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La fine di Fini in diretta: così sprofonda un leader

19 Gennaio 2013

di Vittorio Macioce
(da “il Giornale”, 19 gennaio 2013)

Qualcuno salvi il colonnello Fini. Lo tiri via dall’arena politica, lo riporti a casa, sua, non a Montecarlo. Vederlo barcollare in quel modo, inerme, come un pugile ormai andato, che si aggrappa alle corde solo con la speranza di sopravvivere e stravaccarsi sulla vecchia poltrona è un’immagine impietosa.
Eppure quest’uomo un tempo aveva ambizioni da campione, da sfidante ufficiale, dopo una vita da delfino, cresciuto per ereditare qualcosa d’importante, un posto da presidente del Consiglio con la cravatta giusta e un vestito già ordinato in sartoria.

Non ne è rimasto nulla. È invecchiato di anni, il volto straziato, gli occhiali troppo grandi sul profilo sempre più magro, gli occhi che si abbassano ad ogni colpo e la sua oratoria che pattina sul vuoto, su qualsiasi argomento, tanto da far apparire Salvini come un erede di Demostene. Vederlo così, l’altra sera da Santoro, è stato straziante. Ti veniva quasi da dire basta. Basta con questa macelleria. Basta sorridergli e poi colpirlo un’altra volta. Gettate la spugna. Come quando ha rimproverato a una sua vecchia conoscenza la coerenza: «Fai sulle banche gli stessi discorsi di trent’anni fa ». Appunto. Tanto che lo stesso Santoro a un certo punto deve averlo graziato, risparmiandogli la domanda sull’argomento di giornata, quei rapporti da chiarire con Francesco Corallo, il latitante re dei videopoker, l’uomo nero di Montecarlo. Come mai il passaporto della compagna e del famoso cognato, al secolo Elisabetta e Giancarlo Tulliani, sono stati trovati a casa di Corallo? In diretta su Twitter, come spettatori a bordo ring, in tanti gridavano: «Corallo, Corallo, neppure una domanda su Corallo ».
Santoro per fortuna non li ha sentiti, non ha visto, non li ha voluti ascoltare.

Non serviva. Solo Travaglio si divertiva, quasi per prendersi una rivincita del match con Berlusconi della settimana prima, continuava a ballargli intorno e a toccare, atterrandolo semplicemente leggendo la «cronistoria di una vita », la sua, quella di Gianfranco. Una rivincita per interposta persona. Una cosa infatti a un certo punto si è capita a pelle. Questa puntata di Servizio pubblico stava cominciando a assomigliare alla morte, politica, in diretta di Gianfranco Fini. La sua uscita di scena pubblica. La costatazione che quello che stava parlando era ormai un altro, uno sopravvissuto al suo passato e che dopo il «che fai mi cacci? » ha sbagliato tutte le mosse. Quello che si immaginava come una sorta di Bruto, un liberatore, è apparso come un poveretto interessato soltanto al suo piccolo tornaconto politico. Quello che doveva creare un’alternativa a destra e ora corre per racimolare un posto in Parlamento, il suo. Fini troppo piccolo per le sue ambizioni. Fini che si è fidato delle lodi che arrivavano a sinistra, per poi essere buttato via come un fazzoletto usato. Fini ruota di scorta di Monti, accettato per misericordia e con molti dubbi. Fini capolista di un partito che i sondaggi danno all’uno per cento, con il rischio che se a Casini va male, cioè finisce sotto la soglia del 4, a Fini non resta neppure la consolazione personale di un seggio in Parlamento.

