LETTERATURA: INCIPIT: Fabio D’Aprile, “Soffio interrotto”, edizioni Joker, 2008
16 Maggio 2008
Morir quand’anco in terra orma non stampo?
          Né di me lascerò vestigio al mondo
        Maggior ch’in acqua soffio, in aria lampo?
I
(sono nello stomaco del mostro, e so che urlare non mi servirà a niente. Parte piano con uno sbuffo timido, s’incurva sbiadito, non si fermerà che quando avrà visto tutto. E tu ci sei intrappolato dentro, tutto scorre come per fotogrammi rallentati, proiettati fuori dalla tua coscienza. Alcuni sono troppo vividi perché  gli occhi possano reggerli, eppure dovrai assaggiarli come tutti gli altri.
   Forse posso cercare di fuggire. Devo poter anch’io godere della mia Arianna che mi guidi fuori dal labirintico incesto, minotauro carnale mostruoso che ripudia ogni suo consimile. Ma dove andrei una volta uscito? Troppo lontano finché si perdano le tracce del passato cui mi sono affezionato, financo nella sua brutalità , e con esso si dilegui ogni speranza di poter comprendere le mie radici? O troppo vicino, a scrutare nitido il male del vivere strappato alla vita, la gogna di ogni mattina per essere ancora? La domanda è una delle più abusate, non si aspetterebbe il batter d’un ciglio a definirla patetica, retorica, già detta Â- cibo trito che viene rigurgitato e ringoiato. Ma per me è cosa seria, necessità stringente. Ci siamo tanto abituati all’indolenza dei giocattoli giornalmente regalati, che le cose serie ormai danno noia.
   Dove andare allora? Dove? Forse posso chiederlo a te, Anima Passante, che cerco di indovinare in fattezze angeliche – ma lo sappiamo entrambi che è il Nefasto, il Catastrofico, l’Incombente che sogniamo ogni notte. Ebbene sia! Sceglierò te per queste riflessioni, che nessuno legga come saggio eudemonico, che nessuno legga come romanzo esistenziale, che nessuno legga come poesia vaticinante, che nessuno legga come messinscena  di un forsennato orgoglio, che nessuno legga.
   Questi fogli bianchi, sporcati dall’inchiostro tecnologico, non vogliono avere nessuna forma se non quella che ognuna delle Anime Passanti vorrà loro dare. Se queste pagine denunciano nello spessore di pochi millimetri, nel freddo del tatto circostanziato della mano che le accarezza, la loro reale esistenza, per me non sono che passata perversa utopia.               Â
  Il passato: il passato è il tempo di ciò che fu, il tempo della morte. È così che insigni maestri lo hanno sempre ritratto, mucchi di rovine con accanto l’angelo del ricordo, ancella e fragile guscio di ostrica lapidaria che perpetua la vana speranza. Proprio per questa iconografia prestampata, Anima Passante, molti ti hanno ammonito a non ricordare mai, mai vivere nel languore dei sensi che non fa progredire. Io invece i momenti più belli, che sono inevitabilmente i più orrendi, li ho salvati dalla cenere dove erano finiti, convinto contro ogni vulgata, che in questa vita non ti è permesso dimenticare: se perdi il conto dei tuoi passi nessuno ti ritroverà mai più.
   E così, minotauro carnale mostruoso che ha imparato ad amare ogni suo consimile, mi ritrovo piacevolmente nello stomaco del mostro a chiedermi dove andare. Piacevolmente arso dal tempo, come pagina ingiallita che nessuno osa toccare per ribrezzo, azzardando ipotesi su catastrofi che non mi appartengono o che troppo mi hanno inciso. Gioco ad assaporare il pianto solenne antico di tribù millenarie, che gocciola mesto sulle nostre spalle di nani con i trampoli comprati al primo mercatino. Mi sorprendo a scoprire che in esso vi è la forza germinale matrilineare animale che può riscaldare e proteggere dall’ultima notte, troppo fredda per essere sopportata da soli. Un’ode al pianto, forse, è quello che ti aspetta. Quel pianto che non consola, che ci ricorda che siamo fango e sputo, e gli anni che portiamo con noi non sono altro che fitta coltre di polvere che qualcuno infine soffierà via.
