che anche quando il barista del caffè Gam-brinus di Napoli gli offre un ginseng e lui risponde “no grazie, preferisco un caffè”, Na politano sta esercitando una funzione “infor male”, e dunque la risposta “no grazie, pre ferisco un caffè” è coperta da segreto e i gior nali che l’hanno riportata hanno messo in pe ricolo non solo “la sua figura e le sue funzioni”, ma soprattutto “il sistema costituzionale com plessivo”. Innescando fra l’altro un pericoloso “acuirsi delle contrapposizioni e degli scon tri”. Fra il ginseng e il caffè. Quei paletti fissati dalla sentenza In poco più di cinque mesi la Corte costituzionale ha risolto in via definitiva il conflitto sorto fra Presidenza della Repubblica e Procura di Palermo: con le motivazioni depositate ieri la Corte spiega perché la Procura non avrebbe dovuto neppure valutare i colloqui del Presidente della Repubblica intercettati indirettamente, mentre avrebbe dovuto operare subito per la loro eliminazione, senza coinvolgere nel procedimento alcun estraneo alla magistratura. La Corte, a riprova di una larga convergenza di valutazioni nel collegio, è molto netta nelle affermazioni e chiara nelle argomentazioni; ciò forse perché occorreva pure rispondere a qualche eccessiva argomentazione difensiva o a vivaci campagne giornalistiche, arricchite pure da arzigogoli pseudo-giuridici. Considerata la diffusione di ardite ricostruzioni sulla posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, vale la pena di sintetizzare il convincente andamento argomentativo della Corte. Si parte dalla constatazione che il Presidente della Repubblica svolge funzioni essenzialmente finalizzate a permettere il buon funzionamento del complessivo sistema istituzionale, in particolare facendo superare momenti di eccessivo contrasto fra i soggetti politici o di smarrimento della consapevolezza dei massimi valori accomunanti. Ma questa funzione di moderazione e di stimolo nei confronti degli altri poteri non si esprime solo attraverso alcuni poteri presidenziali formalizzati, ma anche attraverso la continua creazione di «una rete di rapporti » con i diversi soggetti istituzionali e sociali: e queste attività di raccordo e di influenza «possono e devono essere valutate e giudicate, positivamente o negativamente, in base ai loro risultati, non già in modo frammentario ed episodico, a seguito di estrapolazioni parziali e indebite ». Ma allora «il Presidente della Repubblica deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni… ». La normale riservatezza sull’attività presidenziale è quindi un presupposto ineliminabile della figura presidenziale, salve le sole espresse eccezioni contenute nelle fonti costituzionali. Ed, in effetti, l’art. 90 della Costituzione pone le premesse per eccezioni del genere, ma solo in riferimento ai casi gravissimi dell’alto tradimento e dell’attentato alla Costituzione; se poi la legge attuativa di questa disposizione costituzionale prevede solo per questi gravi delitti alcune forme di intercettazione delle conversazioni presidenziali, tutto ciò conferma la generale riservatezza su quanto il Presidente afferma in conversazioni non pubbliche. Da tutto ciò deriva che se organi giudiziari vengono casualmente in possesso di conversazioni del Presidente della Repubblica, non devono «portare ad ulteriore conseguenza la lesione involontariamente recata alla sfera di riservatezza costituzionalmente protetta »: e gli esempi portati nella sentenza si riferiscono a molto discutibili vicende concrete intervenute, come la valutazione del contenuto delle conversazioni o addirittura la notizia data ai mezzi di comunicazione che in determinate indagini vi sono registrazioni di conversazioni dal Presidente della Repubblica. Quanto poi alle modalità per distruggere in modo del tutto riservato il materiale che non avrebbe dovuto essere intercettato, la Corte costituzionale motiva abbondantemente l’utilizzabilità di una disposizione del Codice di procedura penale che la Procura aveva escluso, ma che già permette la distruzione di alcune conversazioni illecitamente intercettate. Anche a questo proposito – questo mi sembra assai significativo – la Corte invita i giudici della Procura a non chiudersi strumentalmente in interpretazioni restrittive della legislazione, allorché altre possono essere le vie di