Tutto questo è già un de profundis politico. E poi arriva il Ko simbolico. Quello che Santoro gli ha cucinato con una certa perfidia. Fini ha appena finito di deplorare e lamentarsi del berlusconismo, delle liste del Pdl, di questo e quell’impresentabile. Stop. Santoro chiama un video. È un elogio appassionato di Fini per Marcello Dell’Utri. Non dura molto. Fini è bianco. Dice: «È una cosa vecchia, risale a quando non c’erano indagini su Dell’Utri. Vedete, avevo ancora i capelli neri ». Si scusa. Ripudia. Travaglio dice che non gli sembra tanto vecchio, il discorso. Fini insiste. Ma alla fine ha ragione Travaglio. È di qualche anno fa, quando Dell’Utri era già inquisito. Fini barcolla. È a terra e non parla più. Si sente solo l’arbitro che conta: uno, due, tre, quattro… nove, dieci. Finito.


La campagna aggressiva di Bersani
di Arturo Diaconale
(da “L’Opinione”, 19 gennaio 2013)

Ma a chi è rivolta l’accusa di essere il cancro del sistema democratico mossa da Pierluigi Bersani ai cosiddetti “partiti personali”? Il bersaglio apparente è, ovviamente, Silvio Berlusconi. Che il segretario del Pd ha tutto l’interesse ad attaccare per far scattare nel corpo elettorale quel meccanismo bipolare grazie al quale può rilanciare l’argomento del “voto utile” a vantaggio del proprio partito. Ma dietro il bersaglio apparente e scontato rappresentato dal Cavaliere si nascondono gli obbiettivi veri del segretario del Pd. Che sono Mario Monti ed Antonio Ingroia. Cioè i due personaggi che, sulla scia di quanto avvenuto negli ultimi vent’anni nella politica nazionale, hanno dato vita a formazioni politiche personali e, con queste, puntano a rendere impossibile il disegno di Bersani di vincere a mani basse alla Camera ed al Senato ed entrare da trionfatore a Palazzo Chigi. Berlusconi, infatti, per il leader dei democratici è un avversario fin troppo utile. Viceversa Monti ed Ingroia sono i nemici più insidiosi da combattere e cercare di neutralizzare.

Bersani sa bene che la presenza della lista unica centrista al Senato e del rifiuto di ogni forma di desistenza da parte della lista giustizialista dei tre ex pm (Ingroia, Di Pietro, De Magistris) rappresentano i principali ostacoli sulla sua strada verso la vittoria elettorale. Ed anche se non rinuncia all’idea di una collaborazione con Monti nel dopo elezioni ed alla speranza di riassorbire in qualche modo la spina giustizialista in nome dell’antico principio leninista del “nessun nemico a sinistra”, è obbligato a portare avanti una campagna elettorale caratterizzata da una conflittualità crescente contro i due i due potenziali alleati. La ragione è che Monti può erodergli quella parte dell’elettorato del Pd che alle primarie ha votato per Renzi e che è portatore di istanze vagamente liberaldemocratiche, mentre Ingroia può strappargli quella parte della base che è stata allevata dal Pd con dosi massicce di giustizialismo e che è fatalmente attratta dai giustizialisti più duri e puri.

Bersani, quindi, non può più continuare a mantenere toni bassi e misurati nel tentativo di conservare fino alla data delle elezioni l’alto numero di consensi conquistati grazie alla lunghissima campagna promozionale delle primarie. Deve uscire allo scoperto e radicalizzare al massimo i toni contro i suoi diretti competitori. Al tempo stesso, sia Monti che Ingroia non possono permettersi ambiguità di sorta nei confronti del Partito Democratico. Il presidente del Consiglio potrà anche pensare di essere destinato ad accordarsi con Bersani nella prossima legislatura. Ma per il momento, se non vuole subire una cocente sconfitta elettorale personale, deve intensificare i suoi attacchi al Pd accusandolo di aver emarginato l’area liberal e riformista del partito a tutto vantaggio dell’anima conservatrice e massimalista appiattita sulla linea della Cgil.

