Napolitano si alza lo stipendio30 Novembre 2012 di Franco Bechis Il bel gesto evidente Âmente non è arrivato. Dopo anni di tagli ai costi della po Âlitica, la rabbia popolare e la scure calata anche dal gover Âno di Mario Monti, l’unico a non avere tirato la cinghia nelle istituzioni italiane è Giorgio Napolitano. Certo, nessuno ha osato toccare lo stipendio personale del presi Âdente della Repubblica, aspettando quel bel gesto che non è arrivato. IN SOLITUDINE Ma fa impressione scoprire che lo stipendio di Napolita Âno sarà l’unico in tutto il comparto pubblico ad au Âmentare nel 2013. La notizia è nascosta fra i trasferimenti del ministero dell’Economia sui costi della politica raccon Âtati dalla tabella 2 allegata alla legge di stabilità . QUIRINALE RECORD AH’intemo della classifica delle istituzioni è quella che sale di più in un anno di pe Âsanti tagli: 5.88% nel triennio. Per fare subito un raffronto, il costo della Camera dei depu Âtati scenderà invece nello stesso periodo del 5% e quel Âlo del Senato della Repubbli Âca del 6,21%. MAGISTRATI OK Ma si salvano dalla sforbi Âciata anche tutti i giudici, di cui Napolitano – va ricordato – è presidente (tra le sue pre Ârogative c’è infatti la guida del Csm). Nel triennio la Cor Âte Costituzionale vedrà salire la propria spesa del 3.02%, il Consiglio superiore della ma Âgistratura del 2,04%, il Consi Âglio di Stato e i tribunali am Âministrativi  regionali dell’1,48% e la Corte dei Con Âti – organo dei magistrati con Âtabili che tuonano sempre contro la spesa pubblica – avrà un bilancio in aumento dell’1,17%. ANOMALIA EUROPEA Per quel palazzo si spende sette volte e mezzo quel che l’Inghilterra concede a Buc- kingham Palace e alla sua Re Âgina Elisabetta, più del dop Âpio di quel che costa alla Francia l’Eliseo e il suo attua Âle inquilino, Francois Hollande. Per vedere le tabelle, seconda pagina qui. Napolitano si alza lo stipendio, il Quirinale smentisce: ecco il documento che lo inchioda Giorgio Napolitano si è aumentato o no lo stipendio?  Franco Bechis, su  Libero  in edicola oggi, venerdì 30 novembre, ha ricordato come in un periodo di crisi così profonda e generalizzata,  il presidente della Repubblica sia stato l’unico ad uscire indenne dalla spending review: nel 2013 incasserà altri 8.835 euro oltre ai 239.192 che già prende. Via Twitter, arriva la smentita del Quirinale per bocca del portavoce di Napolitano  Pasquale Cascella: “Notizia, appunto, faziosa l’assegno al presidente Napolitano è congelato a livello del 2010 (comunicato Quirinale 30 luglio 2011)”, scrive replicando a un tweet diIl fazioso  che rilanciava l’articolo di  Libero. La richiesta del Colle  – Nel comunicato del Quirinale di luglio 2011 si riferiva che “il Presidente della Repubblica ha comunicato al Ministro dell’Economia e delle finanze di rinunciare, dal corrente anno e fino alla scadenza del suo mandato, all’adeguamento all’indice dei prezzi al consumo – stabilito dalla legge 23 luglio 1985, n. 372 – dell’assegno attribuitogli dalla stessa legge ai sensi dell’art. 84 della Costituzione”. Il Quirinale, dunque, ha rinunciato all’adeguamento. Ma com’è andata veramente? Lo spiega, in questa controreplica indirizzata a Cascella, lo stesso Bechis. La controreplica di Bechis  – “Caro Pasquale,  di buone intenzioni sono lastricati tutti i pavimenti del mondo. Purtroppo la realtà è spesso diversa dagli annunci, e nella vita politica questa è la regola- non la eccezione. Come puoi leggere nel materiale che tu stesso mi hai inviato, anche io commentai con molto favore la buona intenzione annunciata dal presidente Giorgio Napolitano. Potrai capire meglio di me la delusione (anche sul piano personale) nel vedere provato che quella buona intenzione è restata un semplice annuncio privo di effetti.Ti allego la tabella del Tesoro allegata alla legge di bilancio 2012  e non modificata in questa parte nel documento bis di variazione dopo le prime modifiche operate alla Camera dei deputati. Come puoi leggere, al presidente Napolitano (e parzialmente al suo successore) è stato incrementato l’assegno personale negli esatti termini riportati nell’articolo scritto”. Siccome questo è un documento ufficiale di spesa, compilato dal ministro dell’Economia e stampato dalla Camera dei deputati, fa fede fino a prova documentale contraria più di intenzioni anche magnanime e autorevoli annunciate in passato. La