risoluzione dei problemi, alla luce dell’insieme dei principi costituzionali. Auguriamoci davvero che questa sentenza rassereni il contesto surriscaldato dal momento elettorale e si dimostri ormai superato l’antico proverbio secondo cui «non c’è peggior sordo di colui che non vuol sentire ». Sentenza Consulta, Ingroia: “A rischio equilibrio poteri dello Stato” La sentenza della Consulta sul conflitto tra il capo dello Stato e i pm di Palermo, che conferma l’inviolabilità assoluta delle conversazioni del presidente della Repubblica, ”apre ad un ampliamento delle prerogative del Capo dello stato, mettendo così a rischio l’equilibrio dei poteri dello Stato“. E’ la riflessione di Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto di Palermo e già titolare del fascicolo d’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Il leader della lista Rivoluzione Civile quindi conosce bene l’inchiesta ed è stato parte in causa di quel conflitto sollevato da Giorgio Napolitanoche ha sostenuto che quelle quattro intercettazioni con l’ex presidente del Senato, Nicola Mancino, all’epoca indagato e oggi imputato di falsa testimonianza, dovevano essere distrutte immediatamente. “In attesa di leggere l’intera motivazione della sentenza – afferma Ingroia – mi limito a osservare che la Corte Costituzionale da un lato conferma il principio dell’assoluto riserbo che deve circondare le comunicazioni del Capo dello Stato, principio al quale si è sempre attenuta la Procura di Palermo (come dimostra il fatto che neanche una riga di queste intercettazioni è uscita sui giornali), ribadendo altresì che solo il giudice e non il Pubblico ministero può distruggere tali intercettazioni, come da sempre sostenuto dalla Procura”. “In secondo luogo – conclude , la sentenza apre ad un ampliamento delle prerogative del Capo dello stato, mettendo così a rischio l’equilibrio dei poteri dello Stato“. Nelle motivazioni della Consulta si sottolinea come il capo dello Stato sia intercettabile solo in un caso eccezionale ovvero quando si macchi di tradimento o attenti alla Costituzione, ed è comunque prerogativa del Comitato Parlamentare che può autorizzare le intercettazioni “sempre dopo che la Corte costituzionale abbia sospeso lo stesso dalla carica”. Del tutto diversa l’analisi di un altro magistrato antimafia appena passato alla politica, il capo uscente della Direzione nazionale antimafia Pietro Grasso, candidato del Pd. La sentenza “interviene su una questione precedentemente non del tutto definita, cioè quella dell’uso di intercettazioni che riguardano anche il presidente della Repubblica, e contribuisce, dunque, a fare chiarezza senza ledere le prerogative di nessun potere”. Di conseguenza, ha continuato Grasso, “mi auguro che i toni del dibattito intorno a questa vicenda siano ricondotti a un maggior equilibrio, anche per consentire che il processo di Palermo si svolga in un clima di massima serenità”. Contro Ingroia si schiera il costituzionalista Stefano Ceccanti, senatore democratico uscente: “E’ vero esattamente il contrario di quel che sostiene il dottor Ingroia, la Corte costituzionale ha difeso soprattutto l’equilibrio tra i poteri”. Secondo Ceccanti, “non può esistere un Presidente della Repubblica garante dell’unità nazionale che non veda protetti, oltre ai suoi poteri formali, anche le attività informali inestricabilmente connesse ad essi”. Perché “lo schema opposto, sostenuto dal dottor Ingroia, vorrebbe porre le procure al di sopra della Presidenza della Repubblica, in grado di determinarne in modo unilaterale e assoluto l’ampiezza delle prerogative costituzionali”. Più nettamente politico l’attacco del centrista Bruno Tabacci: ”Ingroia sulla Corte costituzionale parla come Berlusconi”, ha detto nella registrazione della puntata di Porta a porta. “Non condivido i suoi attacchi al capo dello Stato, né la sua scelta di scendere in politica”. Sulla sentenza anche qui, qui, qui, qui e qui. Silvio contro Strasburgo: volevano screditarmi, ma la manovra è fallita Ci pensa un po’ su e alla fine decide di non dar retta alla pancia e sparare a zero come pure sarebbe tentato di fare. Insomma, che il Cavaliere abbia ormai perso la pazienza ci sta. Anche se affondare troppo il colpo rischierebbe di avallare la tesi di Daul e fare il suo gioco. Ecco perché a sera, nel