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Napolitano si alza lo stipendio

30 Novembre 2012

di Franco Bechis
(da “Libero”, 30 novembre 2012)

Il bel gesto evidente ­mente non è arrivato. Dopo anni di tagli ai costi della po ­litica, la rabbia popolare e la scure calata anche dal gover ­no di Mario Monti, l’unico a non avere tirato la cinghia nelle istituzioni italiane è Giorgio Napolitano. Certo, nessuno ha osato toccare lo stipendio personale del presi ­dente della Repubblica, aspettando quel bel gesto che non è arrivato.

IN SOLITUDINE

Ma fa impressione scoprire che lo stipendio di Napolita ­no sarà l’unico in tutto il comparto pubblico ad au ­mentare nel 2013. La notizia è nascosta fra i trasferimenti del ministero dell’Economia sui costi della politica raccon ­tati dalla tabella 2 allegata alla legge di stabilità.
Per il capo dello Stato – che resterà in carica solo i primi mesi dell’anno – lo stipendio verrà aumentato di 8.835 eu ­ro l’anno, passando a 248.017 euro. Non riguarderà Napoli ­tano, ma la crescita continue ­rà anche l’anno dopo, quan ­do passerà a 253.255 euro. Eppure c’erano mille buone ragioni per spingere Napoli ­tano a chiedere al governo di usare le forbici anche sull’as ­segno del presidente della Repubblica, invece di au ­mentarlo. Sarebbe stato un gesto nobile, e avrebbe pesa ­to poco sulle finanze perso ­nali, visto che lo stipendio per il Capo dello Stato è quasi inutile: non paga pratica- mente nulla di tasca sua, e inoltre l’attuale inquilino avrebbe convissuto con quei tagli solo cinque mesi. Non avendolo fatto, l’assegno per ­sonale del capo dello Stato è fra le poche voci a crescere nella legge di bilancio.

QUIRINALE RECORD

AH’intemo della classifica delle istituzioni è quella che sale di più in un anno di pe ­santi tagli: 5.88% nel triennio. Per fare subito un raffronto, il costo della Camera dei depu ­tati scenderà invece nello stesso periodo del 5% e quel ­lo del Senato della Repubbli ­ca del 6,21%.
Dai tagli si sono salvati an ­che tutti i collaboratori e gli organi istituzionali più cari a Napolitano. Al secondo posto in classifica ci sono infatti le spese complessive del Quiri ­nale: nel 2013 sono fra le po ­che a non subire tagli, nel triennio aumentano addirit ­tura del 3,52%. Proprio il pa ­lazzo della politica che costa più al mondo è riuscito anche in questo frangente a dare il peggiore esempio di tutti.

MAGISTRATI OK

Ma si salvano dalla sforbi ­ciata anche tutti i giudici, di cui Napolitano – va ricordato – è presidente (tra le sue pre ­rogative c’è infatti la guida del Csm). Nel triennio la Cor ­te Costituzionale vedrà salire la propria spesa del 3.02%, il Consiglio superiore della ma ­gistratura del 2,04%, il Consi ­glio di Stato e i tribunali am ­ministrativi  regionali dell’1,48% e la Corte dei Con ­ti – organo dei magistrati con ­tabili che tuonano sempre contro la spesa pubblica – avrà un bilancio in aumento dell’1,17%.
Per i giudici e tutti questi organi costituzionali o a rile ­vanza costituzionale a dire il vero il governo di Mario Monti era stato più generoso, con aumenti che però sono stati considerati eccessivi dal Parlamento. La Tabella alle ­gata alla legge di bilancio e a quella di stabilità per il 2013 è stata robustamente emenda ­ta nel primo passaggio alla Camera dei deputati. Lì nes ­suno ha osato toccare lo sti ­pendio di Napolitano e lo stanziamento per il Quirina ­le, anche se era saltata all’oc ­chio l’anomalia. Ma i deputa ­ti di vari fronti che non ama ­no grandemente i magistrati, hanno fatto scattare le forbici sui bilanci di Corte dei Conti, Tar, Consiglio di Stato e Csm (oltre che su quello del Cnel che era restato sostanzial ­mente invariato nella propo ­sta governativa).
Resta comunque clamoro ­so il caso Napolitano- Quiri ­nale.