   Non giungere a saccenti conclusioni, Anima Passante: non è nella mia indole lasciarmi barricato nella caverna della autocommiserazione – sia concesso dire, però, che è comoda. Piuttosto dovresti incominciare a chiederti cosa io voglio da te, non cosa ti aspetta. Non dimenticare che non saprai mai fino a che punto sarà attendibile la visione decifrabile dei miei pensieri che ti spaccio per verità .
   Ecco il tuo compito: Tu, Anima Passante, superiore solo di un palmo, dovrai spiegarmi quell’insanabile senso di nostalgia sospeso tra fuoco ed oro che attanaglia ogni giorno, il motivo di tanto accanimento. Già tremano le ginocchia, perché scuotere tutto il corpo? Perché vederlo vacillare fino a perdere il suo senno? Spacciami la cura per alleggerire la mia tristezza: devo davvero strappare il lercio cuore al fine di capire come schiaffeggiare la vita guardandola negli occhi di tigre divina? Devo entusiasticamente pensare di essere il prescelto e di vivere in eterno nelle menti, cancellando con un colpo di maestria l’oblio del mondo? Lo farò. Ma attenta a non sbagliare ricetta, attenta a convincermi che si possa davvero volare alto senza rischiare di cadere su disastri preannunciati, e dall’alto guardare la nostra commedia d’uomini, fatta di rapite occhiate e falsità .
   Del resto inizia nell’autocoscienza il processo di riconoscimento dei propri limiti.
   Comprendo la tua impazienza, è inutile continuare ad annoiarti con riflessioni preliminari – non le conosciamo più, siamo solo pronti a tuffarci nella perfetta dizione di verità assolute. Ti interessa il vivo della storia, vedere quali sagome si illumineranno sulla scena, cosa faranno, chi piangerà e chi da ultimo ne uscirà vincitore. E non negare che già ti sale un leggero prurito per gli aspetti più reconditi della mia psiche: cercare di capire se è un complesso d’Edipo piuttosto che un trauma, magari la mancata elaborazione di un lutto, a muovere la mia confessione. E’ quasi naturale che, tra i tanti motivi per cui si decide di sfogliare un libro, ci sia la curiosità di indovinare la strada della mano che ha impugnato la penna. Molte volte anch’io sono stato preso da quell’impietoso delirio di onniscienza che ti porta a presumere di aver indovinato tutto. Perché dovrei aspettarmi sorte migliore?
   Non mi lamento, voglio precisare che potrò accontentare le tue voglie solo per metà : ti presento la prima forma con cui dovrai scontrarti. Dico dovrai perché da questo momento io esco di scena e la parola, l’obiezione, le domande saranno solo le tue. Non meravigliarti sono vigliacco per privilegio di nascita, e di certo non porterò sulle mie spalle questo mucchio di parole, bensì le adagerò a giusta guisa sulle tue. Se alla fine qualcosa non ti soddisferà , non potrai che recriminare contro te stesso.
  Una Sibilla cumana che mi vaticinò la morte come pena per lo scrivere: è questa la prima forma che ti viene gettata davanti agli occhi. Accoglila benigno e ricorda che cinquanta lupi affamati, vaganti nella desolata brughiera in cerca di anime, scelsero ciascuno la sua e la inghiottirono portandola oltre ogni ragionevole limite concesso al capire umano, con la sofferenza che colava da ogni sorriso in un artificio di vibrazioni. Ma procediamo con ordine, elemento necessario per espiare le proprie colpe.
Tutto prende fiato da quel tempio cumano, diroccato dalla crocifissione di un uomo, stagliante nella linea di costa che separa lo scoglio più alto dalle formiche che mangiano a pancia in su. La piana verde-gialla, in un maggio dal profumo intenso di vecchiezza e solitudine, saggezza prostituita ai secoli. E il colpo d’occhio dall’immenso cade sul minimale: il frontone, non scolpito ma inciso in antiqua, con la frase:
   «Sarò sazio quando gli altri avranno smesso di mangiare ».
