LETTERATURA: la volta che oltrepassammo eboli
27 Ottobre 2007
di Gaetano Cappelli
[Gli ultimi romanzi di Gaetano Cappelli: “Parenti lontani”, Mondadori, 2000; “Il primo”, Marsilio, 2005; “Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo”, Marsilio, 2007]
la prima volta che oltrepassai eboli fu per andare al mare, con mia madre. proprio come un buon numero di bambini in tutto il resto d’italia, anch’ io potevo godere del nuovo benessere che si stava diffondendo nel paese dopo la guerra e che avrebbe dato vita al famoso indimenticabile boom degli anni 60, gli anni più belli della nostra vita.
mi ricordo la striscia celeste che brillava all’orizzonte, le scale antiche, dai grandi vasi di fiori, che scendevamo per arrivare in spiaggia, la cabina color pastello, le lame di luce che ne attraversavano le assi, che illuminavano un vortice di pulviscolo scintillante, il pube rosso dell’amica di mia madre.
mi ricordo la seicento, il moplen, il bicchiere appannato, la bibita frizzante che bevevo in quelle mattine di felicità pura.
era coca cola.
la seconda volta che oltrepassai eboli fu con la mia grande grassa famiglia meridionale di zii, cugini, cugine soprattutto.
mi ricordo due case gemelle sul litorale di fiumicino, due grossi cubi metafisici dispersi su una spiaggia infinita spazzata dal vento che piega i gigli di mare. sono bianchi. e c’è un ragazzo che ci cammina sopra, sopra la sabbia,  con dei bellissimi stivali alla tex willer e i capelli lunghi.
mi ricordo  questo grande terrazzo, su al posto del tetto, io che faccio finta di leggere l’uomo a una dimensione. un vero mattone. mentre ascolto a radio montecarlo herbert pagani che parla d’amore.
mi ricordo la radiocronaca dall’isola di wight. tre giorni di pace musica e amore. io che mi tolgo il costume e rimango nudo come loro. mi illudo d’essere libero come loro mentre la sagoma azzurra come di una balena alata balugina lontano. mio cugino che arriva e urla lu iumbo lu iumb. urlato come è scritto. io  mi guardo l’attrezzo, tra le gambe: be’, non è poi così male ma la similitudine mi pare esagerata. ha appena visto atterrare infatti, uno dei primi boeing 747, per le loro dimensioni ciclopiche chiamati appunto jumbo.
mi ricordo noi, un’intera grande famiglia meridionale, Â che andiamo a fiumicino a vederli, io che mentre si alzano in volo, poggiato alla balaustra, tocco le sise di mia cugina. ci provo, almeno.
mi ricordo che mi innamoro di una ragazza bellissima, talmente bella da star  male,  in un bar lì vicino mentre  il  juke box suona una canzone di john lennon con la plastic on band e lei, la ragazza bellissima, che nemmeno mi si fila. io che ancora la ricordo. mi ricordo infatti.
mi ricordo la foto che ci scattiamo davanti all’altare della patria, quell’estate. un’intera grande famiglia meridionale. io ho degli occhiali alla gino paoli, una faccia da cretino e i capelli di un mese, cortissimi per me. lunghi per mio padre.
la terza volta che supero eboli è in treno. ci sono i fratelli salvia con la mamma. lei professoressa parla con mio padre professore. io osservo i figli. hanno bellissimi pantaloni di velluto liscio a zampa d’elefante color verde muschio, color tabacco, e stivaletti e capelli lunghi stile isola di wight. li trovo di un’eleganza favolosa. Â
mi ricordo le gole del fiume che si vedono dal treno mentre mi dico che voglio essere anch’io come loro.
da quel momento supero eboli ogni giorno quando ascolto un magumma, leggo ginsberg, faccio un viaggio in autostop fino ad amsterdam, mi lascio crescere i capelli fino alle spalle, vado a napoli a sentire l’incredible string band, metto degli occhialini tondi alla bob fripp, fondo un gruppo di musica orientale – chiamato mandala ma da quelli che ci ascoltano detto: mandalafanculo.
giustamente. infatti io suono il violino come un cane.  mi iscrivo a  roma, a filosofia.
capisco che ho fatto una cazzata.
capisco per la prima volta che sono meridionale quando divento studente fuorisede in roma – finallora, per esempio, non avevo mai fatto caso al mio accento strascicato, né tanto meno che andava corretto.