ANOMALIA EUROPEA

Per quel palazzo si spende sette volte e mezzo quel che l’Inghilterra concede a Buc- kingham Palace e alla sua Re ­gina Elisabetta, più del dop ­pio di quel che costa alla Francia l’Eliseo e il suo attua ­le inquilino, Francois Hollande.
E non è questione di ma ­nutenzione di mura e arredi: i bilanci dicono che un dipen ­dente del Quirinale ha un co ­sto di mantenimento doppio rispetto a quello di un suo pa ­ri grado all’Eliseo e addirittu ­ra il triplo di un dipendente della Regina di Inghilterra.
Quello del Quirinale è un bilancio che fa scandalo in tutto il mondo: il segno di una grandeur che l’Italia non può permettersi e che gli ita ­liani non si permettono or ­mai da lungo tempo.

Per vedere le tabelle, seconda pagina qui.


Napolitano si alza lo stipendio, il Quirinale smentisce: ecco il documento che lo inchioda
di Redazione
(da “Libero”, 30 novembre 2012)

Giorgio Napolitano si è aumentato o no lo stipendio?  Franco Bechis, su  Libero  in edicola oggi, venerdì 30 novembre, ha ricordato come in un periodo di crisi così profonda e generalizzata,  il presidente della Repubblica sia stato l’unico ad uscire indenne dalla spending review: nel 2013 incasserà altri 8.835 euro oltre ai 239.192 che già prende. Via Twitter, arriva la smentita del Quirinale per bocca del portavoce di Napolitano  Pasquale Cascella: “Notizia, appunto, faziosa l’assegno al presidente Napolitano è congelato a livello del 2010 (comunicato Quirinale 30 luglio 2011)”, scrive replicando a un tweet diIl fazioso  che rilanciava l’articolo di  Libero.

La richiesta del Colle  – Nel comunicato del Quirinale di luglio 2011 si riferiva che “il Presidente della Repubblica ha comunicato al Ministro dell’Economia e delle finanze di rinunciare, dal corrente anno e fino alla scadenza del suo mandato, all’adeguamento all’indice dei prezzi al consumo – stabilito dalla legge 23 luglio 1985, n. 372 – dell’assegno attribuitogli dalla stessa legge ai sensi dell’art. 84 della Costituzione”. Il Quirinale, dunque, ha rinunciato all’adeguamento. Ma com’è andata veramente? Lo spiega, in questa controreplica indirizzata a Cascella, lo stesso Bechis.

La controreplica di Bechis  – “Caro Pasquale,  di buone intenzioni sono lastricati tutti i pavimenti del mondo. Purtroppo la realtà è spesso diversa dagli annunci, e nella vita politica questa è la regola- non la eccezione. Come puoi leggere nel materiale che tu stesso mi hai inviato, anche io commentai con molto favore la buona intenzione annunciata dal presidente Giorgio Napolitano. Potrai capire meglio di me la delusione (anche sul piano personale) nel vedere provato che quella buona intenzione è restata un semplice annuncio privo di effetti.Ti allego la tabella del Tesoro allegata alla legge di bilancio 2012  e non modificata in questa parte nel documento bis di variazione dopo le prime modifiche operate alla Camera dei deputati. Come puoi leggere, al presidente Napolitano (e parzialmente al suo successore) è stato incrementato l’assegno personale negli esatti termini riportati nell’articolo scritto”.

Siccome questo è un documento ufficiale di spesa, compilato dal ministro dell’Economia e stampato dalla Camera dei deputati, fa fede fino a prova documentale contraria più di intenzioni anche magnanime e autorevoli annunciate in passato. La realtà è stampata nera su bianco. Ora forse la tua domanda “ma come ti vengono?” andrebbe rivolta agli uffici del Quirinale, che evidentemente non hanno comunicato a nessuno in maniera ufficiale la lodevole intenzione del Presidente di rinunciare all’aumento del suo stipendio. E se dalla tua inchiesta interna dovessero risultari elementi contrari a questa ipotesi (gli uffici del Quirinale hanno segnalato ufficialmente quella rinuncia al governo), allora rivolgi questa domanda al ministero dell’Economia che si ostina a volere aumentare lo stipendio al Presidente Napolitano contro la sua stessa volontà. Facendo solo il cronista, ho riportato quello che documenti ufficiali- atti della Repubblica italiana- scrivono. Altro non avrei potuto scrivere, e spero che tu comprenda leggendo l’allegato che ti invio”.


