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Verso la Prima Repubblica

31 Dicembre 2012

di Luca Ricolfi
(da “La Stampa”, 31 dicembre 2012)

Come sarà il 2013? Ce lo chiediamo in mol ­ti, perché un anno come quello che ci la ­sciamo alle spalle non vorremmo si ripe ­tesse mai più.

Un dato riassume bene quel che è cam ­biato: le famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese, e quindi sono costrette a fare debiti o ad attin ­gere ai risparmi, sono raddoppiate. Erano circa 3 milioni e mezzo un anno fa, oggi sono 7 milioni: quasi una famiglia su tre.

In questa situazione, la politica si prepara alle ­gramente al voto del 24 febbraio. E anche noi elet ­tori ci prepariamo perché, comunque la pensia ­mo, dovremo fare una scelta, foss’anche quella di non andare a votare. Per quanto mi riguarda, il sentimento che meglio descrive il mio stato d’ani ­mo è un misto di sconforto e solitudine. Un senti ­mento che non sento come mio personale, ma co ­me largamente diffuso fra la gente, ovvero in tante delle persone con cui mi capita di parlare.

Lo sconforto è facile da raccontare. Quello cui siamo costretti ad assistere è un film già visto e stravisto. Andremo a votare con il «porcellum », senza poter scegliere i candidati. Eleggeremo un migliaio di parlamentari, come sempre. La sini ­stra ripropone il governo dell’Unione, già misera ­mente fallito con Prodi nel 2006-2008. La destra ripropone Berlusconi, il demagogo che ha occupa ­to la scena degli ultimi 20 anni. Il centro, come giu ­stamente paventa Eugenio Scalfari nel suo edito ­riale di ieri, ripropone una piccola Dc, nobilitata e abbellita dal marchio Monti. Spiace doverlo am ­mettere (perché anch’io per un attimo mi ero illu ­so), ma la lista Monti – partita con le più alte inten ­zioni – questo è diventata alla fine: una formazione che di liberaldemocratico ha quasi nulla e di vec ­chia politica ha molto, se non quasi tutto. Per me, come per altri, è stato un piccolo shock, una doccia fredda. Nel giro di pochi mesi, e poi sempre più ve ­locemente nelle ultime settimane, negli ultimi giorni, nelle ultime ore, fino alla decisiva «riunione in convento » di venerdì scorso, sono cadute tutte le ipotesi più coraggiose e innovative di cui si è par ­lato negli ultimi tempi. Ancora due mesi fa, sem ­brava possibile una lista liberaldemocratica, che saldasse «Italia Futura » e «Fermare il declino », i movimenti di Montezemolo e Giannino. Poi, cadu ­ta quell’ipotesi, pareva rimasta in piedi quella di una lista Monti «unica » (senza apparentamenti), molto aperta alle forze esterne, molto selettiva verso la vecchia politica, molto severa con i politici condannati. Era questa la missione affidata al mi ­nistro Passera, era questo – credo – ciò che aveva attirato nell’area montiana politici di grande valo ­re come Pietro Ichino. Anche questa ipotesi è ca ­duta: alla Camera chi sceglierà Monti dovrà tener ­si Casini e Fini, con tutto il seguito di vecchie glorie della seconda Repubblica. E chi avesse qualche simpatia per «Fermare il declino », il movimento liberaldemocratico di Oscar Giannino, non ne tro ­verebbe traccia nella lista Monti. Strano: Monti ha voluto presentare la sua agenda come aperta, ma non ha ritenuto di rispondere alla lettera aperta che Giannino e i fondatori di «Fermare il declino » gli hanno indirizzato dieci giorni fa. Comporta ­mento legittimo, ma in totale dissonanza con le ri ­petute dichiarazioni di attenzione alla società civi ­le e ai suoi movimenti.