registrare un’intervista per Euronews, la presa di distanze di Berlusconi è comunque una carezza rispetto a quel che davvero vorrebbe dire. Quella di Daul – spiega l’ex premier – è solo una posizione personale di uno dei tredici vicepresidenti del Ppe. Come dire che non vale granché. In verità, anche perché prontamente aggiornato da chi la situazione la conosce da vicino, il Cavaliere sa bene che Daul sta giocando una sua partita in chiave filotedesca. Nonostante sia francese (ma di Strasburgo), alla presidenza del gruppo parlamentare del Ppe è arrivato grazie ai buoni uffici di Angela Merkel. «È un suo uomo », per dirla con le parole di Berlusconi. «E – aggiunge in privato – deve essere alla ricerca di qualche poltrona, insomma un novello Schulz » (l’attuale presidente dell’Europarlamento che con il Cavaliere ebbe uno scontro memorabile anni fa). Berlusconi, dunque, non gradisce «i soliti attacchi dei soliti noti » che vogliono raccontare un Partito popolare ai ferri corti con il Pdl. Ma alla fine non se la prende più di tanto visto che ad uscirne peggio è certamente un Monti che soffre l’endorsement del Ppe. Così, dopo aver taciuto di fronte alle ripetute critiche degli eurodeputati del Pdl (c’è chi come Licia Ronzulli definisce le sue parole «indegne » del ruolo di capogruppo che dovrebbe rappresentare tutti), alla fine Daul è costretto a ritrattare solo dopo aver ricevuto una furiosa telefonata del Professore che si sarebbe sentito «sminuito » dall’essere rappresentato come candidato di una parte (il Ppe) essendo lui «sopra le parti ». Se sul fronte Ppe la querelle si va chiudendo, resta in piedi invece la polemica interna a Cl dopo la scelta di Mauro di candidarsi con Monti. Anche per questo la prossima settimana Comunione e liberazione manderà una lettera aperta a tutti – ma ovviamente indirizzata agli iscritti – per dire in maniera chiara che sta con il Pdl ed evitare che vi possano essere fraintendimenti. Un modo per dire che il mondo ciellino non si sposta a sostegno del Professore. E in questo senso un peso importante ce l’ha anche la partita alla regione Lombardia visto che il voto di Cl è concentrato proprio in quella regione. Sostenere Gabriele Albertini, infatti, significa di fatto consegnare il Pirellone a Umberto Ambrosoli e far perdere il Pdl e, dunque, Comunione e liberazione. Giannino: “Monti, che errori, finirà peggio di Martinazzoli” È un uomo più soloOscar Giannino, 52 anni, da quando ha deciso di sospendere la carriera giornalistica per dedicarsi alla politica come leader del movimento d’opinione Fermare il declino, da lui stesso fondato l’anno scorso. “Sì, divertente… ma la politica è un delirio inimmaginabile, io lo sapevo già, ma quando ti cimenti capisci che è fin peggio. Ti capita di tutto, certi personaggi, ti arrivano certi sms, ti facessi vedere il telefonino…”. Come l’sms di Maroni, che due ore prima di far l’accordo con Silvio ti scrive “vado ad Arcore per rompere” ma poi… Monti Pinocchio Da quando è salito in politica, Rigor Monlis non solo ha modificato il suo linguaggio, adeguandolo alle esigenze della campagna elettorale, ma ha so prattutto mutato le sue opinioni in materia fiscale. Se infatti fino a ieri andava assai fiero del suo curriculum da presidente del Consiglio, esibendo le tasse come tante medagliette ap puntate sulle spalle dei contribuenti, adesso nasconde le patacche disconoscendone la paternità. E’ per questo che sembra appartenere a un’era geo logica precedente la conferenza stampa di fine anno, poche ore dopo le di missioni. Alla vigilia di Natale Mario Monti rivendicava con orgoglio il ri gore imposto agli italiani. E a Berlusconi che – in caso di vittoria – annun ciava di voler ridurre l’Imu, replicava dicendo che di lui non c’è da fidarsi: se uno promette di togliere l’imposta sulla casa, a chi verrà dopo toccherà applicarla con gli interessi. Al premier sono però bastate poche settimane per fare dietrofront. Non solo insegue il Cavaliere sul suo ter reno, annunciando la riforma della famigerata gabella, ma addirittura l’ex rettore della Bocconi rifiuta di riconoscere come sua la patrimoniale sulla casa, la sciando intendere che si tratti di un’eredità del precedente governo. Il che naturalmente è una balla grossa quanto l’ego del professore. Perché, se è vero che il nome di