   Monito severo, cantilenato con cadenze da preficae, donne in processione per il dio della fertilità che li protegga dalla fecondità . Anche loro a pancia in su, ma atte a danze morbide flessuose di un rituale. Adagio.
   Scalino dopo scalino, si arriva all’antro specula. Desolazione. E un arrotino d’anime che sbava sulla penna, segna il tuo nome come oracolato, a seguire il tipo strano senza una gamba, che vuol chiedere se potrà correre. L’attesa sfugge al tempo, il sole è troppo vicino per non fermare lo sguardo sui raggi e indovinare dove essi andranno a posarsi, riscaldando magari qualche polacco a corto di sigarette – uno dei tanti che si può osservare nelle nostre megalopoli plastificate e con ogni casa rallegrata da tanta civiltà profumata. Misero nell’aspetto ma sempre sorridente perché ti ha anticipato: è arrivato alla verità un soffio prima di te, per loro il produci consuma crepa non è ancora diventato il ritornello che accompagna ogni istante. Ho detto sempre sorridente, non felice: la felicità è altra cosa. È come se lui corresse più veloce di lei, la Irraggiungibile, e alla fine si ritrovasse in un bosco grigio dietro lo stesso albero, l’uno con la bocca contro la bocca dell’altra senza riuscire a vedersi, fuori dalla vita, in un momento.
   Pochi decenni o forse solo un’ora. Un’ora per pensare ai tre volti che ti sbranano con i loro occhi fissi. Allenti la stretta dei polsi a simulare un gesto più naturale, che non tradisca lo sgomento, ma gli occhi si affilano ed anche le mani ora sembrano graffiare le tue labbra. Non è cosa semplice imparare ad odiare. Apri con mano dura e tremante una porta che si staglia nuova agli occhi. Chissà quante altre mani, sudate per il timore reverenziale, avranno calpestato quella soglia prima di te. È gialla luminosa, promette bene. Potrebbe essere lo schiudersi di nuovo baco in splendida farfalla, l’inverarsi di ogni necessità di comprensione. Il pensiero ghiaccia i sensi e un’ennesima stilla di madreperla attraversa quella porta. Tentennante poggi la tua mano. Contatto freddo con l’impugnatura, ritorni indietro di attimi. Sorrisi lucenti appaiono in fitta schiera al suono melodico di un valzer, come acqua scorrono dentro, e si fermano nel buio stonato da cui risale persino l’odore di umidità . Poco prima di oltrepassare la soglia, ti vedi rinchiuso in mura di consistenza eterea che premono sul corpo istigando all’abbandono. Ti spaventa l’inconsistenza, enigma eterno che fa diventare faticante il fiato. Ed è notte. La solita notte, che trascorre infima in uno stato che sfiora la prostrazione, nulla sembra aver senso se non quella piccola goccia di rugiada, che in piena armonia con Pan, lentamente in brevi sussulti scende dalla foglia che per qualche istante l’ha ospitata. Termina così la sua vita ma in un lampo di felicità perché ha toccato il mondo.
   Il rintocco denso di una campana che avevi dimenticato ti ridesta. Varchi quella soglia e la delusione più terribile t’opprime: un teschio d’amazzone che macabra nenia ravviva. Il ritornello è “fiato interrotto”. Con la barba incolta per il lungo meditare, sei davanti alla silhouette boccaccesca della Sibilla, volgare e sacra nello stesso schiocco di labbra, con quel tono sulfureo tutt’uno con i vapori che inalava coscienziosa della fine, icona triste della rovinosa gloria del libro paga. Al suo apparire crolla tutta la patina poetica che portavi con te a guisa d’angelica risata, e tutta la speranza romantica di trovarti di fronte alla donna che miracolosamente poteva salvarti con lo schiudersi dei suoi ginocchi.