realtà è stampata nera su bianco. Ora forse la tua domanda “ma come ti vengono?” andrebbe rivolta agli uffici del Quirinale, che evidentemente non hanno comunicato a nessuno in maniera ufficiale la lodevole intenzione del Presidente di rinunciare all’aumento del suo stipendio. E se dalla tua inchiesta interna dovessero risultari elementi contrari a questa ipotesi (gli uffici del Quirinale hanno segnalato ufficialmente quella rinuncia al governo), allora rivolgi questa domanda al ministero dell’Economia che si ostina a volere aumentare lo stipendio al Presidente Napolitano contro la sua stessa volontà . Facendo solo il cronista, ho riportato quello che documenti ufficiali- atti della Repubblica italiana- scrivono. Altro non avrei potuto scrivere, e spero che tu comprenda leggendo l’allegato che ti invio”. La vittoria del partito superstite Domenica sera sapremo chi, fra Bersani e Renzi, sarà il candidato premier del centro sinistra. Primo nodo: il centro-sinistra prenderebbe più voti con Renzi o con Bersani? Quasi tutti i protagonisti ritengono di saperlo, ma nessuno lo sa veramente. Secondo alcuni Renzi porterebbe al centro-sinistra diversi milioni di elettori disgustati dalla politica e/o delusi dal centro-destra, secondo altri provocherebbe la spaccatura del centro-sinistra e la nascita di un raggruppamento politico alla sinistra del Pd. Probabilmente succederebbero entrambe le cose, visto che Renzi è detestato da una parte dei suoi stessi compagni di partito, ma è impossibile stabilire se il saldo fra voti persi e voti conquistati sarebbe positivo o negativo. Secondo nodo: l’accesso al ballottaggio. Vedremo come evolveranno le cose nelle prossime ore, ma quello che è evidente fin da adesso è che, limitando la partecipazione al ballottaggio di domenica prossima, l’apparato del Pd sta pagando un prezzo piuttosto alto per garantire l’affermazione del suo segretario. L’idea che per accedere al secondo turno si debba portare una «giustificazione » (come a scuola!), e che ci sia un organismo politico (il «Coordinamento Provinciale delle Primarie Italia Bene Comune », in pratica i funzionari del Pd) deputato a vagliare se la giustificazione è valida oppure no, è semplicemente grottesca, un buffo riflesso burocratico-stalinista che rischia di ritorcersi contro chi l’ha inventato. Perché è vero che chiudere l’accesso al ballottaggio avvantaggia Bersani, che ha già vinto al primo turno, ma è anche vero che, sul piano simbolico, avvantaggia Renzi, se non altro perché mostra di che pasta sono gli apparati per la cui rottamazione il sindaco di Firenze si batte. Senza contare la reazione di chi, escluso dal ballottaggio, negherà il suo voto al Pd alle elezioni vere, un sentimento e un’intenzione che ho già avvertito da più parti. L’attenzione del pubblico e dei media su questi due nodi, tuttavia, rischia di non farci cogliere la straordinaria trasformazione del paesaggio politico che – in questi mesi – si sta producendo sotto i nostri occhi. Non solo la nascita di protagonisti nuovi (Grillo e il Movimento cinque stelle) e l’autodistruzione di protagonisti vecchi (Berlusconi e il Pdl), ma la vera e propria mutazione che sta scuotendo il maggior partito della sinistra. La sfida di Renzi, anche se dovesse terminare domenica con una sconfitta, sta cambiando e cambierà definitivamente il Pd. Dopo quella sfida, e grazie a quella sfida, il Pd avrà per la prima volta – accanto alla componente socialdemocratica tuttora maggioritaria – una componente liberalsocialista o di «sinistra liberale » di peso politico non trascurabile. Il Pd del futuro non sarà più un partito diviso fra comunisti e cattolici, o fra massimalisti e ortodossi, ma un partito in cui la componente socialdemocratica (oggi ben rappresentata da Bersani) e quella liberaldemocratica (oggi ben rappresentata da Renzi) competeranno per la guida del partito. Ma c’è anche un altro aspetto che merita forse di essere notato. Il mondo politico della seconda Repubblica è oggi un incredibile cimitero di rovine, su tutti i piani. Quasi tutti gli uomini e le donne che hanno occupato gli schermi televisivi negli ultimi venti anni hanno perso ogni credibilità . In giro non si sentono più idee ma solo «dichiarazioni » di nessun interesse, messaggi più o meno in codice ad uso e consumo dei soli politici. I partiti si sono dissolti, travolti dalle inchieste giudiziarie e