in una mattina d’inizio  autunno – l’aria era particolarmente lieve – ero salito su una carrozza di seconda classe per la capitale con una valigia e  il solito  violino.  nonostante le quattro lire che avevo in tasca, ero in estasi: il mio cuore traboccava di  speranze e desideri incontenibili.
non so bene cosa volevo diventare, comunque durante le sei ore che durò il viaggio non feci altro che pensare alla mia vita futura e  al destino di gloria che senz’altro m’aspettava.
la prima notte la passo all’esercito della salvezza – anche se devo dire in una camera singola. ci misi un quarto d’ora a leggere, stravolto dallo sconforto, il lungo regolamento appeso dietro la porta e alla fine, guardando la coperta rattoppata, le pareti gibbose, il pavimento impreziosito di scaracchi, mi parve che nonostante la meticolosità con cui era stato redatto mancasse la norma principale: vietato suicidarsi.
da quella notte, per molte altre notti, vagai ospite  tra case di studenti ladri, artistoidi, tossicomani, terroristi, semplici perdigiorno: conobbi persone che mai avrei conosciuto nel mio fondo di provincia – e né avrei voluto conoscere. Finché  finalmente, mi sistemai, provvisoriamente pensavo, nell’appartamento sulla collatina di uno che a potenza sì e no salutavo, insieme a sei altri fuorisede: cinque basilischi assoluti e un calabrese guest star.
riesco comunque a diventare corrispondente romano di  re nudo, una delle riviste di tendenza  del momento. mi sento più alto di una spanna. non sono più il povero fuorisede, dall’accento sgradevole che gli studenti in sede – romani di merda – evitano. certo non guadagno una lira, ma vuoi mettere la soddisfazione di  vedere il proprio nome su re nudo, un giornale vero, con un suo sofisticato pubblico, distribuito in tutt’italia e, addirittura, fuori dall’italia.
quando pubblico, insieme a mio fratello tomangelo, minimal trance music ed elettronica incolta, libro a tutt’oggi fondamentale sulle musiche dell’estasi e il  primo sull’argomento in italia in europa nel mondo, penso d’aver superato definitivamente definitivamente eboli.
invece torno a potenza.
non c’è nemmeno bisogno di deciderlo. semplicemente non mi è mai nemmeno passato per la testa di andarmene.
scrive il grande poeta beat potentino leonardo d’aria nel suo indimenticabile metaponto beach
mi vesto
e mi rivesto
abbino le calze
alla cravatta
la cinghia alle scarpe
ma sono meridionale
mangh’ i cani
un cane bianco che corre nella notte, una giovane donna che attraversa un ponte battuto dal vento: ecco, io  trovo che queste immagini abbiano un’intrinseca  qualità epica, proprio come un meridionale che si confronta con la modernità .
un pomeriggio capito in uno di quei paesacci sperduti della basilicata. presento il  libro di un mio amico che ha sposato, pensa un po’, una finlandese, e il giardino del convento è pieno zeppo di paesani e finnici pervenuti fin qui per l’occasione, addirittura in abito tradizionale.
è tutto così verde e luminoso. c’è la banda che suona, il sole luccica sulle trecce bionde delle nordiche, sui loro abitucci folk – ce ne sono un paio belle da commuoverti  e il mio cuore palpita, infatti.
poi però la cerimonia prende il suo corso. parla il sindaco, l’assessore alla cultura, il parroco, il preside della scuola media, l’erudito di storia locale e quando arriva il mio turno ormai sono spompato tanto più che, nel frattempo, le finlandesine hanno risalito il pullman per riprendere il loro tour alla volta  di pompei, scavi e santuario incluso. così quando mi ritrovo a questa tavolata  per la cena – una specie di interminabile festino nuziale –  circondato da notabili panzuti e lady baffute, accetto l’invito di uno studente fuoricorso che, con l’aria di chi la sa lunga, mi dice perché non lo raggiungo al suo locale – «altro che ‘sto mortorio, lì sì c’è la vita », mi promette.
alle undici riesco finalmente a liberarmi e attraverso il paese, di nuovo col cuore pieno di aspettative.
è quasi estate. è quasi deserto – non fosse per il cane che sbadiglia sotto un tiglio. supero la piazza, la chiesetta, illuminata da un lampione fioco, il piccolo cimitero che proietta lunghe ombre e, quando ormai ho perso ogni speranza e inizio ad avere qualche brivido – il panorama in zona camposanto non è che sia dei più rassicuranti – gioisco alla vista dell’insegna: hard rock café. è che,  a parte la strizza, certe scoperte –  scoprire che c’è un hard rock café in simile posto di merda – mi entusiasmano sempre.
dentro, però ci trovo solo due o tre basilischi che guardano una partita via satellite, e un altro, più appartato,  che sfoglia la gazzetta dello sport in una nube di fumo bassa, densa,  pesante.
bevo una birra, visito il locale.