E l’ex pm Ingroia, anche se per convenienza avrebbe desiderato realizzare qualche accordo di desistenza con il Pd, non può permettersi cedimenti di sorta e deve andare avanti sulla linea del giacobinismo più estremo per conquistare quella parte dell’elettorato di sinistra deciso ad opporsi a qualsiasi ipotesi di alleanza con il montismo. Oltre tutto anche Ingroia ha il suo nemico a sinistra che si chiama Beppe Grillo. E se non vuole che il giacobinismo dell’antipolitica attragga il giacobinismo giustizialista deve alzare sempre di più i toni dello scontro con Bersani. La radicalizzazione delle posizioni a sinistra è, dunque, una strada obbligata. Che per un verso può servire a Berlusconi per accelerare la sua rimonta ma che per l’altro è destinata ad accentuare il rischio di ingovernabilità nella nuova legislatura con conseguente rischio di nuove elezioni nel 2014. Sempre che la crisi non provochi ulteriori e più gravi sorprese.


Vendola : «Con Monti compromesso possibile ma soltanto sulle riforme costituzionali »
di Redazione
(dal “Corriere della Sera”, 19 gennaio 2013)

E’ l’apertura tanto attesa per il futuro patto di centro-sinistra. «Se Monti fa autocritica e corregge alcune delle sue controriforme è un fatto positivo. Con Monti si può costruire un compromesso importante, ma su quello che sarà il carattere della prossima legislatura, il carattere costituente ». Lo ha detto Nichi Vendola, leader di Sel su Sky Tg24 . Che però poi precisa «In caso di vittoria del centro sinistra potrei fare il battitore libero », ha detto il leader di Sel a “Il sorpasso” su Sky Tg24, «non escludo di chiudere anzitempo l’esperienza alla Regione Puglia ».

MARONI – Per Roberto Maroni si tratta di una svolta. «Vendola piega la testa all’inciucio con Monti. Grande ammucchiata, no grazie. Motivo in più per vincere in Lombardia » scrive su Twitter il segretario della Lega, Roberto Maroni.

DI PIETRO – Più duro il leader di Italia dei Valori Antonio Di Pietro che sul suo blog scrive: «Caro Nichi, hai svenduto i nostri principi per allearti con i veterodemocristiani e per proseguire e supportare le politiche inique di un governo che, fino ad oggi, ha fatto pagare la crisi ai lavoratori, agli onesti cittadini, ai pensionati e ai giovani. Insomma, sei pronto a fare un compromesso con chi ha salvaguardato gli evasori, le lobby finanziarie e le banche ».

BERSANI – Se Vendola apre a Monti, il segretario del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani corregge il tiro sul premier: «Monti non mi ha deluso è solo che non me lo aspettavo. Ha cambiato un po’ idea su varie cose che prima erano impossibili e oggi sono possibili ». Bersani poi continua la sua opera di persuasione nei confronti di «Rivoluzione Civile » di Ingroia: «Ad Ingroia dico: attenzione il Pd e i progressisti sono l’alternativa al centrodestra. Non abbiamo da prendere lezioni da nessuno su legalità e trasparenza la battaglia funziona così, vince chi arriva prima ». In precedenza il segretario del Pd aveva replicato al leader di «Rivoluzione civile »: «Non c’e’ mai stata nessuna ipotesi di patto di desistenza, c’e’ una distanza netta, noi siamo riformisti. Un gesto consapevole per la situazione in Lombardia sarebbe stato apprezzato da me, ma non c’e’ bisogno di patti, e’ questione di prendersi la propria responsabilità e io avrei apprezzato ».
«I voti sono tutti utili, ma ci sono voti utili per una testimonianza, per segnalare una protesta o un’adesione, poi ci sono i voti utili per battere la destra e per vincere » aveva detto in precedenza il segretario del Pd nel corso di un incontro con Ambrosoli e i candidati lombardi.