dall’indifferenza dei cittadini. La destra è un’armata allo sbando, senza progetti e senza senso del ridicolo. Il centro nasconde, dietro l’evocazione rituale – quasi un mantra – di Monti e della sua agenda, il suo vuoto spinto di idee e di uomini. In questa situazione il Partito democratico, di cui personalmente ho sempre visto e sottolineato gli immensi difetti, si staglia come l’unico «monumento » della seconda Repubblica che ha saputo sopravvivere al terremoto che il ceto politico ha provocato a sé stesso. Ha un’organizzazione, una rete di sedi e di militanti, un dibattito interno. Con le primarie ha saputo creare l’unico evento significativo di riavvicinamento dei cittadini alla politica. E con Renzi e Bersani ha offerto due candidati che possono piacere più o meno a ciascuno di noi, ma sono comunque fra i migliori politici in circolazione in Italia. Insomma il Partito democratico gode oggi di un prestigio relativo altissimo. Un prestigio che è tanto più significativo, o sorprendente, se pensiamo che anch’esso è coinvolto in diverse inchieste, anch’esso è pieno di personaggi che non avrebbero reso orgoglioso Enrico Berlinguer. E’ questo prestigio relativo che spiega il fatto più interessante del nuovo panorama politico che si è andato consolidando negli ultimi mesi: il dibattito programmatico, le alternative fra cui scegliere, le poche idee sulle quali vale la pena scontrarsi, sono ormai quasi tutte dentro il Partito democratico. Ai suoi militanti, o a molti di essi, tutto questo sembra divisione, lacerazione, una ferita dolorosa. A Gramsci, invece, sarebbe parsa una (strana) forma di egemonia. La società italiana è così allo sbando che l’ultimo partito rimasto, anch’esso piuttosto logoro, disastrato e pieno di acciacchi, rischia di diventare l’unico luogo in cui si gioca davvero il futuro del Paese. Ecco perché la competizione fra Renzi e Bersani non indebolisce il Partito democratico, ma semmai lo rende più capiente, più capace di intercettare gli umori della società esterna. C’è solo da sperare che questa opportunità sia colta e coltivata, piuttosto che gettata al vento: magari anche lasciando che, domenica, chi vuole votare sia libero di farlo. Così Bersani usa il paracarro per fermare Renzi Per valutare la paura della vecchia nomenclatura comunista, e democristiana di sinistra, di fronte alla prepotente novità costituita dal ballottaggio che Matteo Renzi è riuscito a imporre a Pier Luigi Bersani nelle primarie di coalizione del cosiddetto centrosinistra, bastava vedere ieri davanti alle telecamere la faccia e sentire la voce concitata di Luigi Berlinguer. Il quale, a ottant’anni ben compiuti e pur densi -non c’è dubbio- di studi, d’insegnamento universitario e di attività politica, svolta in Parlamento, al governo come ministro della Pubblica Istruzione e al Consiglio Superiore della Magistratura, deve le sue attuali funzioni di presidente dei probiviri del Pd e della commissione, o comitato, come si chiama, di garanzia delle primarie, soprattutto al ricordo, al rispetto e all’affetto che in tanta parte dei suoi compagni si nutrono ancora per il cugino Enrico. Mi riferisco naturalmente allo storico segretario del Pci morto sul campo nella primavera del 1984, devastato da un ictus durante un comizio a Padova, nel pieno dello scontro con un «eretico » della sinistra quale egli considerava il leader del Psi Bettino Craxi, arrivato l’anno prima addirittura, per i suoi gusti, alla guida di un governo di coalizione fra democristiani, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali. Tocca ora a un altro «eretico » della sinistra, Matteo Renzi appunto, questa volta non fuori ma ben piantato in quella versione ultima del Pci che è il Pd, turbare di notte e di giorno i vecchi compagni, subito confortati da Luigi Berlinguer. Che ha raccolto e condiviso con rapidità a dir poco sospetta le proteste del concorrente di Renzi, cioè il segretario non certo ininfluente del partito, e dei tre corridori appiedati dall’esito del primo turno, contro la mobilitazione che il sindaco di Firenze sta cercando di attivare con i mezzi antichi e moderni della pubblicità attorno al ballottaggio di domenica prossima. Al quale le stesse regole delle primarie, non le invenzioni o stravaganze di qualcuno, consentono che cerchino di registrarsi e poi di partecipare anche quanti non lo hanno fatto domenica scorsa, pur dovendone motivare