Piccole cose, piccole beghe, dettagli irrilevanti, diranno i paladini di Monti e della sua agenda. E in effetti la si può pensare così. Se si è preparati ad assistere, 40 anni dopo, all’edizione aggiornata del compromesso storico fra comunisti e democri ­stiani, sognato da Enrico Berlinguer nel 1973, la via è tracciata e ci si può accomodare serenamente in prima fila, in attesa che inizi lo spettacolo. Certo, non sappiamo ancora chi, fra Bersani e Monti, farà il presidente del Consiglio, ma è estremamente probabile che – dopo il 24 febbraio – a governarci sia comunque la santissima trinità Monti-Bersani- Vendola. Perché, contrariamente a quanto qual ­cuno vorrebbe farci credere, le distanze fra Bersa ­ni e Monti sono minime. Lo dicono innanzitutto co ­loro che vedono con simpatia le rispettive agende: «l’agenda Monti ha il merito di mostrare che l’im ­posizione sui patrimoni non è soltanto una mania delle sinistre », molto lucidamente osservava ieri Stefano Lepri su questo giornale. E ancora più esplicitamente, nel già citato editoriale di ieri, scri ­veva Eugenio Scalfari: «C’è anche un’agenda Ber ­sani. (…) Tra l’agenda Bersani e quella Monti non vedo grandi differenze, anzi non ne vedo quasi nes ­suna ». Il giudizio mi sembra sostanzialmente cor ­retto, anche se qualche differenza non del tutto marginale io invece la vedrei. Appena concluso il patto con Monti, Casini ha subito enunciato il pun ­to fondamentale del suo programma: il quoziente familiare. Per chi non conoscesse il senso di questa oscura espressione, traduco così: se ci sono risorse per abbassare le tasse, le usiamo per alleggerire la pressione fiscale sulle famiglie in cui la donna non lavora e accudisce i figli. L’esatto contrario di quel che i politici e gli studiosi di matrice liberale racco ­mandano: aiutare le donne inoccupate a trovare un lavoro, detassando il lavoro femminile. Per non parlare di un’altra differenza, forse ancora più im ­portante: in materia di federalismo, nonostante tutto, il partito di Bersani è più sensibile (meglio: meno insensibile) alle istanze del Nord di quanto lo siano i partiti del Terzo polo, profondamente radi ­cati nel Mezzogiorno e perennemente tentati da logiche assistenziali.

Un fatto è che, nell’arcipelago Monti, il peso del mondo laico e liberale è ormai al minimo, mentre quello del moderatismo cattolico è massimo, spe ­cie dopo che il ministro Passera è stato costretto al passo indietro, e la rappresentanza della cosid ­detta società civile è stata interamente appaltata a Verso la terza Repubblica, il movimento scaturi ­to dalla confluenza fra Italia Futura e innumere ­voli sigle dell’associazionismo cattolico. Ecco per ­ché, all’inizio, parlavo di sconforto ma anche di solitudine. Oggi, chi avrebbe voluto cambiare deci ­samente rotta, lasciandosi alle spalle la vecchia classe politica, imboccando risolutamente la stra ­da delle riforme liberali – meno spesa, meno tasse, meno Stato – è disperatamente solo. E, quel che più dispiace, è solo non perché siamo in pochi, ma perché siamo in tanti ma senza rappresentanza. Nella lista Monti le istanze genuinamente liberali contano poco. I radicali, nonostante gli scioperi della fame (o a causa di essi?), sono quasi scom ­parsi dalla scena politica. Giannino e il suo movi ­mento sono sostanzialmente ignorati dai media. Renzi è stato sconfitto e i suoi uomini sono tenuti ai margini del Pd. Gli elettori non contano nulla, perché i giochi si faranno dopo, in Parlamento, co ­me ai tempi di Craxi, Forlani e Andreotti. In breve, se non vogliamo né Grillo né il ritorno del grande demagogo, la scelta è fra Pci e Dc. Anzi non c’è vera scelta, perché Bersani e Monti governeran ­no insieme. Che dire?
Buon anno, e ben tornati nella prima Repub ­blica.


La presunzione al potere
di Vittorio Feltri
(da “il Giornale”, 31 dicembre 2012)

Sarà perché il bipolarismo muscolare dominante degli ultimi 18 anni, trascorsi fra tribolazioni e speranze frustrate, ha fatto perdere la poesia e la pa ­zienza agli italiani, adesso non vanno più di moda le opinioni politiche nette. Nel 1994 su una rete (al ­lora) Fininvest andò in onda, con ­dotto da Pia Luisa Bianco, un pro ­gramma settimanale dal titolo ri ­velatore degli umori e delle ten ­denze dell’epoca (infuriava Mani pulite e pareva che davvero avan ­zasse il nuovo): Di qua o di là. Le opzioni in effetti erano due: o ci si piazzava sulla sponda di destra o su quella di sinistra. Tertium non datur.

E infatti alle elezioni che si svol ­sero quell’anno, la Dc (ribattezzata per l’occasione Ppi), fino a qualche mese prima detentrice della maggioranza relativa, scompar ­ve; a seppellirla fu un signore tal ­mente serio da essere negato a guidare un partito: Mino Martinazzoli, detto Cipresso o Due novem ­bre, del quale serbiamo un buon (stavo per dire mesto) ricordo. Contro ogni previsione, vinse Sil ­vio Berlusconi, ideatore di quel programma televisivo interprete del momento politico fa ­vorevole al bipolarismo e ostile al proporzionalismo, considerato causa di ogni male della Prima Repubblica.