imposta mu nicipale unica lo ha dato Tremonti è altrettanto certo che la tassa avrebbe dovuto far parte del pacchetto deno minato federalismo fiscale, cioè di una serie di misure che sarebbero do vute entrare in vigore con un trasfe rimento di poteri e soldi dal centro al la periferia, cioè dal governo alle Re gioni, a saldo zero per il contribuen te. Invece, appena insediato sulla pol trona di presidente del Consiglio, Monti si è appropriato dell’Imu e ne ha fatto un’arma di distruzione di massa della ricchezza delle famiglie. L’Imu è diventata il perno attorno al quale il professore ha costruito la sua manovra tutta tasse e niente tagli. In primo luogo, anziché prevederne l’in troduzione nel 2014 come era stato ipotizzato, il governo l’ha varata nel dicembre del 2011, decretandone l’at tuazione immediata già nel 2012. In secondo, l’Imu voluta da Monti è sta ta applicata anche alla prima casa e non solo sulle seconde come era stato ipotizzato. Terzo punto, l’imposta è stata messa a disposizione dei Comu ni – cui nel frattempo si era provve duto a tagliare i trasferimenti, cioè a svuotarne le casse, costringendoli dunque a ricorrere alla nuova tassa – ma è stata usata anche dall’esecutivo per rastrellare un po’ di miliardi. Co me se non bastasse aver fornito agli enti locali la possibilità di adottare l’aliquota più onerosa per i contri buenti, Monti ha poi completato l’opera introducendo la rivalutazione delle rendite catastali: non solo si tas sa la casa al 7,6 per mille, ma si sono modificate le impostazioni sulle quali fare i calcoli, così che la tassa risulti più onerosa per il contribuente e più generosa per le finanze montiane, che infatti ne hanno ricavato 24 miliardi. Già questo basterebbe a far capire che per quanto faccia e neghi, il pro fessore non può in alcun modo disco noscere le proprie responsabilità in ordine alla patrimoniale messa a ca rico di chiunque possegga una casa, anche la più piccola e la più sofferta- per via dei sacrifici economici. Ma se si indaga ancora un po’ sugli stru menti di cui in queste ore Monti mo stra di avere vergogna, si scopre che sono misure da lui introdotte e da lui sostenute con entusiasmo. Prendete ad esempio il redditometro, di cui Libero ha più volte denun ciato la diabolicità. È vero che l’idea risale a molti governi fa e anche Tra monti ci ha messo le mani. Ma la tra duzione in pratica, che l’ha resa ope rativa determinandone i parametri cui si dovranno attenere i contribuen ti per non risultare evasori, è ancora una volta farina del sacco di Monti. È nel 2012 – con il governo dei tecnici – che si preparano i decreti attuativi ed è il 4 gennaio 2013 che il misuratore di ricchezza entra in vigore. Nel dispera to tentativo di raccattare qualche voto ora il professore sostiene che il redditometro è una bomba ad orologeria e che lui non lo avrebbe messo. Ma chi a Palazzo Chigi potrebbe disinnescare l’ordigno? Chi ci è stato da dicembre del 2011 ad oggi? Berlusconi o lui? E cosa gli ha impedito di evitare l’atten tato ai portafogli dei cittadini? La ve rità è che a innescare la granata è sta to un decreto del 24 dicembre 2012 e rinnegando il redditometro Pinocchio Monti dice una bugia grande come la sua ambizione. Perché, come ha ri cordato il Sole 24 Ore, fu lui nel di scorso di insediamento del novembre 2011 ad affermare che contro l’eva sione serviva «potenziare e rendere operativi gli strumenti di misurazione induttiva del reddito ». Prova evidente che il redditometro, se c’era, dormiva nei cassetti del ministero e a provve dere a svegliarlo è stato proprio il pro fessore. Altra prova che l’ex rettore non è un cuor di leone e dopo aver infilato la mano nelle tasche degli italiani prova a nasconderla? Il grande fratello ban cario. Se oggi il Fisco può mettere il naso nei conti correnti, il merito è suo. Senza di lui le norme attuative per dare il via libera allo spionaggio bancario contenute nel decreto Salva Italia del 2011 non sarebbero state ap provate. Comprendiamo che oggi sia difficile prendersi i meriti dello stato di polizia fiscale instaurato nel nostro Paese – di cui nel dicembre di un an no fa Monti andava molto fiero – ma è giusto dare a Mario quel che è di Ma rio. In modo che gli italiani sappiano chi votare. Letto 1414 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||