«no, non è serata … dovresti venire il sabato … è allora che c’è la vita sul serio » ammette il fuoricorso –  e, di nuovo, saranno passati una ventina di minuti appena, mi ritrovo solo e malinconico sulla strada. passa una 128 verde cassata, con coda di volpe e due ragazzi, basette lunghe  e orecchino. dallo stereo mi arriva una vecchia canzone degli alunni del sole e, in tutto questa desolazione, questo squallore, quest’abbandono, di colpo mi sento libero illuminato leggero… sperimento cioè, tipo un satori. ecco, questo per me è il sud. esperienze del genere, metti in provincia di parma, te le puoi solo sognare.
anche se quando pubblico il mio primo romanzo che sono nato a potenza non ce lo faccio scrivere.
il romanzo s’intitola floppy disk. è agile veloce moderno. almeno così mi pare.
pare anche al mio editore, il grande cesare de michelis che appena mi incontra mi chiede se sono  proprio di potenza.
sì, sono proprio di potenza, ma sulla copertina, come ho detto, non ce lo faccio scrivere. non è che mi scocci d’essere meridionale – anche se, diciamoci la verità , qualche problema continua a darlo. no, la cosa che proprio mi seccherebbe è che mi scambino per uno dei soliti scrittori meridionali. Â
la gran parte degli scrittori meridionali che allora si conoscevano, siamo verso la fine degli anni ’80, nell’89 per l’esattezza, e  non è tra l’altro che ce ne fossero tanti, comunque quelli che all’epoca si conoscevano, venivano fuori da esperienze del tutto diverse da quelle della mia generazione – chessò, le lotte contadine, l’emigrazione, l’impegno ideologico, il meridionalismo tout court insomma –  e finivano per riprodurre sulla pagina i cliché ormai logori, se non putrescenti, del neorealismo.
per me,  io sentivo invece il bisogno di un nuovo punto di vista, più ampio e ossigenante. per questo forse ambientai i miei due primi romanzi – due noir piuttosto stranianti romantici e, naturalmente,  truculenti – a roma e a napoli, ma anche queste due città viste da un’angolazione particolare la roma postmoderna dell’eur e dei parioli, e la napoli notturna e dei commerci intorno alle basi nato, mille miglia lontane, mi pareva, dal foclorismo locale e più vicine ai colori elettrici di una qualsiasi altra metropoli d’occidente.
ma a un certo punto mi scocciai di quei racconti di sangue, ce n’è già tanto nella vita. e fu allora che  il sud mi sembrò di nuovo una realtà praticabile da un punto di vista narrativo.
e questo accadde per la prima volta in mestieri sentimentali, il mio terzo libro, una raccolta di racconti che hanno per protagonisti appunto dei giovani al primo impiego e i loro amori, come li vedevo intorno a me, Â proprio a potenza. Â
intanto è il 1991, una data importante per la faccenda che sto per raccontarvi, e sto presentandolo a Milano, mestieri sentimentali, quando una tizia di una certa età salta in piedi e urla: «ma come  può accettare questa realtà senza sentire il bisogno di condannarla? »
«in che senso? » faccio io, distaccato.
«nel senso che invece di perdere tempo a raccontare le sue storielle sentimentali farebbe bene a dire che al  sud c’è la mafia… ».
«alto là , mia cara signora » la fermo, a questo punto un po’ risentito. «ora io potrei pure risponderle che anche a milano c’è qualcosa che non quadra. ma per farlo, visto che manca ancora un anno a mani pulite, dovrei essere un indovino. così mi limito a informarla che in basilicata, in Lucania, nella terra del cristo s’è fermato a Eboli insomma, la mafia non c’è, è assente, nisba. ma se pure ci fosse, perché dovrei essere proprio io a raccontarla?, non sono mica un giornalista… guadagno molto meno, oltretutto. » Â
sembrava di fatto che nascere al sud, oltre ai piccoli altri inconvenienti che questo comporta,  significasse poi anche essere condannati a scrivere di mafia, piuttosto che di turpi incesti o cupe storie di  famiglie in disgrazia. con mestieri sentimentali,  partendo da quel particolare momento che fa parte della vita di ognuno – quella sorta di rito d’iniziazione che costituisce l’ingresso nel mondo del lavoro dopo la giovinezza – il mio tentativo fu invece quello di raccontare storie di personaggi, per così dire, “normali”,  tipo: il giovane disoccupato che per vivere prepara frullati salutisti in una palestra frequentata da donne sessualmente propositive; il pittore esordiente a roma che, sul punto di diventare famoso, scopre in fin di vita il critico che stava per lanciarlo ed è costretto a tornarsene all’usbergo natale.