Oggi è tutto diverso. Nel giro di pochi mesi abbiamo assistito a un ribalta ­mento di «gusti »: chi sta di qua è aut e chi sta di là, pure. Siamo al trionfo del «né carne né pesce ». Va forte il centri ­smo ovvero il terzismo nella sua versio ­ne più distorta: un luogo politico fre ­quentato prevalentemente da nostalgici (consapevoli e no) della Dc, il cui campione è Pier Ferdinando Casini, fa ­moso coperchio adatto a qualsiasi pentola. Il leader dell’Udc, già forlaniano, già berlusconiano, ha trovato nelle orazioni «esalate » da Mario Monti il carburante  giusto per lanciarsi in un’avventu ­ra dall’esito incerto: costituire un terzo polo alternativo alla destra e alla sini ­stra. Operazione facile, a parole; diffici ­lissima nei fatti.

Una formazione mediana avrebbe un senso, e molte chance, se fosse trainata da forze fresche, incontaminate dai vizi della Casta e immuni dal trasformismo imperante nel Palazzo; in realtà, essa è un condensato di rottami rugginosi so ­pravvissuti non si sa come ai mutamen ­ti della storia, gente fautrice della deca ­denza in atto, vecchi arnesi alla ricerca di una scialuppa per continuare a galleg ­giare nella palude della mediocrità.

Mi riferisco allo stesso Casini, a Gian ­franco Fini, a Beppe Pisanu, a Lorenzo Cesa e ai tanti altri che hanno un cogno ­me ma non sono mai riusciti a farsi un nome, nonostante abbiano occupato la Rai e compaiano in video dalla mattina alla sera. Non si capisce come una brigata simile, pur capitanata da Monti, re dei bluff, e benedetta dal Vaticano, pos ­sa aspirare a battere sia Silvio Berlusco ­ni sia Pier Luigi Bersani, e conquistare la maggioranza. Velleitarismo? Illusio ­ne? Non credo. Penso piuttosto si tratti di presunzione, che è la cifra più alta del Professore, dato che questi si autodefi ­nisce salvatore della patria pur avendone, in soli 13 mesi, peggiorato i conti in ogni campo.

Il bello è che i cittadini sono consape ­voli dell’inganno, ma sopportano. Sop ­porteranno anche in cabina elettorale? Ne dubito. La sensazione è che i centri ­sti si attengano ai giudizi positivi dei media, giornaloni di carta e telegiornalini, impegnati all’unisono a decantare (per convenienza degli editori) le virtù del loden e dei suoi estimatori. Bisogna riconoscere che uno dei pochi addetti ai lavori ad essersi accorto del proble ­ma è il segretario del Pd. Il quale sollecita Monti a confessare a che gioco sta gio ­cando: dopo le consultazioni di febbraio, con chi ti alleerai? Con noi progressisti o con i berlusconiani? 0 supponi di prenderti tutto il piatto e di governare da solo?

Poiché quest’ultima ipotesi si basa sulle nuvole, è probabile che il bocco ­niano, invece, dopo aver letto tanti elo ­gi rivolti alla propria persona, si sia con ­vinto di essere uno statista e di meritare un plebiscito da parte degli italiani. Un sogno. A mala pena riuscirà, con la compagnia del fil di ferro in cui si ritrova, a portare a casa un 15-20 per cento che gli servirà per svegliarsi e constatare di es ­sere soltanto un comprimario, senza i numeri per rientrare a Palazzo Chigi, e costretto a scendere a patti con Bersani.

Così ci sorbiremo una maggioranza di centrosinistra puntellata dal senato ­re a vita, già uomo extrapartes, quello di cui avremmo dovuto fidarci perché di ­sinteressato alla politica. Già, la politi ­ca. L’unica cosa che gli preme. Professo ­re, getti la maschera, e così sia. Si può fingere per un po’, ma non a lungo.


La patrimoniale nelle urne
di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
(dal “Corriere della Sera”, 31 dicembre 2012)

Vi è molta confusione, e preoccupazione, sull’ipotesi che il prossimo governo possa introdurre un’imposta patrimoniale. Sarebbe importante che chi si appresta a chiedere il voto ai cittadini spieghi con precisione se, come, e in quale misura intende tassare la ricchezza delle famiglie. L’agenda Monti fa genericamente riferimento all’opportunità di «trasferire il carico fiscale sui grandi patrimoni ».