le ragioni ed esponendosi naturalmente al rischio di vedersele bocciate dagli appositi comitati. Ebbene, è bastata l’idea che queste richieste, grazie anche all’accesso per posta elettronica, diventassero superiori alle aspettative, o agli interessi, dei vertici del partito perché questi perdessero più o meno letteralmente la testa. E gridassero per bocca addirittura della massima autorità di garanzia del Pd, il povero – a questo punto – Berlinguer, contro i tentativi di «inquinare l’informazione », di «ingannare gli elettori » e via dicendo. I tentativi cioè di ampliare la base elettorale del primo turno a tal punto da poter compromettere la vittoria che a tavolino Bersani sente di avere già in tasca per «il profumo di sinistra » che Nichi Vendola sta diffondendo a suo favore in quel 15 per cento di elettori che al primo turno si sono schierati con il governatore della Puglia. Se è «l’inferno » quello che i sostenitori di Renzi volevano e vogliono provocare, come qualcuno di loro si è lasciato scappare spingendo quanta più gente possibile a cercare di registrarsi, Berlinguer ha opposto agli uni e agli altri «il paradiso ». Non quello però degli angeli e dei santi evocato nel primo «confronto » televisivo di queste primarie da Bersani, quando manifestò la sua devozione, diciamo così, per Papa Giovanni, ma il paradiso della normalizzazione. Una specialità , quest’ultima, che la tradizione comunista conosce bene quanto quella, opposta, della rivoluzione. Annunciare e perseguire il paradiso della normalizzazione significa chiudere a doppia o tripla mandata i registri delle iscrizioni al ballottaggio. Limitarle al massimo. Respingerne il più possibile per mettere quanto più al sicuro il risultato atteso da Bersani. Il quale, incauto, si è arroccato nella difesa della platea degli elettori del primo turno dicendo: «Non mi sposto ». Ha deciso insomma di trasformarsi in un paracarro, a dispetto delle aperture che gli vanno riconosciute nella fase preparatoria del primo turno. Ma anche i paracarri, si sa, specie quelli posticci, fanno prima o dopo una brutta fine. Ciò che il segretario del Pd e i suoi garanti più o meno ufficiali stanno sottovalutando è il rischio, per loro, non di contenere ma di moltiplicare la capacità d’urto e l’appeal di Renzi. Che, quanto più alto risulterà il numero delle iscrizioni chieste ma negate al secondo turno delle primarie, tanto più potrà validamente protestare per quelle procedure e per quei metodi che già ieri egli ha giustamente definito «bulgare », commentando i ricorsi contro le iniziative dei suoi sostenitori. E potrà considerarsi ed essere considerato, fuori ma anche dentro il partito, il vincitore morale di un ballottaggio perduto solo per una gestione chiusa, burocratica e partigiana di una consultazione risultata così fortemente gradita dagli elettori. Le resistenze immediatamente opposte ieri dai vertici del Pd ai tentativi di allargare le maglie della partecipazione al voto di domenica aiutano a capire meglio anche il basso profilo scelto personalmente da Bersani nella gestione televisiva del primo turno. Quando, in particolare, egli volle tenersi lontano dalle utenze della Rai per il primo e unico confronto fra tutti i candidati preferendo quelle più contenute di Sky. Costretti per ragioni, diciamo così, di decenza mediatica a non sottrarsi invece alla Rai per il confronto tra i due protagonisti della prova finale, i sostenitori di Bersani sono rimasti impressionati non solo e non tanto dalla prova di maggiore freschezza data da Renzi, naturale per ragioni non foss’altro anagrafiche, ma dalle cifre dell’audience. I sei milioni e mezzo di telespettatori richiamati l’altra sera dall’appuntamento con i protagonisti del ballottaggio sono stati più del doppio dei tre milioni e centomila elettori del primo turno. Roba da fare rizzare i capelli non dico a Bersani, che non li ha, o quasi, ma a quei parrucconi di compagni, e compagne, di provenienza comunista o democristiana, accomunati dal panico di una esondazione di quel guastafeste che è e si chiama Renzi. Con il quale però essi sono comunque destinati a continuare a fare i conti. Un osso duro che probabilmente farà loro rimpiangere persino i tempi delle guerre «puniche » con Silvio Berlusconi. Sull’avvicinamento dei moderati a Renzi, Maurizio Belpietro, qui. Letto 4618 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||