intorno a loro si muoveva la provincia del sud di quegli anni, popolata da una folta schiera di giovani, venditrici di cosmetici per esempio, o dj, o supplenti dalle frustrate velleità artistiche, o giornalisti esordienti di tivù locali ma anche donne in carriera, culturisti, maghi e fattucchiere televisive, che si inseguivano di racconto in racconto attraverso i luoghi tipici del vivere contemporaneo – uffici, aule d’università , palestre,  gallerie d’arte, locali notturni, readazioni televisive – costretti poi però a fare i conti con la realtà in cui vivevano, spesso quella di paesini di qualche migliaia di anime, abbandonati tra le montagne.
quello che più m’interessava era, insomma, descrivere l’impatto della modernità su un mondo considerato fermo, immobile, condannato, come ho detto,  agli stereotipi del neorealismo; un’idea che michele trecca mette bene in evidenza, quando parla di letteratura a trazione anteriore, una letteratura cioè “capace di dar conto della nuova realtà della globalizzazione sullo specifico sedimento ancestrale e in particolare sul costume giovanile”.
nigro,
oggi per fortuna le cose sembrano essere cambiate. prima di tutto gli scrittori meridionali sono un buon numero. anche in basilicata. tramutoli, lupo, sammartino, nigro, zungolo, brindisi, corraro, di consoli e spesso la quantità si trasforma, hegelianamente, in qualità .
per il resto, è chiaro che ogni scrittore possiede una sua propria voce – o almeno dovrebbe possederla – unica, particolare, riconoscibile. ed è pure chiaro che questa voce, come tutto, muterà con gli anni e l’esperienza, a volte anche in base alla storia che uno decide di scrivere, al posto in cui è ambientata. e, alla lunga, io penso, anche in base al luogo in cui chi scrive è nato.
è così per ogni espressione artistica, ed è probabile che sia così anche per la scrittura. come spiegare sennò  le passioni che di volta in volta sbocciano nei lettori per questo o quel tipo di letteratura, dalla remota ondata dei sudamericani, agli irlandesi, ai canadesi? in un mondo che va sempre più perdendo i suoi confini si ricerca, di fatto, un certo suono, un ritmo insolito, un timbro che viene da un posto preciso e in quel posto ti riporta con la forza di una di quelle canzoni capaci da sole di strapparti da terra e restituirti a un universo sconosciuto, distante e perciò stesso degno d’essere esplorato e, forse, amato.
amato già . uno dei romanzi che ho più amato negli ultimi anni – nonostante sia un romanzo non pienamente risolto: ma è meraviglioso farsi trasportare dalla sua caotica corrente –  è solomon gursky è stato qui del mai troppo compianto mordecai richler. è un romanzo ambientato nelle lontane gelide dimenticate terre del canada. un romanzo grandioso, uno di quelli che, come dice harold bloom a proposito del capolavoro in letteratura, ci donano più vita, riuscendo cioé a comunicarci lo straordinario, nonostante sia pieno di tutti i luoghi comuni uno possa immaginare sul canada, che è quindi popolato di pionieri beoni, eschimesi superstiziosi, famiglie di ricchi senza scrupoli, giornalisti alcolizzati, belle e selvagge donne, predicatori visionari, ma  in modo però che  tutto, e questo è il fattore rivitalizzante, rientri nella vita di un classico antieroe contemporaneo.
ecco, oggi io sono più aperto e possibilista di una volta e addirittura mi auguro che qualcuno tra noi, in basilicata,  riesca a scrivere un’epopea simile partendo proprio da materiali analoghi a quelli che mordecai ha usato e che per noi potrebbero essere proprio le vecchie storie di briganti sanguinari, avidi latifondisti, nobili viziosi, contadini rivoluzionari, maghe invasate, e che una volta personalmente aborrivo, con l’ingrediente, però che per me rimane essenziale della contemporaneità : cioè con un protagonista dei giorni nostri che in qualche modo si trovi coinvolto da quei personaggi del mito. beh, visto che siamo tra noi posso confessarlo, quel romanzo sto provando a scriverlo io.
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