Il Pd pare invece orientato verso un’imposta ordinaria (cioè che si applichi ogni anno, come accade in Francia) e che colpisca tutto il patrimonio oltre una data soglia. Innanzitutto occorre distinguere fra una patrimoniale una tantumâ—evocata da chi, come Giuliano Amato, vorrebbe abbattere una volta per tutte il debito â— e un’imposta ordinaria. Una patrimoniale una tantum sarebbe nella migliore delle ipotesi inutile, nella peggiore fatale. Per ridurre il rapporto fra debito e prodotto interno (Pil) sono necessari crescita, conti pubblici in attivo e tassi di interesse moderati. Nulla che possa essere influenzato da un’una tantum.

Una simile imposta abbasserebbe il livello del debito, ma non ne muterebbe la dinamica. Dopo qualche anno torneremmo da capo. Con l’aggravante che la riduzione del debito potrebbe diffondere l’illusione che i problemi sono stati risolti e che quindi si può ricominciare a spendere. È già successo all’inizio del decennio scorso, quando i benefici delle privatizzazioni svanirono nell’arco di una legislatura. Se invece si pensa a una patrimoniale ordinaria (ricordando che una in Italia c’è già, l’Imu) questa andrebbe valutata all’interno di una revisione generale delle imposte: sui redditi da lavoro, sui consumi, sulla casa, sulle attività finanziarie. È possibile che il peso relativo di alcune di queste imposte sia sproporzionato. Per porvi rimedio il prossimo governo potrebbe nominare una Commissioneâ—come quella che, nel 1972, su impulso di Bruno Visentini, propose il testo unico delle imposte dirette â— con il compito di rimodulare le aliquote. Affermazioni generiche su questa o quella patrimoniale, una tantum o perenne, hanno il solo effetto di aumentare l’incertezza di cittadini e investitori.

Il sistema impositivo è un meccanismo complesso (che andrebbe tra l’altro semplificato), che non si può correggere modificandone una parte, come se fosse indipendente dal resto. Ma una Commissione tecnica potrebbe solo suggerire la configurazione di imposte più efficiente, cioè quella che consentirebbe allo Stato di raccogliere un determinato gettito con i minori costi per famiglie e imprese, e con la desiderata progressività del sistema nel suo complesso. Ma una Commissione tecnica non potrà dire quale sia il livello di pressione fiscale ottimale. Questa è una scelta politica, che dipende dal livello di spesa che il governo ritiene desiderabile. E qui sta il punto. La campagna elettorale sembra concentrarsi su quale sia il modo migliore per tassare gli italiani. Invece si dovrebbe discutere di come riformare lo Stato, in modo che esso non pesi per la metà del Pil, con effetti fra l’altro molto deludenti sulla redistribuzione del reddito a favore dei meno abbienti. L’onorevole Bersani dovrebbe dire in modo chiaro quale è il livello di spesa pubblica che ritiene compatibile con una ripresa della crescita. Analogamente, l’agenda che Mario Monti propone agli italiani avrebbe dovuto indicare un obiettivo per la riduzione del rapporto fra spesa pubblica e Pil da attuarsi nell’arco della prossima legislatura.


Berlusconi: «Inchiesta anche su Napolitano »
di Redazione
(dal “Corriere della Sera”, 31 dicembre 2012)

Silvio Berlusconi ha ribadito l’intenzione, in caso di vittoria alle elezioni, di creare una commissione di inchiesta parlamentare sulla caduta del suo governo nel 2011 e la nascita del governo Monti. L’indagine potrebbe riguardare anche le massime istituzioni del Paese, compreso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: «Non voglio dare giudizi al riguardo – ha dichiarato Berlusconi – sarà una commissione di inchiesta eventualmente a far emergere ruoli che ciascuno ha svolto in quell’occasione ».
L’INTERVISTA – Il leader del Pdl ha rilasciato una lunga intervista a Radio Capital. «Certamente ci fu un uso criminale dello spread che nessuno conosceva, e che portava a un aumento solo di 2 punti e quindi intorno a 5 miliardi di spesa in più nel 2011. Di fronte a 800 miliardi di spesa pubblica nell’anno, 5 miliardi sono un’inezia che si può recuperare in piccolissimi aggiustamenti di tasse su giochi, scommessi, tabacchi e alcolici. Proprio come abbiamo fatto, non facendo pagare l’Imu agli italiani ».

AGGRESSIONE – Dunque, cinque miliardi «non giustificavano quella campagna di aggressione nei confronti del nostro governo », ha insistito Berlusconi, «sono stati tanti gli interventi che hanno concorso in quella direzione, primo tra tutto il tradimento di Fini. Quale è stata la promessa fatta a Fini perchè compisse quell’atto di tradimento degli elettori e contro le leggi della democrazia? Credo che ne verranno fuori delle belle, anzi delle brutte ».


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Bart