La vittoria del partito superstite
di Luca Ricolfi
(da “La Stampa”, 30 novembre 2012)

Domenica sera sapremo chi, fra Bersani e Renzi, sarà il candidato premier del centro sinistra.
E forse sapremo anche chi ci governerà nei prossimi anni, visto che la coalizione guidata dal Partito democratico ha buone possibilità di vincere le elezioni, né possiamo escludere che, oltre a vincere le elezioni, riesca persino a formare un governo. Si capisce dunque il clima surriscaldato di questi giorni, un clima che si è fatto rovente soprattutto intorno a due nodi.

Primo nodo: il centro-sinistra prenderebbe più voti con Renzi o con Bersani? Quasi tutti i protagonisti ritengono di saperlo, ma nessuno lo sa veramente. Secondo alcuni Renzi porterebbe al centro-sinistra diversi milioni di elettori disgustati dalla politica e/o delusi dal centro-destra, secondo altri provocherebbe la spaccatura del centro-sinistra e la nascita di un raggruppamento politico alla sinistra del Pd. Probabilmente succederebbero entrambe le cose, visto che Renzi è detestato da una parte dei suoi stessi compagni di partito, ma è impossibile stabilire se il saldo fra voti persi e voti conquistati sarebbe positivo o negativo.

Secondo nodo: l’accesso al ballottaggio. Vedremo come evolveranno le cose nelle prossime ore, ma quello che è evidente fin da adesso è che, limitando la partecipazione al ballottaggio di domenica prossima, l’apparato del Pd sta pagando un prezzo piuttosto alto per garantire l’affermazione del suo segretario. L’idea che per accedere al secondo turno si debba portare una «giustificazione » (come a scuola!), e che ci sia un organismo politico (il «Coordinamento Provinciale delle Primarie Italia Bene Comune », in pratica i funzionari del Pd) deputato a vagliare se la giustificazione è valida oppure no, è semplicemente grottesca, un buffo riflesso burocratico-stalinista che rischia di ritorcersi contro chi l’ha inventato. Perché è vero che chiudere l’accesso al ballottaggio avvantaggia Bersani, che ha già vinto al primo turno, ma è anche vero che, sul piano simbolico, avvantaggia Renzi, se non altro perché mostra di che pasta sono gli apparati per la cui rottamazione il sindaco di Firenze si batte. Senza contare la reazione di chi, escluso dal ballottaggio, negherà il suo voto al Pd alle elezioni vere, un sentimento e un’intenzione che ho già avvertito da più parti.

L’attenzione del pubblico e dei media su questi due nodi, tuttavia, rischia di non farci cogliere la straordinaria trasformazione del paesaggio politico che – in questi mesi – si sta producendo sotto i nostri occhi. Non solo la nascita di protagonisti nuovi (Grillo e il Movimento cinque stelle) e l’autodistruzione di protagonisti vecchi (Berlusconi e il Pdl), ma la vera e propria mutazione che sta scuotendo il maggior partito della sinistra. La sfida di Renzi, anche se dovesse terminare domenica con una sconfitta, sta cambiando e cambierà definitivamente il Pd. Dopo quella sfida, e grazie a quella sfida, il Pd avrà per la prima volta – accanto alla componente socialdemocratica tuttora maggioritaria – una componente liberalsocialista o di «sinistra liberale » di peso politico non trascurabile. Il Pd del futuro non sarà più un partito diviso fra comunisti e cattolici, o fra massimalisti e ortodossi, ma un partito in cui la componente socialdemocratica (oggi ben rappresentata da Bersani) e quella liberaldemocratica (oggi ben rappresentata da Renzi) competeranno per la guida del partito.
Il processo non è ancora compiuto, perché la componente liberale sta prendendo forma e coraggio solo in questi mesi, e quella socialdemocratica non è ancora pienamente tale: se lo fosse Renzi non verrebbe trattato da tanti compagni e compagne di partito come un traditore, un emissario del nemico, un corpo estraneo, o un ospite indesiderato. Ma la direzione di marcia è questa, ed è piuttosto veloce, a giudicare dai consensi che Renzi ha conquistato in pochi mesi.

Ma c’è anche un altro aspetto che merita forse di essere notato. Il mondo politico della seconda Repubblica è oggi un incredibile cimitero di rovine, su tutti i piani. Quasi tutti gli uomini e le donne che hanno occupato gli schermi televisivi negli ultimi venti anni hanno perso ogni credibilità. In giro non si sentono più idee ma solo «dichiarazioni » di nessun interesse, messaggi più o meno in codice ad uso e consumo dei soli politici. I partiti si sono dissolti, travolti dalle inchieste giudiziarie e dall’indifferenza dei cittadini. La destra è un’armata allo sbando, senza progetti e senza senso del ridicolo. Il centro nasconde, dietro l’evocazione rituale – quasi un mantra – di Monti e della sua agenda, il suo vuoto spinto di idee e di uomini.