Il voto inutile
di Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”, 19 gennaio 2013)

Come dice Crozza, l’appello del Pd al “voto utile” è molto pericoloso. Perché gli elet ­tori potrebbero domandarsi: utile a chi? E per fare cosa? Perché anche B. si appella al voto utile, diffidando gli elettori dal votare per tutti tranne il suo e, bontà sua, il Pd. E perché il voto è sempre utile o al massimo dannoso, ma mai inutile. Inutile è solo il non-voto. Sappiamo bene cosa intendono Bersani e Berlusconi per “voto utile”, riconoscendosi vicendevolmente come unici veri avversari: non votate per gli altri, sennò fate vincere l’altro. Una concezione davvero curiosa della democrazia, specie da parte di due leader che da 15 mesi governano insieme e si scoprono avversari solo in cam ­pagna elettorale. Chi vuole sostenere le bat ­taglie per la legalità, il lavoro e l’ambiente trova utilissimo votare Rivoluzione Civile di Ingroia. Chi vuol mandare in Parlamento una pattuglia di giovani guastatori senza soldi contro il si ­stema consociativo trova utilissimo votare 5 Stelle. Chi ama i tecnici e la vecchia De trova utilissimo votare Agenda Monti. Chi ancora crede alla Padania trova utilissimo votare Lega. E così via. Ma il voto utile, per il Pd, nasconde una parola che i furbetti del Nazareno non vogliono pronunciare, convinti che tutto sia loro dovuto: “Desistenza”. Siccome nei son ­daggi Ingroia è dato al 5-6%, dunque supererà il 4% necessario per entrare alla Camera, ma l’8% per il Senato dovrebbe scavalcarlo solo in alcune regioni (Campania e Sicilia in primis), Bersani spera che ritiri le sue liste almeno nelle tre regioni decisive per conquistare la mag ­gioranza al Senato: Lombardia, Campania e Sicilia. Così ha fatto chiedere a Ingroia la de ­sistenza, anche se pubblicamente lo nega e pre ­tende che Ingroia gliela regali sua sponte. Ora, la desistenza è già stata sperimentata con suc ­cesso dall’Ulivo con Bertinotti nel ’96, in vista dell’appoggio esterno di Rifondazione al go ­verno Prodi. Nel 2001 ci fu il bis, ma solo col Prc, mentre Di Pietro fu tenuto fuori con una mossa talmente astuta che regalò la vittoria a B. In ogni caso la desistenza era fra due alleati che, dopo il voto, si impegnavano a governare in ­sieme. Dunque erano entrambi interessati alla vittoria della coalizione. Ora invece, per la pri ­ma volta nella storia, il Pd vorrebbe la de ­sistenza (per giunta spontanea e gratuita) di un partito con cui non ha alcuna intenzione di governare, ritenendolo un pericoloso nemico giustizialista, populista, estremista e antinapolitanista. Bersani bolla come “cancro della de ­mocrazia” quelli che chiama “partiti persona ­li”: e non ce l’ha con Agenda Monti, suo ex e futuro alleato, ma con Rivoluzione Civile che, lungi dall’essere un partito personale, riunisce almeno sei fra partiti e movimenti (Idv, Pdci, Prc, Arancioni, Cambiare si può, Alba). In compenso Bersani e persino Fassina annun ­ciano che dopo le elezioni governeranno con Monti, Fini, Casini e famiglia anche se avessero la maggioranza in entrambe le Camere. E,  per precauzione, lo scavalcano a destra rinuncian ­do alla patrimoniale, prevista persino nell’A ­genda Monti. Intanto Monti, per gratitudine, in Lombardia appoggia Albertini per far per ­dere Ambrosoli, sostenuto invece da Ingroia. E Ingroia dovrebbe suicidarsi ritirando le liste in tre regioni chiave, di cui due gli consentireb ­bero la presenza al Senato? E in cambio di cosa? Dei voti che occorrono al Pd per go ­vernare con Monti, portare in Parlamento qualche impresentabile (tranne i 4 fulminati ieri) e cacciare Ingroia ll’opposizione? In at ­tesa di capire a cosa sia utile il voto al Pd, e se non sia più utile che Pd e Sel si coalizzino con Monti prima delle elezioni, cosicché gli elettori possano esprimersi sull’ammucchiata Monti-Zemolo-Casini-Fini-Bersani-Vendola pros ­sima ventura, sorge spontanea una domanda: ma se il Pd vuol continuare a governare con Monti, perché la desistenza non la chiede a Monti?