   E invece … un sapore d’orchidea si diffonde, discontinuo impreciso, in una stanza male assortita e vuota come la mente che ondeggia sui guai, frange e rifrange. Ritmica. Propiziatoria. Guance secche perché forse non hanno più lacrime da versare, che troppo è stato il loro ascoltare. Cosi io voglio che tu la immagini, o Anima Passante, perché così tu mi suggerisci di scrutarla. Mani, braccia, gambe che si muovono disarticolate in angolo cieco. Il cuore silenzioso calca con il suo battere il tempo che verrà , rosso di una fitta nebbia, adunco fino alla più vicina estremità . La ruga sulla fronte ti racconta la sua vita piena di tormenti, ne è il segno, e lei, la Pizia, fiera la mostra a chiunque la accusi di esser ciarlatana. La sua distinta cognizione del fastidio le contrae i nervi sotto il mento in spasimi del ghigno tutt’altro che rassicuranti. Vecchi sandali desolati supplicano tregua, invocano la pace stanchi di calpestare un suolo che scotta. Troppa la strada che hanno dovuto imparare e nemmeno una grotta per fermarsi. Come quei vecchi sandali, anche la tua anima cerca rifugio in antri inesplorati per tornare a sorridere.
   Non illuderti, sai bene che non riuscirai a salvarti comunque. La tua condanna traspare nitida fin dalla posa delle braccia. Troppo lunghe… chissà dove si sarebbero incastrate, quanto avrebbero preteso…E se un giorno, per sbaglio o calcolato desiderio, avessero stretto il collo di chi le aveva fatte tali?
Ate ti è seduta due giorni dietro eppure sei ancora ingordo di peccare, ancora scaraventare l’iride a terra e trovare la melodia romanza di un violino da stazione, già madre di una giacca da pioggia, cavalli dalle labbra malvate, erba medicata e vacche fiamminghe, perle rosse e frantumi di cocci… la pochezza di vuoto…).
Vedi quanti ha malconci ‘l tristo gioco,
E perduti ha ‘l furor di voglia insana,
Che tempo lungo a noverargli è poco
SCHEDA LIBRO
Autore: Fabio D’Aprile
Titolo: Soffio interrotto
Editore: Edizioni Joker
Pagine: 64
Prezzo: 10,00 euro
Isbn: 978-88-7536-157-0CONTENUTO
Un racconto breve, fintamente polifonico, denso di presenze , di voci. La voce dell’autore, prima e gigantesca che fagociterà tutte le altre, non dimenticando tuttavia di annullarsi all’occorrenza, piacevolmente perso nella sabbia del ricordo. La voce della Pizia, colei che abortisce, colei che è costretta a portare la lettera scarlatta dell’abominio della razza umana. Mammifero abietto, perché contro natura, che farà parte di quella “universale concentrata umanità dell’Inferno”. La voce del Nome «carne di angelo bianco », proveniente dall’abisso della psiche – dall’oltretomba del ricordo – che non si spiega e  né si lascia placidamente modellare. Parla una sua lingua di segni, la lingua di chi non è mai nato, di chi ha ancora lo stomaco chiuso. Ed ultima l’Anima Passante che inizialmente, con dosata verecondia e pudore, presta la sua voce alla narrazione dei fatti, per poi, sempre più prepotente, strappare la penna dalle mani del vigliacco scribacchino e incominciare a girovagare alla ricerca della verità . Fintamente polifonico, perché queste Voci non vogliono identificarsi in personaggi ben delineati,  sono, al contrario, personificazioni eteree, inconsistenti al tatto, di una sola maschera. Voci che hanno deciso la mattanza-delirio del transfert, per aiutare a chiarire il nucleo della vicenda: una messa in discussione di quella che Pasolini definiva e difendeva come sacralità della vita. Ovvero in una parola brutale, come tutto quello che è dolorosamente vero, il nucleo della vicenda è l’aborto, con l’inevitabile fardello di più o meno congrue e ragionevoli riflessioni sulla sua liceità . È così che la Pizia si sdoppia in madre distratta, che il dio vindice ha costretto al penoso sacrificio, e il Nome si proietta nel figlio mai nato, che assilla per essere ricordato (ricordarsi).AUTORE
Fabio D’Aprile, reduce alla vita di un piccolo paese della provincia del capoluogo pugliese. Conseguita la maturità classica presso il Liceo Classico “Galileo Galilei” di Monopoli, prosegue i suoi studi iscrivendosi alla Facoltà di Lettere e Filosofia, prima presso l’Università degli Studi di Bari ed oggi presso quella di Urbino.
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