In questa situazione il Partito democratico, di cui personalmente ho sempre visto e sottolineato gli immensi difetti, si staglia come l’unico «monumento » della seconda Repubblica che ha saputo sopravvivere al terremoto che il ceto politico ha provocato a sé stesso. Ha un’organizzazione, una rete di sedi e di militanti, un dibattito interno. Con le primarie ha saputo creare l’unico evento significativo di riavvicinamento dei cittadini alla politica. E con Renzi e Bersani ha offerto due candidati che possono piacere più o meno a ciascuno di noi, ma sono comunque fra i migliori politici in circolazione in Italia.

Insomma il Partito democratico gode oggi di un prestigio relativo altissimo. Un prestigio che è tanto più significativo, o sorprendente, se pensiamo che anch’esso è coinvolto in diverse inchieste, anch’esso è pieno di personaggi che non avrebbero reso orgoglioso Enrico Berlinguer. E’ questo prestigio relativo che spiega il fatto più interessante del nuovo panorama politico che si è andato consolidando negli ultimi mesi: il dibattito programmatico, le alternative fra cui scegliere, le poche idee sulle quali vale la pena scontrarsi, sono ormai quasi tutte dentro il Partito democratico. Ai suoi militanti, o a molti di essi, tutto questo sembra divisione, lacerazione, una ferita dolorosa. A Gramsci, invece, sarebbe parsa una (strana) forma di egemonia. La società italiana è così allo sbando che l’ultimo partito rimasto, anch’esso piuttosto logoro, disastrato e pieno di acciacchi, rischia di diventare l’unico luogo in cui si gioca davvero il futuro del Paese. Ecco perché la competizione fra Renzi e Bersani non indebolisce il Partito democratico, ma semmai lo rende più capiente, più capace di intercettare gli umori della società esterna. C’è solo da sperare che questa opportunità sia colta e coltivata, piuttosto che gettata al vento: magari anche lasciando che, domenica, chi vuole votare sia libero di farlo.


Così Bersani usa il paracarro per fermare Renzi
di Francesco Damato
(da “Il Tempo”, 30 novembre 2012)