La segretezza del cittadino Napolitano
di Paolo Becchi
(da “Il Secolo XIX”, 19 gennaio 2013)

LA CORTE Costituzionale ha depositato il testo della senten ­za sul conflitto di attribuzioni sollevato da Napolitano. Inizia ­mo dalla definizione, data dalla Corte, dei poteri e delle preroga ­tive del Presidente della Repub ­blica. La novità, qui, è rappre ­sentata dal fatto che la Corte sta ­bilisce una piena corrisponden ­za tra poteri formali ed «attività informali » del Capo dello Stato. Il suo ruolo sarebbe caratteriz ­zato dall’«intreccio continuo tra poteri informali e poteri forma ­li ». Incontri, comunicazioni, te ­lefonate, sono tutte attività in ­formali che sarebbero inestrica ­bilmente connesse, e non sepa ­rabili, dai poteri formalmente attribuiti dalla Costituzione al Presidente della Repubblica. La Consulta, tuttavia, si spinge al di là dì questa corrispondenza. Queste “attività informali”, in ­fatti, sono «fatte di incontri, co ­municazioni e raffronti dialetti ­ci » che «implicano necessaria ­mente considerazioni e giudizi parziali e provvisori da parte del Presidente e dei suoi interlocu ­tori ». Il Presidente dev’essere sostanzialmente libero nei mez ­zi, e la sua attività deve essere va ­lutata soltanto in base al fine, al ­lo scopo raggiunto. Occorre, pertanto, garantire il segreto su tutte le attività del Capo dello Stato, e ciò «non in rapporto ad una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte ».

Ciò, tuttavia, non elimina la distinzione, consolidatasi nella giurisprudenza della stessa Consulta, fra «atti e dichiarazio ­ni inerenti all’esercizio delle funzioni » e «atti e dichiarazioni che, per non essere esplicazione di tali funzioni restano addebi ­tabili, ove forieri di responsabili ­tà, alla persona fisica del titolare della carica ». L’art. 90 Cosi, per ­tanto, non potrebbe comunque garantire alcuna immunità al Capo dello Stato per reati com ­messi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, in relazione ai quali egli «è assoggettato alla medesima responsabilità pena ­le che grava su tutti i cittadini ».

Le intercettazioni, allora, do ­vrebbero essere ammissibili, co ­me mezzo di ricerca della prova, quantomeno con riferimento ai reati extrafunzionali. In tali ipo ­tesi, infatti, il Presidente della Repubblica non è che un privato cittadino. Ma la Consulta ri ­sponde negativamente.

Qualcosa però non torna. La Corte proibisce l’utilizzo di un mezzo di ricerca della prova spesso indispensabile indipen ­dentemente dalla distinzione tra reati funzionali ed extrafun- zionali. Cosa accade se il Presi ­dente della Repubblica dovesse commettere uno di quei reati di cui, di fatto, è impossibile acqui ­sire la prova in altro modo dalle intercettazioni? Si pensi pro ­prio alle indagini sulla mafia, o a reati come la turbativa d’asta, l’estorsione, etc.

La conclusione è evidente: nessuna parità di trattamento, nessuna eguaglianza, tra il Pre ­sidente della Repubblica ed i pri ­vati cittadini, e ciò proprio in quelle ipotesi in cui, come riba ­disce la Corte, il Capo dello Stato si deve ritenere «assoggettato alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i citta ­dini ». Alla stessa responsabilità, sì. Allo stesso tipo di indagini, no. E che cosa resta della “responsa ­bilità”, se non vi è modo di accer ­tarla?


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Bart