Per valutare la paura della vecchia nomenclatura comunista, e democristiana di sinistra, di fronte alla prepotente novità costituita dal ballottaggio che Matteo Renzi è riuscito a imporre a Pier Luigi Bersani nelle primarie di coalizione del cosiddetto centrosinistra, bastava vedere ieri davanti alle telecamere la faccia e sentire la voce concitata di Luigi Berlinguer. Il quale, a ottant’anni ben compiuti e pur densi -non c’è dubbio- di studi, d’insegnamento universitario e di attività politica, svolta in Parlamento, al governo come ministro della Pubblica Istruzione e al Consiglio Superiore della Magistratura, deve le sue attuali funzioni di presidente dei probiviri del Pd e della commissione, o comitato, come si chiama, di garanzia delle primarie, soprattutto al ricordo, al rispetto e all’affetto che in tanta parte dei suoi compagni si nutrono ancora per il cugino Enrico. Mi riferisco naturalmente allo storico segretario del Pci morto sul campo nella primavera del 1984, devastato da un ictus durante un comizio a Padova, nel pieno dello scontro con un «eretico » della sinistra quale egli considerava il leader del Psi Bettino Craxi, arrivato l’anno prima addirittura, per i suoi gusti, alla guida di un governo di coalizione fra democristiani, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali. Tocca ora a un altro «eretico » della sinistra, Matteo Renzi appunto, questa volta non fuori ma ben piantato in quella versione ultima del Pci che è il Pd, turbare di notte e di giorno i vecchi compagni, subito confortati da Luigi Berlinguer. Che ha raccolto e condiviso con rapidità a dir poco sospetta le proteste del concorrente di Renzi, cioè il segretario non certo ininfluente del partito, e dei tre corridori appiedati dall’esito del primo turno, contro la mobilitazione che il sindaco di Firenze sta cercando di attivare con i mezzi antichi e moderni della pubblicità attorno al ballottaggio di domenica prossima. Al quale le stesse regole delle primarie, non le invenzioni o stravaganze di qualcuno, consentono che cerchino di registrarsi e poi di partecipare anche quanti non lo hanno fatto domenica scorsa, pur dovendone motivare le ragioni ed esponendosi naturalmente al rischio di vedersele bocciate dagli appositi comitati. Ebbene, è bastata l’idea che queste richieste, grazie anche all’accesso per posta elettronica, diventassero superiori alle aspettative, o agli interessi, dei vertici del partito perché questi perdessero più o meno letteralmente la testa. E gridassero per bocca addirittura della massima autorità di garanzia del Pd, il povero – a questo punto – Berlinguer, contro i tentativi di «inquinare l’informazione », di «ingannare gli elettori » e via dicendo. I tentativi cioè di ampliare la base elettorale del primo turno a tal punto da poter compromettere la vittoria che a tavolino Bersani sente di avere già in tasca per «il profumo di sinistra » che Nichi Vendola sta diffondendo a suo favore in quel 15 per cento di elettori che al primo turno si sono schierati con il governatore della Puglia. Se è «l’inferno » quello che i sostenitori di Renzi volevano e vogliono provocare, come qualcuno di loro si è lasciato scappare spingendo quanta più gente possibile a cercare di registrarsi, Berlinguer ha opposto agli uni e agli altri «il paradiso ». Non quello però degli angeli e dei santi evocato nel primo «confronto » televisivo di queste primarie da Bersani, quando manifestò la sua devozione, diciamo così, per Papa Giovanni, ma il paradiso della normalizzazione. Una specialità, quest’ultima, che la tradizione comunista conosce bene quanto quella, opposta, della rivoluzione. Annunciare e perseguire il paradiso della normalizzazione significa chiudere a doppia o tripla mandata i registri delle iscrizioni al ballottaggio. Limitarle al massimo. Respingerne il più possibile per mettere quanto più al sicuro il risultato atteso da Bersani. Il quale, incauto, si è arroccato nella difesa della platea degli elettori del primo turno dicendo: «Non mi sposto ». Ha deciso insomma di trasformarsi in un paracarro, a dispetto delle aperture che gli vanno riconosciute nella fase preparatoria del primo turno. Ma anche i paracarri, si sa, specie quelli posticci, fanno prima o dopo una brutta fine. Ciò che il segretario del Pd e i suoi garanti più o meno ufficiali stanno sottovalutando è il rischio, per loro, non di contenere ma di moltiplicare la capacità d’urto e l’appeal di Renzi. Che, quanto più alto risulterà il numero delle iscrizioni chieste ma negate al secondo turno delle primarie, tanto più potrà validamente protestare per quelle procedure e per quei metodi che già ieri egli ha giustamente definito «bulgare », commentando i ricorsi contro le iniziative dei suoi sostenitori. E potrà considerarsi ed essere considerato, fuori ma anche dentro il partito, il vincitore morale di un ballottaggio perduto solo per una gestione chiusa, burocratica e partigiana di una consultazione risultata così fortemente gradita dagli elettori. Le resistenze immediatamente opposte ieri dai vertici del Pd ai tentativi di allargare le maglie della partecipazione al voto di domenica aiutano a capire meglio anche il basso profilo scelto personalmente da Bersani nella gestione televisiva del primo turno. Quando, in particolare, egli volle tenersi lontano dalle utenze della Rai per il primo e unico confronto fra tutti i candidati preferendo quelle più contenute di Sky. Costretti per ragioni, diciamo così, di decenza mediatica a non sottrarsi invece alla Rai per il confronto tra i due protagonisti della prova finale, i sostenitori di Bersani sono rimasti impressionati non solo e non tanto dalla prova di maggiore freschezza data da Renzi, naturale per ragioni non foss’altro anagrafiche, ma dalle cifre dell’audience. I sei milioni e mezzo di telespettatori richiamati l’altra sera dall’appuntamento con i protagonisti del ballottaggio sono stati più del doppio dei tre milioni e centomila elettori del primo turno. Roba da fare rizzare i capelli non dico a Bersani, che non li ha, o quasi, ma a quei parrucconi di compagni, e compagne, di provenienza comunista o democristiana, accomunati dal panico di una esondazione di quel guastafeste che è e si chiama Renzi. Con il quale però essi sono comunque destinati a continuare a fare i conti. Un osso duro che probabilmente farà loro rimpiangere persino i tempi delle guerre «puniche » con Silvio Berlusconi.


Sull’avvicinamento dei moderati a Renzi, Maurizio Belpietro, qui.


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Bart